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Frequenze radiotelevisive tra diritto comunitario e diritto interno

di Andrea Stazi 1. Premessa. Disciplina “transitoria” ed “eredità tecnica”. La vicenda che ci troviamo oggi a commentare ha preso avvio a seguito della legge “Maccanico”, n. 249 del 1997, e del conseguente cosiddetto “Piano Analogico”, che nel 1998 ha definito l’allocazione delle risorse frequenziali individuando il numero di reti televisive nazionali e locali tecnicamente sostenibili. In base a questi valori, nonché a quanto previsto dal regolamento n. 78/98 dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (o AGCom) in cui, ancora in attuazione della legge Maccanico, l’Autorità ha stabilito le modalità di rilascio delle concessioni televisive private su frequenze analogiche, il Ministero delle comunicazioni – previa approvazione del disciplinare di gara – ha provveduto quindi ad assegnare le concessioni nazionali e locali: ciò senza però procedere alla conseguente assegnazione ai concessionari delle frequenze necessarie all’esercizio dell’attività. I provvedimenti concessori infatti, pur attribuendo ai destinatari il titolo ad installare e ad operare su una rete d’impianti di radiodiffusione televisiva, rinviavano l’assegnazione delle specifiche frequenze sulle quali esercire le diverse reti ad una determinazione successiva, da emanarsi al momento dell’attuazione del Piano di assegnazione delle frequenze. Tale determinazione, come noto, non è mai stata adottata. Ciò è avvenuto a causa della effettiva inattuazione del Piano, dovuta essenzialmente all’”eredità tecnica” lasciata dai precedenti decenni di carenza di una efficace razionalizzazione dello spettro frequenziale per la radiotelevisione (cosiddetto “far west dell’etere”). L’attuazione eÌ€ stata peraltro, di pari passo, resa impraticabile anche sul piano normativo da una disciplina cosiddetta ‘‘transitoria’’ ma riproposta per anni, dalla legge “Maccanico” del 1997, a quella del 2001 sul passaggio al digitale, fino alla legge “Gasparri”, n. 112 del 2004: una disciplina che in sostanza ha consentito a tutte le emittenti preesistenti, comprese quelle eccedenti i limiti anti-concentrativi fissati nelle leggi stesse e pertanto prive di concessione, di continuare a trasmettere. In questo scenario, la mancata assunzione del provvedimento di assegnazione delle frequenze nei confronti dell’emittente Europa 7 — la quale non essendo nella condizione di esercire una rete all’atto di presentazione della domanda di concessione, in quanto soggetto nuovo entrante privo di una rete d’impianti in esercizio, attendeva appunto l’assegnazione delle frequenze — ha dato luogo ad una lunga serie di azioni giudiziarie da parte della società titolare dell’emittente, che hanno condotto oggi alla sentenza della Corte di Giustizia. 2. Una sentenza “dialettica”. La decisione della Corte che ci troviamo a commentare può essere definita a mio avviso come una sentenza “dialettica”. Ciò in quanto essa allo stesso tempo, da un lato, a) testimonia quanto sia effettivo il dialogo fra le Istituzioni comunitarie, in quanto le osservazioni della Corte riguardo alla nostra normativa nazionale, già richiamate nei precedenti interventi e che in parte richiamerò di nuovo fra poco, fanno evidentemente da pendant alla procedura d’infrazione di recente aperta dalla Commissione UE sugli stessi temi nei confronti del nostro Paese; dall’altro lato, quindi, b) si rivolge, oltre che alle parti in causa, al legislatore italiano della materia in generale, con una sorta di “censura sistematica” che appare speculare alla procedura in corso presso la Commissione. La Corte, dunque, esprime una serie di osservazioni che coinvolgono la normativa italiana in materia in generale. Ciò, d’altronde, pur lasciando necessariamente trasparire, in alcuni passaggi la peculiarità della propria pronuncia e delle questioni ad essa sottoposte rispetto alla fattispecie “tipica” del rinvio pregiudiziale ed evidenziando poi come spetterà al giudice nazionale “declinare” i principi da essa affermati in chiave interpretativa; accenno solo, in proposito, ai profili dell’interesse transfrontaliero, il cui carattere di “certezza” nella fattispecie non eÌ€ chiaro bensiÌ€ lasciato alla verifica del giudice del rinvio (v. in specie punto 67 della decisione), e della collocazione temporale delle direttive da cui la Corte trae i criteri attuativi del principio di libera prestazione dei servizi in materia, ovvero le direttive del cosiddetto “pacchetto” di settore del 2002, successive ai fatti in causa (v. in specie punti 101-110 della decisione). Proprio queste peculiarità, peraltro, testimoniano evidentemente quanto la “questione italiana” in materia televisiva sia attualmente considerata rilevante e degna di attenzione da parte delle Istituzioni comunitarie. Ancora in argomento, vorrei porre sul tavolo un quesito fondamentale, la cui portata problematica (oltre ai profili derivanti dalle peculiarità della decisione che ho accennato poc’anzi), spero risulterà ancor più chiara fra poco: a seguito della sentenza della Corte di Giustizia, quali dovrebbero essere ora gli interventi più opportuni da parte dei giudici ed eventualmente delle autorità amministrative nazionali (considerando peraltro che in generale le decisioni interpretative della Corte in sede di rinvio pregiudiziale sono considerate vincolanti anche al di fuori della fattispecie che le hanno originate)? Essi saranno forse tenuti a disapplicare le disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte, con conseguente vuoto normativo (e caos tecnico-economico) nella materia? E poi, limitatamente alla fattispecie, dovranno reintegrare Europa 7 nel proprio diritto a vedersi assegnate le frequenze (opzione evidentemente di rilevante complessità tecnico-attuativa)? Ovvero limitarsi all’eventuale risarcimento dei danni (che attualmente sembrerebbe la via più agevolmente praticabile)? 3. Criteri giuridici, problemi “endemici” e “legislazione-fotografia”. Riguardo ai contenuti della sentenza della Corte, vorrei soffermare brevemente l’attenzione su due profili problematici, della fattispecie ed in generale del quadro normativo ad essa sotteso. Il primo di questi profili è relativo ai criteri “obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati” previsti dalle direttive comunitarie del 2002 per l’attribuzione di diritti d’uso delle frequenze in numero limitato, là dove ciò sia necessario per perseguire obiettivi d’interesse generale relativi ad esempio alla politica audiovisiva e all’efficienza del sistema. Il problema di fondo da tenere in considerazione, qui, è a carattere storico: le ragioni “endemiche” di mancata razionalizzazione del sistema che ho richiamato in precedenza hanno portato a una situazione di sostanziale “blocco” del settore, a cui il legislatore – considerando in primis l’incidenza politico-democratica della materia e la rilevanza degli interessi economici coinvolti – si è limitato ad adeguarsi per decenni (attraverso cosiddette “leggi-fotografia”): in questa situazione, evidentemente, non era neanche possibile immaginare se e quando mai si sarebbero applicati i criteri di obiettività e trasparenza delle direttive del 2002. Con la legge “Gasparri” poi, attraverso un insieme di norme basate sul criterio del ‘‘generale assentimento’’ (art. 23), in forza del quale in sostanza anche i soggetti privi di titolo abilitativo sono stati autorizzati di diritto alla prosecuzione dell’esercizio dell’attività radiotelevisiva, si è prodotto in concreto l’effetto di riconoscere legittimità ex lege alla situazione di quelle emittenti prive di concessione, in precedenza dichiarate dalla Corte Costituzionale ‘‘eccedenti’’ rispetto ai limiti anti-concentrativi stabiliti dalla legge “Maccanico”, che fino a quel momento avevano operato utilizzando risorse frequenziali sulla base di provvedimenti temporanei intervenuti ex post. Ancora, ulteriore testimonianza delle “difficoltà” del legislatore a intervenire sui problemi esistenti nel settore, per quanto avvertiti e tenuti in considerazione, è data dalla previsione del Testo Unico della radiotelevisione (art. 27, comma 2) secondo cui i soggetti non esercenti all’atto di presentazione della domanda, che abbiano ottenuto una concessione per la radiodiffusione televisiva in tecnica analogica, possono acquisire impianti di diffusione legittimamente eserciti. Sembra evidente come questa norma possa essere stata ispirata proprio dal fine di consentire a Europa 7 l’acquisizione di impianti di diffusione destinati alla creazione di una propria rete trasmissiva. Peraltro, da un lato tale facoltà poteva rintracciarsi già nelle normative precedenti (dalla legge “Maccanico” in poi), fatte comunque salve la complessità della costruzione di una tale rete nell’ambito della problematica situazione frequenziale televisiva italiana, nonché la difficoltà di reperire in concreto un numero sufficiente di operatori disposti a vendere i propri impianti e diritti d’uso sulle frequenze in modo da consentire ad un nuovo entrante di costruire la propria rete. D’altronde, appare comunque abbastanza singolare il fatto che il legislatore consenta ad un operatore di acquisire dei diritti d’uso su frequenze rispetto ai quali vanterebbe già un diritto pieno, essendo titolare di una concessione rilasciata dal Ministero competente. 4. I limiti del principio del pluralismo informativo. Altro profilo cui vorrei accennare brevemente è quello dei limiti del principio del pluralismo informativo, che rappresenta un po’ il “convitato di pietra” del ragionamento della Corte. Nella decisione la questione specifica relativa al pluralismo viene assorbita nella soluzione fornita riguardo alla libertà di prestazione dei servizi e ai suoi criteri di attuazione, ma nella fattispecie il pluralismo informativo resta evidentemente il pendant di tale libertà, ispiratore al pari di essa della decisione della Corte. D’altronde, vorrei proporre alcune brevi riflessioni sui limiti di attuazione di questo principio, a livello comunitario e nel nostro ordinamento, che peraltro evidenziano forse ancora di più come per la sentenza della Corte sia adatto l’appellativo di “dialettica” che ho utilizzato prima. Storicamente, i rilevanti interessi nazionali in gioco nella materia radiotelevisiva hanno reso quest’ultima una sorta di “terreno minato” per il diritto comunitario, con notevoli difficoltà per il legislatore a intervenirvi. Al riguardo, richiamo soltanto a titolo di esempio, da un lato, già a partire gli anni settanta, le ripetute reazioni degli Stati membri (in particolare della Francia) alla tendenza ‘‘espansiva’’ delle Istituzioni comunitarie nel settore, sviluppatasi dalla sentenza Sacchi del 1974 in poi. D’altronde, più di recente, si pensi agli “spiragli” lasciati nelle direttive comunitarie del 2002 per discipline nazionali peculiari nel settore audiovisivo, trasformati in vera e propria “disciplina speciale” dalla nostra legislazione nazionale, o al lungo e travagliato iter del processo di revisione della ‘‘direttiva TV senza frontiere’’ di recente giunto al termine. Nel nostro ordinamento, l’art. 21 della Costituzione garantisce al singolo il diritto di libera manifestazione del pensiero con i mezzi di cui egli abbia la disponibilitaÌ€ giuridica. Viceversa, non esiste alcun diritto di libera utilizzazione dei mezzi di diffusione considerato in sé e per sé, ed i presupposti oggettivi e soggettivi per l’uso dei mezzi stessi trovano la loro disciplina nelle specifiche disposizioni che le riguardano: dunque l’art. 21 Cost. proclama la libertaÌ€ di manifestazione del pensiero quanto al suo contenuto, e non con riferimento ai “mezzi” o ai “presupposti” oggettivi o soggettivi di esso. Questa impostazione, come eÌ€ stato autorevolmente evidenziato, non esclude peraltro che “il legislatore ordinario – a cui compete in principio (stante la riserva relativa di legge prevista negli artt. 41, comma 2°, e 42, comma 2°, Cost.), di disciplinare i presupposti oggettivi e i mezzi per l’esercizio della libertaÌ€ di manifestazione del pensiero – debba preoccuparsi del pregiudizio che subirebbe, nel suo contenuto, la stessa libertaÌ€ di manifestare il pensiero, qualora la disciplina dei presupposti oggettivi e dei mezzi ingiustificatamente ridondasse in violazione dello stesso contenuto del diritto di libera manifestazione”(Prof. Pace). In tal senso, ponendo l’accento sul principio pluralistico sotteso al 1° comma dell’art. 21, si afferma che la norma medesima pone un “vincolo finalistico” alla disciplina legislativa dei mezzi di diffusione, in base al quale tale disciplina deve essere volta essenzialmente a rendere possibile l’utilizzo dei mezzi di diffusione da parte del maggior numero possibile di soggetti, a beneficio dell’interesse generale all’informazione. Questa ricostruzione d’altronde, se pure in linea di principio condivisibile, si scontra in concreto con una realtaÌ€ normativa che contempla un numero di disposizioni sul tema assai ridotto, spesso consistenti in mere petizioni di principio o in norme secondarie, senza che risultino previsti presiÌ€di realmente cogenti ed efficaci. CioÌ€, come ho accennato prima, in considerazione del notevole impatto di simili misure a livello politico-democratico, al quale contribuisce anche la loro incidenza su altri diritti costituzionalmente garantiti fra cui specialmente quello d’iniziativa economica privata. Volendo passare in rassegna le principali norme poste a tutela del pluralismo a livello comunitario e nel nostro ordinamento, per quanto riguarda innanzitutto l’ambito comunitario vengono in rilievo, oltre che in limine le direttive comunitarie del 2002 (con l’affermazione generale dell’art. 8 della direttiva quadro ed i criteri di obiettivitaÌ€ e trasparenza cui ho accennato prima, pur con i loro problemi applicativi): a) una previsione della direttiva servizio universale relativa alla possibilitaÌ€ dell’imposizione di obblighi di ‘‘must carry’’, che consente agli Stati membri di introdurre ‘‘ragionevoli obblighi di trasmissione” per specifici canali e servizi radiotelevisivi nei confronti delle imprese; cioÌ€ a condizione peraltro che “un numero significativo di utenti finali di tali reti le utilizz(i) come mezzo principale per la ricezione di tali servizi di diffusione”; il che – nell’attuale settore audiovisivo italiano ancora dominato dalla fruizione analogica – esclude l’imposizione di tali obblighi sulle nuove piattaforme digitali; b) vi sono poi alcune norme, peraltro di impatto evidentemente limitato, contenute oggi nella nuova direttiva “Tv senza frontiere”. In particolare: – si richiede agli Stati membri di riservare almeno il dieci per cento del tempo di trasmissione ad “opere europee di produttori indipendenti”; – gli S.M. possono adottare misure finalizzate alla eliminazione o attenuazione degli effetti discriminatori che si avrebbero da trasmissioni non liberamente accessibili (esempio pay-tv) di eventi che essi considerino “di maggiore importanza per la societaÌ€”, tramite la predisposizione di apposite liste di tali eventi; – gli S.M. devono assicurare che, al fine di predisporre “brevi estratti” dell’attualità, ogni emittente comunitaria possa avere accesso, a condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie, agli eventi di elevato interesse pubblico che siano trasmessi in regime di esclusiva; c) ancora, vi sarebbe poi la previsione “generalissima” di cui all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (o CEDU), che peraltro sarebbe in astratto coercibile, oltre che attraverso un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, mediante l’applicazione sia dell’art. 6, comma 2, del Trattato dell’Unione europea, sia dell’art. 117 della Costituzione; ma la mancata pronuncia della Corte sul punto relativo all’art. 10 CEDU nella sentenza che oggi commentiamo certo non trasmette ottimismo sull’utilizzo di questa fonte a livello comunitario… Per quanto riguarda poi le norme sul pluralismo nel nostro ordinamento, un primo insieme di esse eÌ€ relativo ai criteri per la verifica della sussistenza di cosiddette “posizioni dominanti” (ossia piuÌ€ correttamente lesive del pluralismo) nel settore: al riguardo la legge “Gasparri” ha previsto che l’AGCom, dopo aver individuato il mercato rilevante secondo i principi indicati nella direttiva quadro, eÌ€ tenuta appunto a verificare che non si costituiscano tali posizioni nel ‘‘sistema integrato delle comunicazioni’’ (cosiddetto SIC) e nei “singoli mercati che lo compongono”, ed inoltre che siano rispettati una specifica serie di limiti anti-concentrativi ulteriori fra cui in particolare quelli relativi ai divieti per un singolo soggetto di diffondere più del venti per cento dei programmi radiotelevisivi e di conseguire ricavi superiori al venti per cento dei ricavi complessivi del SIC. Ancora, per la fase transitoria verso il definitivo passaggio alla tv digitale è previsto un limite al numero complessivo di programmi trasmissibili da parte di ciascun soggetto pari sempre al venti per cento. In astratto, quanto meno la previsione relativa all’intervento sui singoli mercati che compongono il SIC risulterebbe di per sé uno strumento efficace a tutela del pluralismo. In particolare, all’AGCom è affidato poi il compito di adottare tutti i provvedimenti necessari per eliminare o impedire il formarsi delle predette “posizioni dominanti, o comunque lesive del pluralismo’’. Peraltro, in concreto, anche lo strumento dei singoli mercati rilevanti, oltre a quello del “macro-contenitore” del SIC, testimoniano ancora una volta – ove fosse necessario dopo i decenni di vuoto giuridico e gli ultimi anni di cosiddette “leggi-fotografia” – la perdurante carenza di norme effettivamente cogenti a tutela del pluralismo informativo nel settore audiovisivo: la valutazione del livello di pluralismo avviene, da parte del medesimo organo e secondo gli stessi principi del quadro regolatorio per le analisi dei mercati delle comunicazioni elettroniche, senza che la legge indichi alcun parametro specifico per l’individuazione in concreto dell’esistenza o meno di pluralismo. 5. Conclusione. Il passaggio al digitale e gli interventi dell’AGCom. In conclusione, la sentenza che oggi commentiamo giunge in un momento in cui il settore audiovisivo sta affrontando la delicata fase di transizione alla tecnologia trasmissiva digitale, costellata di ostacoli e complessitaÌ€ tecniche e giuridiche. Consci dell’importanza di delineare l’assetto normativo della definitiva transizione dalla televisione analogica a quella digitale, l’AGCom ed il Ministero delle comunicazioni hanno di recente raggiunto con gli operatori del settore un accordo sulla configurazione e sul numero delle reti digitali terrestri da realizzare da parte delle televisioni nazionali e locali (per ora nella regione Sardegna e in seguito nel resto del territorio nazionale; v. delibera AGCom n. 53/08/CONS) in vista dello switch-off della televisione analogica. L’accordo scandisce tempi e modi di un razionale passaggio al digitale, attraverso un necessario (anche alla luce della recente Conferenza di Ginevra sulla suddivisione delle risorse frequenziali fra i vari Stati europei) quanto complesso intervento di riordino della situazione esistente. In una serie di delibere adottate negli ultimi anni poi l’AGCom, spesso in collaborazione con il Ministero delle comunicazioni, ha proceduto a “declinare” il piuÌ€ possibile i principi a tutela del pluralismo enunciati nelle disposizioni legislative, in particolare dettando norme per l’accesso alla capacitaÌ€ trasmissiva degli operatori di rete da parte dei fornitori di contenuti indipendenti. In tal senso, fornendo attuazione concreta ad una previsione giaÌ€ della legge n. 66/2001 e mai applicata prima, una recente delibera (n. 109/07/CONS) ha definito i criteri per l’allocazione a tali soggetti del 40% della capacitaÌ€ trasmissiva nei multiplex digitali di Rai, Mediaset e Telecom Italia Media, al fine di favorire il pluralismo e di accelerare la transizione al digitale terrestre. L’AutoritaÌ€ sta quindi procedendo ad assegnare, tramite una procedura competitiva, la capacitaÌ€ trasmissiva agli editori indipendenti, alle emittenti nazionali che richiedano il completamento della copertura delle proprie reti e alle emittenti locali che non dispongono di impianti in digitale. Molto lavoro è stato fatto, dunque, e molto comunque ne resta da fare, per garantire il passaggio al digitale in uno scenario concorrenziale e pluralistico. Ad ogni modo, oggi forse più che mai in virtù degli impulsi comunitari provenienti sia dalla Corte di Giustizia che dalla Commissione UE, appare necessario che il nostro legislatore “tenga (o meglio, riprenda) le redini” della disciplina della materia.

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