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Il risarcimento dei danni da ingiustificato distacco della linea telefonica

di Andrea Stazi Claudia Stazi Distacco linea telefonica(nota a Cassazione Civile, Sez. III, 8 novembre 2007, n. 23304 – Telecom Italia Spa c. Sig. C., in corso di pubblicazione in Diritto dell’Internet, n. 2/2008) 1. I profili principali della decisione della Suprema Corte. La sentenza in commento afferma il principio secondo cui il distacco della linea telefonica da parte del gestore di un servizio di telefonia fissa concretizza una ipotesi d’inadempimento contrattuale, quando la decisione non sia stata preceduta dai dovuti accertamenti in ordine al motivo del mancato pagamento della bolletta telefonica. Una condotta siffatta costituisce violazione dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto, con la conseguenza che il gestore del servizio è tenuto a risarcire i danni che siano eventualmente derivati alla controparte, a causa della condotta inadempiente posta in essere dalla compagnia telefonica. Peraltro secondo la Cassazione, il risarcimento del danno da lucro cessante, connesso alla impossibilità per l’utente di fruire del servizio di telefonia, è dovuto soltanto nell’ipotesi in cui il richiedente riesca a fornire la prova, anche per presunzioni, circa la esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile e apprezzabile che risulti conseguenza diretta dell’inadempimento, in termini di certezza o almeno con un elevato grado di probabilità. La Suprema Corte affronta quindi il tema della valutazione equitativa del danno, chiarendo come – pur essendo un principio consolidato quello per cui l’esercizio del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità – tale principio possa trovare applicazione soltanto qualora ricorrano determinati presupposti. 2. L’inadempimento contrattuale da parte della società fornitrice: correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto. L’ambito nel quale è maturata la controversia nell’oggetto del caso di specie è quello del rapporto di fornitura di un servizio di telefonia fissa. Il gestore telefonico, non ricevendo comunicazione da parte dell’istituto finanziario delegato al pagamento della bolletta telefonica riguardo all’avvenuto pagamento della somma dovuta da parte di un utente, procedeva al distacco della linea telefonica del medesimo. Il fruitore del servizio di telefonia assumeva di aver subito un pregiudizio economico, in conseguenza della decisione della compagnia telefonica di procedere al distacco della linea telefonica, e richiedeva il risarcimento del danno. La prima considerazione concerne la individuazione della responsabilità. Nella fattispecie si è verificato un inconveniente inusuale: la banca ha omesso di comunicare alla compagnia telefonica che il cliente aveva regolarmente versato l’importo dovuto per il pagamento della bolletta telefonica. Si pone quindi il problema di individuare in capo a chi sia configurabile l’onere della prova circa la veridicità o meno dell’avvenuto pagamento. La compagnia telefonica, nella veste di ricorrente principale, assumeva che sarebbe stato onere dell’utente, una volta ricevuto l’avviso che non risultava pervenuto il pagamento della bolletta precedente, accertare il motivo della mancata comunicazione al gestore telefonico dell’avvenuto versamento dell’importo dovuto, e quindi informare la compagnia telefonica dell’inconveniente verificatosi. Al contrario, la Corte di Cassazione ha ritenuto del tutto infondato l’assunto della ricorrente, chiarendo come risulti piuttosto configurabile in capo alla società un onere di compiere ulteriori accertamenti in ordine al motivo del mancato pagamento, prima di procedere al distacco della linea telefonica. I giudici di legittimità hanno difatti precisato che l’unica attività cui l’utente sia tenuto è il pagamento della bolletta. La decisione di procedere al distacco della linea, senza preventivamente eseguire i dovuti accertamenti in ordine al mancato pagamento della bolletta, viola il principio di correttezza sancito all’art. 1175 c.c., nonché della buona fede nella esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c., con la conseguenza che risulta configurabile una ipotesi d’inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c.. L’esistenza di una ipotesi d’inadempimento contrattuale determina il sorgere di un’obbligazione di natura risarcitoria in capo al debitore (nel caso di specie il gestore telefonico), in base all’art. 1218 c.c.. Secondo tale norma il debitore è tenuto ad eseguire esattamente la prestazione dovuta; in mancanza, egli è inadempiente. L’inadempimento dell’obbligazione determina a carico del debitore l’obbligo di risarcire i danni arrecati al creditore. Nel caso sottoposto all’esame della Corte, si pone il problema del quantum che la compagnia telefonica debba corrispondere al soggetto danneggiato a titolo di risarcimento del danno. In particolare, viene in evidenza la questione dell’onere probatorio in relazione agli eventuali danni che siano derivati all’utente/creditore a titolo di lucro cessante, in quanto nella fattispecie, viene lamentata la perdita di ingenti guadagni determinata dalla impossibilità di utilizzare il servizio telefonico. Tale circostanza, secondo quanto assunto dal richiedente, avrebbe condotto ad un epilogo infruttuoso delle trattative in corso per la stipulazione di un contratto di società, con la conseguenza di generare un pregiudizio economico per costui, in termini di mancato guadagno; ciò in quanto la società, secondo quanto sostenuto dall’utente danneggiato, gli avrebbe assicurato un guadagno netto annuo minimo di duecento milioni di lire per l’intera durata della società, prevista come triennale. Secondo un orientamento oramai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, la liquidazione equitativa del lucro cessante, ex artt. 2056 e 1226 c.c., richiede comunque la prova da parte del richiedente, anche presuntiva, circa la certezza della sua reale esistenza; prova in difetto della quale non vi è spazio per alcuna attribuzione patrimoniale. Nel caso di specie, viceversa, non è stato dimostrato che le trattative intercorse fra l’utente e un commerciante coreano avrebbero portato alla stipulazione di un contratto di società in quanto non è stato prodotto a sostegno di tale tesi alcun documento scritto. Non è stata, inoltre, fornita alcuna prova a sostegno dell’assunto secondo cui il contratto avrebbe avuto comunque durata non inferiore a tre anni, né infine che dalla futura attività di commercio di preziosi sarebbe comunque derivato, come invece asserito dal richiedente, un guadagno netto annuo pari a duecento milioni di lire. I giudici di legittimità, pertanto, hanno ritenuto fondate le ulteriori censure della compagnia telefonica avanzate in relazione alla mancata prova del danno da lucro cessante, nonché alla liquidazione del danno in via equitativa. Con riferimento al primo profilo, la Corte di Cassazione ha rilevato come non sia stata fornita alcuna prova circa l’effettiva produzione di un pregiudizio economico che appaia, anche in base all’“id quod plerumque accidit”, connesso all’illecito in termini di certezza o almeno con un elevato grado di probabilità. Per quanto concerne la liquidazione equitativa del danno, la Corte ha censurato la sentenza del giudice di merito in quanto la Corte d’Appello ha invocato, inammissibilmente, il fatto notorio sotto forma dell’id quod plerumque accidit con riguardo alla durata del contratto di società, e quindi ai guadagni che ne sarebbero conseguiti, per giustificare il riconoscimento all’utente di un risarcimento esorbitante, pari addirittura a trenta volte la somma liquidata dal giudice di primo grado. 3. L’applicazione del principio di buona fede. Un primo profilo che risulta opportuno esaminare è rappresentato dall’applicazione del principio di buona fede. I giudici di appello avevano rigettato il ricorso proposto dalla compagnia telefonica, precisando che la società avrebbe dovuto svolgere ulteriori accertamenti in ordine al mancato pagamento della bolletta, prima di procedere al distacco della linea. La società, secondo quanto statuito dai giudici di secondo grado, avrebbe violato i principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175-1375 c.c. Essa avrebbe dovuto assumere informazioni circa la causa del mancato pagamento prima di procedere al distacco della linea telefonica, in quanto, come precisano i giudici di merito, non sarebbe configurabile un onere in capo all’utente di accertamento delle cause che hanno impedito la comunicazione al gestore del servizio dell’avvenuto pagamento. Tale assunto viene confermato dai giudici di legittimità, i quali si premurano di chiarire come l’unico obbligo configurabile in capo all’utente risulti essere l’adempimento della prestazione risultante dal contratto, ossia il pagamento della bolletta telefonica. In particolare, deve rilevarsi come fra le norme del codice civile che richiamano i principi di correttezza e buona fede sia opportuno soffermare l’attenzione essenzialmente sull’art. 1375 c.c., poiché esso contiene una norma che risulta strettamente funzionale ad esprimere un precetto circa la condotta dei contraenti nella fase di esecuzione del contratto. D’altronde, occorre considerare come la norma in esame, pur contenendo una clausola generale che deve orientare la condotta delle parti nella fase dell’esecuzione del contratto, si esaurisca nel richiamo ad un principio assiologico: la buona fede; da ciò, derivano problemi di carattere interpretativo. La dottrina e la giurisprudenza, difatti, il più delle volte, si sono orientate a svolgere un ruolo di individuazione dei contenuti regolamentari e dei parametri valutativi implicati dalla norma contenuta nell’art. 1375 c.c., piuttosto che un intervento interpretativo del suo enunciato. Allo stesso modo, anche nella fattispecie in esame, la Corte si è concentrata sulla individuazione delle condotte che risultano idonee a concretare una violazione del principio di buona fede, senza però svolgere preventivamente un’operazione che risulta invece propedeutica alla possibilità di ricondurre una condotta fra quelle contrarie a buona fede: ossia l’esplicitazione del concetto stesso di buona fede. D’altronde, di recente, la Suprema Corte è giunta alla definizione del concetto di buona fede nella esecuzione del contratto, fornendo in tal modo un modello interpretativo per i casi a venire. I giudici della Suprema Corte hanno finito per riconoscere nella buona fede, intesa in senso etico come requisito della condotta, uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni, oggetto di un vero e proprio dovere giuridico. La condotta delle parti contrattuali appare così censurabile non soltanto nel caso in cui una di esse abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all’altra, ma anche nel caso in cui il suo comportamento non sia stato comunque improntato, «alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale». Correttezza e solidarietà, in questo modo, finiscono con l’essere i principi cardine della buona fede contrattuale. Il concetto in esame, inoltre, si è ulteriormente ampliato alla luce dei principi costituzionali, ed è stato inteso come una specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale previsti dall’articolo 2 della Costituzione. Sembra, pertanto, configurabile in capo alle parti del contratto un dovere di agire in modo da preservare ognuna gli interessi dell’altra; ciascuno deve cioè cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte. La Corte ha precisato, da ultimo, come anche la mera inerzia cosciente e volontaria, che si ripercuota negativamente sul risultato, contrasti con i doveri di correttezza e buona fede. 4. La valutazione del lucro cessante e l’onere della prova. Nel motivare la propria decisione, la Corte di Cassazione ha ripreso alcuni importanti principi in materia di liquidazione equitativa del lucro cessante, onere della prova e fatto notorio già enunciati nelle sentenze n. 1443 del 2003 e n. 15676 del 2005. In particolare, nelle sentenze richiamate dalla Corte, è stato chiarito che la liquidazione equitativa del lucro cessante, ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., richiede comunque la prova, anche presuntiva, circa la certezza della sua reale esistenza, prova in difetto della quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale. La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ribadisce la necessità che “dagli atti risultino elementi oggettivi di carattere lesivo, la cui proiezione futura nella sfera patrimoniale del soggetto sia certa, e che si traducano, in termini di lucro cessante o in perdita di chances, in un pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile, che non sia meramente potenziale o possibile, ma che appaia invece – anche semplicemente in considerazione dell’id quod plerumque accidit” – connesso all’illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di elevata probabilità”. La Corte precisa, quindi, che ai fini della liquidazione equitativa del lucro cessante è necessario che l’utente fornisca la prova, in primis, dell’esistenza di elementi oggettivi di carattere lesivo che si ripercuotano inequivocabilmente nella sfera giuridica del soggetto, ed inoltre che tale circostanza dia luogo ad un pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile – in termini di mancato guadagno – che appaia, anche sulla base di presunzioni, collegato all’illecito in termini di certezza o almeno con un grado elevato di probabilità. Al contrario, nella fattispecie in esame, non è stata addotta alcuna prova concreta a sostegno dell’assunto secondo cui il mancato funzionamento della linea telefonica avrebbe impedito un epilogo fruttuoso delle trattative in corso. Come evidenziato dai giudici di legittimità, la Corte d’Appello non aveva svolto alcuna considerazione sul punto della elevata probabilità di perdita di sicuro guadagno da parte del richiedente. Pertanto, la Suprema Corte ha giudicato insussistente il diritto dell’utente al risarcimento del danno da lucro cessante, discostandosi pertanto dalle conclusioni cui erano pervenuti i giudici dei precedenti gradi di giudizio. 5. La liquidazione equitativa del giudice. L’art. 1226 c.c. prevede che quando il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare esso sia liquidato dal giudice con valutazione equitativa. Costituisce principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui l’esercizio in concreto del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità. La Corte ha tuttavia precisato che, pur restando fermo tale principio, devono comunque censurarsi le ipotesi nelle quali la valutazione e la liquidazione del danno in via equitativa si traducano in decisioni ispirate a mero arbitrio. La Corte, pertanto, ha chiarito che il principio può trovare applicazione solo nei casi in cui il giudice dia conto del criterio equitativo utilizzato, la valutazione sia congruente al caso, e la concreta determinazione dell’ammontare del danno non sia palesemente sproporzionata per difetto o eccesso. Al contrario, nella motivazione del giudice di secondo grado non vi è una congrua spiegazione circa le ragioni per le quali dalla futura attività di commercio di preziosi sarebbe comunque derivato un guadagno netto annuo, per il richiedente il risarcimento, pari a duecento milioni di lire. Ancora, nella sentenza del giudice di merito non sono riportati i motivi per i quali il giudice ha accolto la tesi del richiedente secondo cui la società avrebbe avuto durata non inferiore ai tre anni. La Corte d’Appello ha ritenuto di riconoscere un risarcimento particolarmente ingente, pari a trenta volte la somma originariamente liquidata; ciò, da un lato, sulla base di una testimonianza “de relato” che riferisce di favolosi guadagni perduti dall’utente soltanto a causa del momentaneo distacco della linea telefonica, dall’altro, in virtù dell’assunzione a fatto notorio della circostanza che una società avente ad oggetto preziosi ha durata, secondo ciò che generalmente accade, non inferiore ai tre anni. I giudici di secondo grado, pertanto, si sono limitati a invocare – in maniera giudicata inammissibile dalla Corte di Cassazione – il fatto notorio sotto forma dell’“id quod plerumque accidit”, ed a fare riferimento a una testimonianza de relato al fine di determinare in via equitativa il risarcimento del danno. Dal momento che i giudici di secondo grado, nella determinazione del risarcimento dovuto, non hanno rispettato i criteri supra richiamati che devono essere seguiti dal giudice nella liquidazione del danno in via equitativa, tale decisione è stata censurata dai giudici della Suprema Corte. 6. Il cosiddetto fatto notorio. Nella caso di specie, al fine di giustificare la scelta di riconoscere un risarcimento notevolmente superiore rispetto alla somma originariamente liquidata, la Corte d’Appello ha invocato il cosiddetto fatto notorio, sotto forma dell’“id quod plerumque accidit”. I giudici di secondo grado non si sono soffermati sulla spiegazione delle ragioni per le quali hanno ritenuto di dover liquidare un risarcimento pari a trenta volte la somma liquidata dal giudice di primo grado. Tale scelta è stata motivata in particolare, come accennato supra, sulla base delle dichiarazioni di un teste, il quale riferiva di avere incontrato casualmente la controparte contrattuale del richiedente il risarcimento, la quale, in tale occasione, gli avrebbe assicurato che dall’attività avente ad oggetto preziosi, sarebbe derivato un guadagno netto per il richiedente di oltre duecento milioni di lire annui. A fronte di tale dichiarazione, nonché basandosi sul fatto assunto come notorio che la durata di un contratto di società avente ad oggetto preziosi non ha, secondo l’“id quod plerumque accidit”, durata inferiore ai tre anni, la Corte si è determinata a riconoscere un risarcimento di oltre trecento mila euro a titolo di lucro cessante. Ciò, sulla base di un operazione matematica, ossia la moltiplicazione della cifra che sarebbe derivata al richiedente il risarcimento annualmente – secondo quanto riferito dal teste – per la durata presunta del contratto di società. La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, ha richiamato sul punto una precedente decisione in cui era stato affermato che “il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo e al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso assolutamente rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. Di conseguenza, non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione d’analoghe controversie”. Viceversa, la Suprema Corte sottolinea come i giudici di secondo grado abbiano del tutto ignorato le indicazioni che emergono dalle decisioni della giurisprudenza di legittimità con riferimento a tale punto, cassando quindi la sentenza del giudice di secondo grado altresì in relazione a tale profilo. 7. L’ingiustificato distacco della linea telefonica e le garanzie per gli utenti: una tutela sempre più ampia dal sapore di “nuovo diritto”. La Corte di Cassazione è intervenuta su una tematica la quale, per la delicatezza degli interessi sui quali incide e dei profili giuridici coinvolti, non cessa di creare fastidiall’utenza e questioni interpretative agli operatori del diritto. In linea generale, il Codice delle comunicazioni elettroniche, d.lgs. n. 259/2003, all’art. 54, dispone che: «Qualsiasi richiesta ragionevole di connessione in postazione fissa alla rete telefonica pubblica e di accesso da parte degli utenti finali ai servizi telefonici accessibili al pubblico in postazione fissa è soddisfatta quanto meno da un operatore. Il Ministero vigila sull’applicazione del presente comma». Ciò, precisando quindi altresì il contenuto del diritto attribuito agli utenti, con la previsione secondo cui: «La connessione consente agli utenti finali di effettuare e ricevere chiamate telefoniche locali, nazionali ed internazionali, facsimile e trasmissione di dati, nel rispetto delle norme tecniche stabilite nelle Raccomandazioni dell’UIT-T, e deve essere tale da consentire un efficace accesso ad Internet». Per quanto concerne più specificamente il tema del distacco della linea telefonica, poi, all’Allegato 4 del Codice si dettano previsioni ad hoc per i casi di mancato pagamento delle fatture, in base alle quali all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (20) è attribuita la facoltà di autorizzare l’applicazione di misure specifiche per la riscossione delle fatture non pagate per l’utilizzo della rete telefonica pubblica in postazione fissa, misure che sono rese pubbliche e ispirate ai principi di proporzionalità e non discriminazione. Tali misure, salvi i casi di frode, ripetuti ritardi di pagamento o ripetuti mancati pagamenti e per quanto tecnicamente fattibile, garantiscono che sia interrotto solo il servizio interessato: la cessazione del collegamento per mancato pagamento delle fatture può avvenire solo dopo che l’abbonato ne sia stato debitamente avvertito. Una simile disposizione, vietando in principio la sospensione di servizi rientranti nell’ambito del servizio universale diversi da quello che specificamente formi oggetto della mora o dell’inadempimento (salvi i casi di frode o di ripetuti ritardi o inadempimenti), consente quindi al cliente di fruire delle prestazioni “minime” garantite dalla normativa comunitaria e nazionale vigenti sul servizio universale. Come risulta anche da queste articolate previsioni, la tematica della eventuale sospensione – nel caso di mancato o ritardato pagamento da parte del cliente del conto addebitatogli per l’utilizzo della linea telefonica, ovvero per singoli servizi – dell’intera prestazione di fornitura del servizio di telecomunicazione da parte dell’operatore rappresenta evidentemente una delle questioni più rilevanti nei rapporti fra operatori e utenti dein servizi di telecomunicazione. In particolare, la problematica può presentarsi sotto il duplice profilo: a) della sospensione da parte del cliente del pagamento dovuto per un servizio, richiesto o eventualmente da lui contestato; b) della eventualità che l’operatore, in caso di ritardato o mancato pagamento, sospenda servizi diversi da quello specificamente interessato dalla mora o dall’inadempimento. Sotto il primo profilo, rimane salva la possibilità per il cliente di sospendere il pagamento del singolo servizio oggetto di contestazione; fermo restando che, qualora la sua contestazione abbia esito negativo, egli potrà essere tenuto al pagamento di quanto dovuto con le eventuali indennità di mora che i singoli operatori abbiano legittimamente contemplato nelle loro condizioni generali di contratto. Sotto il secondo profilo, deve considerarsi che sussiste un insieme minimo di servizi i quali, rientrando nell’ambito del servizio universale (come definito nella normativa vigente), deve comunque essere di regola garantito a tutti gli utenti. Se in astratto una sospensione di altri servizi dedotti in contratto, congiuntamente alla sospensione del servizio specificamente interessato dalla mora o dall’inadempimento, potrebbe trovare in ipotesi una giustificazione nella libertà dell’impresa di scegliere le proprie strategie commerciali, il fornitore del servizio di comunicazione elettronica non potrà d’altronde sospendere la propria prestazione avente ad oggetto l’insieme minimo dei servizi forniti, a fronte del mancato o ritardato pagamento, poiché una misura simile non risulterebbe proporzionata all’inadempienza e contrasterebbe con i principi della normativa vigente. È esclusa, dunque, la possibilità della sospensione di quei servizi i quali forniscano le prestazioni minime che devono in ogni caso, nel rispetto della disciplina sul servizio universale, essere garantite. L’utente telefonico moroso o inadempiente deve comunque avere la possibilità di continuare a fruire di quell’insieme minimo di servizi che rientrano nel servizio universale, i quali non possono essere sospesi dall’operatore per l’inadempimento o il ritardo nel pagamento, se non nelle specifiche e tassative ipotesi indicate dal citato Allegato 4 del Codice delle comunicazioni elettroniche. Sul piano regolamentare, poi, l’AGCom ha di recente emanato la delibera n. 664/06/CONS (24), la quale è volta, fra l’altro, a raggiungere l’obiettivo di far sì che l’operatore continui a garantire la fornitura del servizio telefonico rientrante nell’ambito del servizio universale nel caso di mancato o ritardato pagamento di singoli prodotti o servizi, in coerenza e in attuazione dell’Allegato 4 del Codice delle comunicazioni elettroniche. La delibera n. 664/06/CONS dell’AGCom, inoltre, non limita la garanzia ai servizi rientranti nell’ambito del servizio universale, ma riguarda anche i “servizi complementari”, ai quali pure si estende, quindi, la tutela assicurata all’utenza dalla disciplina dettata nella delibera. Ciò, salvo ove ricorrano determinate condizioni che consentono all’operatore di sospendere il servizio, previste come detto dall’Allegato 4 del Codice, nonché dalle delibere dell’Autorità adottate in attuazione dell’allegato medesimo. La garanzia di continuità nella fruizione del servizio telefonico da parte dell’utente, basata sul divieto di sospensione dello stesso a fronte del mancato o ritardato pagamento (nei limiti accennati), dunque, parrebbe sempre più atteggiarsi – in considerazione dei suoi crescenti presidi normativi sia legislativi che regolamentari, e volendo utilizzare un concetto, enucleato dalla migliore dottrina, che risulta di notevole interesse nell’attuale scenario tecnologico – quale un vero e proprio “nuovo diritto”. Un simile diritto del resto troverebbe il suo fondamento costituzionale, in primis, nell’art. 15 della Costituzione,ed in particolare nella previsione dell’inviolabilità della libertà di corrispondenza attraverso ogni forma di comunicazione, ivi inclusa quindi quella telefonica. Questa libertà, poi, nel sistema legislativo e regolamentare vigente è declinata nella facoltà degli utenti, dietro “richiesta ragionevole”, di ottenere la connessione in postazione fissa alla rete telefonica pubblica e l’accesso ai servizi telefonici su questa offerti. Un simile inquadramento di principio, infine, contribuirebbe a fornire la chiara evidenza che l’illiceità di ogni ingiustificato distacco della linea, con il conseguente diritto al risarcimento dei danni, rappresentano “effetti naturali” del contratto di fornitura del servizio di telefonia fissa.

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