Diritto Mercato e Tecnologia Numero speciale 2024 Tutela del corpo e normativa sui trapianti…
I nomi a dominio: un nuovo segno distintivo?
di Carlo Alberto Giusti
Abstract: I nomi a dominio rappresentano oggi l’ultima categoria sussumibile all’interno dei segni distintivi dell’azienda, il cui utilizzo ha conosciuto negli ultimi anni una diffusione esponenziale che ha reso necessaria una loro specifica disciplina, tanto nazionale quanto sovranazionale. Ricostruita la natura e la struttura dei nomi a dominio nell’ordinamento giuridico, lo sguardo si sposta sui rapporti che intercorrono tra questi e gli altri segni distintivi. In tale contesto, particolare attenzione viene rivolta alle pratiche di domain grabbing e di uso ingannevole dei c.d. meta-tag, alla luce della più recente giurisprudenza sul punto. In seguito, ed una volta confermata la natura di segno distintivo, si procede ad una breve e conclusiva rassegna circa le azioni di tutela esperibili.
Sommario: 1. Nozione e riferimenti normativi; 2. La struttura dei nomi a dominio; 3. I rapporti con gli altri segni distintivi. 4. Considerazioni conclusive.
1. Nozione e riferimenti normativi
La categoria dei segni distintivi si è arricchita, negli ultimi decenni, di una nuova figura, rappresentata dai nomi a dominio (anche detti domain names). Il loro ingresso, difatti, può essere inteso quale conseguenza diretta del processo di globalizzazione informatica, realizzata la progressiva influenza della rete anche in ambito commerciale. Similarmente ad altri segni distintivi dell’azienda, anche i nomi a dominio possono essere considerati, sotto il profilo dell’ubi consistam, quali beni immateriali, come tali sganciati dal requisito della corporalità ma idonei ad essere oggetto di diritti reali ed assoluti, secondo quanto disposto dall’art. 810 c.c.[1]Ai nomi a dominio, oggigiorno, vengono comunemente riconosciute le seguenti funzioni: quella strumentale di accesso al sito web (dell’azienda), contrassegnato dall’apposito dominio[2], e quella distintiva, propria degli altri segni.
Quest’ultima funzione, sebbene inizialmente messa in discussione da una parte della giurisprudenza, ha ottenuto, tuttavia, pieno riconoscimento nel Codice della Proprietà Industriale del 2005, il quale dedica quattro norme ai nomi a dominio. Le prime due, di carattere sostanziale, sono rinvenibili negli artt. 12 e 22, i quali prevedono rispettivamente due divieti: da un lato, il divieto di registrare marchi identici o simili a nomi a dominio usati nell’attività economica[3] e, dall’altro, il divieto di utilizzare, come avviene per gli altri segni, domain names identici o simili ad un marchio altrui ove possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni, o un indebito sfruttamento della rinomanza del marchio altrui, a prescindere da ogni rischio di confusione, senza giustificato motivo. Quest’ultima previsione, orbene, non fa distinzione tra marchio registrato e marchio di fatto, pertanto, si ritiene che il rischio di confusione del nome a dominio possa sussistere anche con riferimento a marchi non registrati[4]. Sulla verifica dell’indebito sfruttamento della rinomanza di marchio altrui, di cui al citato art. 22 c.p.i., si è occupata la giurisprudenza di merito sul caso “Mediaset.com”, dove i giudici cautelari hanno affermato che deve essere inibito con urgenza l’uso del nome a dominio “www.mediaset.com”, relativo ad un sito che commercializza dispositivi di salvataggio di dati multimediali (in inglese, media set), in quanto tale denominazione, non meramente descrittiva, si sostanzia in un indebito agganciamento al marchio registrato italiano anteriore Mediaset, attinente alla comunicazione ed ai servizi radiotelevisivi, della cui rinomanza il titolare del sito innanzi richiamato si avvantaggia, almeno nel momento iniziale della ricerca e dell’accesso in Internet (initial confusion) da parte degli utenti, tenuto conto che il mercato di riferimento – il web – è per ciò stesso comune[5].
Dal punto di vista processuale, poi, l’art. 118, comma 6 c.p.i. dispone la possibilità di ottenere la revoca o il trasferimento della registrazione di un nome a dominio aziendale concessa in violazione dell’articolo 22 c.p.i. o richiesta in mala fede[6]. L’altra disposizione, di cui all’art. 133 c.p.i., prevede, invece, che l’Autorità giudiziaria può disporre, in via cautelare, oltre all’inibitoria dell’uso nell’attività economica del nome a dominio illegittimamente registrato, anche il suo trasferimento provvisorio, subordinandolo, se ritenuto opportuno, alla prestazione di idonea cauzione da parte del beneficiario del provvedimento. Tale ultima previsione deve considerarsi norma speciale e dunque non estensibile ai marchi d’impresa, cosicché essa non può comportare che ad ogni intestazione/trasferimento di un domain name si accompagni la pari intestazione o il pari trasferimento del corrispondente marchio registrato[7].
2. La struttura dei nomi a dominio: Second Level Domain e Top Level Domain.
Prima di analizzare nel dettaglio la struttura dei nomi a dominio, giova ricordare che l’individuazione dei siti internet è resa possibile dal c.d. indirizzo di IP (Internet Protocol), il quale altro non è che un codice numerico, diviso in numeri binari, i quali indirizzano automaticamente il computer ad un sito internet particolare[8]. All’interno di tale codice mnemonico, invero, si colloca il nome a dominio, composto a sua volta da un c.d. dominio di secondo livello (Second Level Domain – SLD) e da un dominio di primo livello (Top Level Domain – TLD), il quale differisce a seconda dell’appartenenza o meno ad un determinato ambito territoriale ovvero al tipo di attività svolta dall’impresa o ente associato. Il computer, dunque, è in grado di riconoscere il nome a dominio convertendo le espressioni in esse contenute (es. luiss.it ) in indirizzo IP.
Con particolare riguardo al Second Level Domain, è ivi che possiamo riscontrare maggiormente la funzione distintiva del segno in esame, poiché esso viene scelto discrezionalmente dal titolare – salvo i requisiti di validità previsti – ed il nome così selezionato permette di individuare già l’impresa alla quale esso fa riferimento (es. www.amazon.it, www.ebay.uk, www.alibaba.com).
Sebbene non necessaria ai fini costitutivi di un nome a dominio, si deve rilevare che è prevista una procedura amministrativa diversa a seconda dell’estensione territoriale del TLD finalizzata alla registrazione del nome a dominio in questione. In Italia, per esempio, la domanda di registrazione di un nome a dominio a estensione nazionale (“.it”) deve essere presentata al Registro dei Nomi Assegnati (RNA), in seno all’Istituto di Informatica e Telematica Consiglio Nazionale delle Ricerche (IIT – CNR), il quale aggiorna quotidianamente il database dei nomi a dominio assegnati (DBNA)[9]. L’assegnazione, oltre a rispettare i parametri sanciti dal C.P.I., si basa sul principio di matrice statunitense “first-come, first-served”, in base al quale l’assegnazione viene effettuata seguendo l’ordine cronologico delle richieste.
Si deve, inoltre, considerare che le controversie inerenti il generic top level domain (gTLD) oltre che ad essere instaurate in sede giudiziaria, possono essere incardinate anche attraverso la procedura amministrativa di risoluzione delle dispute (c.d. MAP – Mandatory Administrative Procedure), di competenza dell’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (OMPI).
3. I rapporti con gli altri segni distintivi.
Nella prassi commerciale accade talvolta che in capo ad un nome a dominio, e in particolare all’interno del suo SLD, possa rinvenirsi un’espressione corrispondente ad un marchio o altro segno distintivo altrui. In tale circostanza, in alcune pronunce della giurisprudenza di merito si è ritenuto che il principio sopramenzionato “first come, first served” non possa trovare applicazione, data la diversa funzione distintiva svolta tra i segni in questione, dovendosi, invece, far ricorso alle norme concernenti la tutela del marchio[10].
Sono state, in particolare, individuate alcune pratiche illecite legate all’utilizzo di nomi a dominio corrispondenti ad altri segni distintivi. Tra esse meritano essere menzionate l’attività di domain grabbing e l’uso ingannevole di meta-tag.
Con l’espressione domain grabbing si fa riferimento a quel fenomeno di registrazione di marchi altrui come nome a dominio, al solo fine di appropriarsi della notorietà del segno ed ottenere così un ingiusto arricchimento. Due interessanti casi possono essere menzionati all’origine del fenomeno de quo: negli Stati Uniti, nel 1994, in un articolo apparso sulla rivista “Wired”, il giornalista americano J. Quittner, nell’intento di dimostrare la relazione economica tra nomi a dominio e marchi, decise di registrare il domain name “mcdonalds.com” ancor prima che lo facesse la multinazionale americana, appunto, McDonald’s, ed ipotizzò di vendere il medesimo alla principale concorrente della McDonald’s, ossia Burger King. La McDonald’s si vide costretta ad acquistare il domain name da Quittner. Altra vicenda, nota come Panavision v. Toeppen[11], riguardò il nome a dominio ‘panavision.com’ registrato da Mr. Toeppen. Questi informò la società Panavision che avrebbe accettato di interrompere l’uso di tale nomine a dominio in cambio di 13.000 dollari. La Panavision, tuttavia, rifiutò l’offerta, citando lo stesso Mr. Toeppen in giudizio, il quale venne dichiarato colpevole di aver violato le leggi federali e statali in tema di “antidilution”[12]. Inoltre, la Corte ordinò al Sig. Toeppen sia di risarcire il danno, nonché di trasferire il suo nome a dominio alla società ricorrente.
La pronuncia da ultimo citata non era altro che il preludio a quella che sarebbe stata la vera svolta normativa tesa a limitare l’espansione di pratiche indebite in materia di nome a dominio, realizzatasi in effetti con l’approvazione, da parte del Congresso, dell’Anti-cybersquatting Consumer Protection Act (ACPA), il 29 Novembre 1999[13].
Data l’assenza in Italia di un’apposita disciplina di contrasto, la giurisprudenza ha ritenuto estensibili i principi di contraffazione all’ipotesi di cybersquatting, sebbene nei limiti dell’appropriazione indebita della notorietà del segno altrui[14]. Di interesse, a tal proposito, appare una decisione adottata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nel 2012, risolvendo un caso di conflitto tra nome a dominio e marchio[15]. L’aspetto rilevante, infatti, risiede nell’affermazione, da parte dell’Autorità, che la registrazione e l’uso di domain name corrispondente ad un marchio altrui costituisce un’ipotesi di pratica commerciale sleale – come tale censurabile ai sensi della disciplina prevista nel Codice del Consumo -, basandosi essenzialmente sul carattere “scorretto” della condotta posta in essere dall’impresa convenuta, come tale meritevole di sanzione pecuniaria. La decisione, dunque, segna il passaggio da una tutela meramente privatistica in materia ad una tutela “pubblicistica”, la quale si affianca alla prima e tradizionale forma di tutela[16].
Con riguardo, invece, all’uso ingannevole di meta-tag, è opportuno preliminarmente definire il significato di quest’ultimo: essi corrispondono a codici alfanumerici contenenti parole chiave idonee a fornire informazioni sul contenuto di un determinato sito internet, e sono utilizzati dai motori di ricerca per selezionare immediatamente le pagine web corrispondenti alle parole chiave incluse nei meta-tag[17]. Ciò premesso, una fattispecie indebita può riscontrarsi nel caso di utilizzo di un proprio marchio da parte di società concorrenti le quali, nei rispettivi siti web, omettendo ogni riferimento alle società titolari dei marchi, inseriscono nei meta-tag quello stesso marchio al fine di comparire più agevolmente nei primi risultati dei motori di ricerca.
Di tale ultima situazione giova in questa sede richiamare due interessanti casi, di cui si sono occupate rispettivamente la giurisprudenza nazionale di merito e la giurisprudenza unionale.
Per quanto riguarda il primo, noto come “Solatube”, la Sezione specializzata del Tribunale di Milano, oltre a confermare l’orientamento prevalente incline a riconoscere natura distintiva del nome a dominio, offre ulteriori spunti per ciò che concerne le conseguenze giuridiche illecito di “meta-tag”[18]. I giudici, difatti, affermano che l’uso da parte di una società concorrente di un “meta-tag” riproducente il marchio di un’altra società costituisce illecito concorrenziale imputabile sotto il profilo dell’art. 2598, n. 3 c.c., in quanto determinante il costante e indebito abbinamento nei risultati della ricerca sui vari motori di ricerca del web idoneo a determinare uno sviamento della clientela in violazione dei principi della correttezza commerciale[19].
La Corte di Giustizia, invece, ha avuto modo di pronunciarsi in merito al servizio di posizionamento a pagamento (c.d. “AdWords”) offerto da Google sul proprio motore di ricerca[20]. La vicenda prende inizio dalla selezione da parte della società Marks & Spencer – società di diritto inglese, specializzata nella vendita al dettaglio di fiori – nell’ambito del servizio di posizionamento AdWords di Google, del termine «Interflora» e di sue varianti, come «Interflora Flowers», «Interflora Delivery», «Interflora.com», «Interflora co uk» ecc., quali parole chiave. Di conseguenza, l’utente di Internet, al momento dell’inserimento della parola “Interflora” nel motore di ricerca Google, si interfacciava con un messaggio della Marks & Spencer. La High Court of Justice (England & Wales), su ricorso della società Interflora, ha così posto questione pregiudiziale alla Corte di giustizia su diversi aspetti dell’uso non consentito, da parte di un concorrente, nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet, di parole chiave identiche ad un marchio. I giudici di Lussemburgo, dunque, basano il proprio ragionamento sul presupposto che “il titolare di un marchio ha il diritto di vietare ad un concorrente di fare pubblicità – a partire da una parola chiave identica a detto marchio che tale concorrente, senza il consenso del titolare del marchio, ha scelto nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet – a prodotti o servizi identici a quelli per i quali tale marchio è stato registrato, quando il predetto uso è idoneo a violare una delle funzioni del marchio”. Le funzioni svolte dal marchio sono individuate dalla stessa Corte in quella di indicazione d’origine del marchio, di pubblicità e di investimento. Segnala poi la Corte che “il titolare di un marchio che gode di notorietà ha il diritto di vietare ad un concorrente di fare pubblicità a partire da una parola chiave corrispondente a tale marchio che il suddetto concorrente, senza il consenso del titolare del marchio, ha scelto nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet, qualora detto concorrente tragga così indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio (parassitismo) oppure qualora tale pubblicità arrechi pregiudizio a detto carattere distintivo (diluizione) o a detta notorietà (corrosione)”. Un annuncio pubblicitario, a partire da una parola chiave siffatta, arreca pregiudizio al carattere distintivo del marchio che gode di notorietà (diluizione), in particolare, ove contribuisca a trasformare la natura di tale marchio rendendolo un termine generico.
Al contrario, il titolare di un marchio che gode di notorietà non può vietare, in particolare, annunci pubblicitari fatti comparire dai suoi concorrenti a partire da parole chiave che corrispondono a detto marchio e che propongono, senza offrire una semplice imitazione dei prodotti e dei servizi del titolare di tale marchio, senza provocare una diluizione o una corrosione e senza peraltro arrecare pregiudizio alle funzioni di detto marchio che gode di notorietà, un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare di detto marchio”.
Anche in Italia, nel 2009, il Tribunale di Milano si è pronunciato su una questione relativa all’utilizzo, come parole chiave destinate al servizio di Adwords, di marchi altrui, ritenendo l’uso del marchio di un terzo come parola-chiave nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet lesivo del marchio allorquando ne comprometta una delle funzioni tipiche del marchio stesso e generi confusione nella clientela[21].
4. Considerazioni conclusive.
Dalla prospettiva innanzi esaminata ed alla luce della sempre più crescente attenzione normativa loro rivolta, è lecito affermare, conclusivamente, che i nomi a dominio devono necessariamente essere ricompresi all’interno della categoria dei segni distintivi, per cui risulta alquanto obsoleta la tesi di coloro che ne contestano simile natura[22]. Tale riconoscimento, come visto, appare di estrema importanza onde decidere il tipo di tutela che deve essere accordata: laddove, infatti, esso venga qualificato come segno distintivo autonomo, esso sarà idoneo a fondare il giudizio di confusione con i marchi altrui, e quindi il suo titolare potrà vantare diritti sul nome stesso, diventando soggetto passivo di cause di contraffazione, di usurpazione e di concorrenza sleale, oppure restarne immune[23]. Si può concludere, quindi, che l’arsenale di azioni esperibili, da parte del titolare del nome a dominio, risulta essere composto tanto da misure specificatamente dedicate ai domain names, quanto da altre ammesse in via generale per ogni violazione dei diritti di proprietà industriale, secondo lo schema che segue:
- l’azione di revoca della registrazione abusiva di nome a dominio aziendale altrui ovvero l’assegnazione del nome a dominio (da parte dell’autorità di registrazione, ai sensi dell’art. 118, co. 6 c.p.i.;
- l’azione di inibitoria, in sede cautelare, dell’uso del nome a dominio aziendale illegittimamente registrato ed anche il suo trasferimento provvisorio, subordinato eventualmente alla prestazione di idonea cauzione fissata dal giudice, ai sensi dell’art. 133 c.p.i.
- la pubblicazione del provvedimento, quale misura di carattere generale esperibile per ogni violazione del diritto di proprietà industriale, ai sensi dell’art. 126 c.p.i.
- è sempre salva l’azione di risarcimento del danno subito a seguito della violazione del diritto di proprietà industriale, ai sensi dell’art. 125 c.p.i.
Note bibliografiche:
[*] Il presente contributo è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista.
[1] Sul tema in dottrina si rinvia a: Galli C., I domain names nella giurisprudenza, Milano 2001 ed ivi numerosi riferimenti di dottrina e giurisprudenza; Gambino A.M. – Galli C., Codice commentato della Proprietà Industriale ed Intellettuale, Milano, 2011; Ubertazzi L.C., Il codice della proprietà industriale, Milano 2004, Ghidini G.- De Benedetti F., Codice della proprietà industriale, Roma, 2006; Ghidini G., Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008; Spada P., Domain names e dominio dei nomi, in Riv. Dir. Civ., 2000, I, 713; Cascione C.M., I domain names come oggetto di espropriazione e di garanzia: profili problematici, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2008, 1, 34.
[2] I nomi a dominio, in origine, sono stati concepiti unicamente quali strumenti di accesso più agevole ad un determinato sito, senza necessità di memorizzare l’intero indirizzo di IP (Internet Protocol).
[3] A differenza degli altri segni distintivi, la giurisprudenza ha ritenuto che anche la mera registrazione, senza l’attivazione del sito, costituisce attività di per sé idonea ad impedire in modo assoluto al titolare del marchio di usarlo anche in rete come nuovo ed ulteriore segno distintivo. In questo senso, cfr. Trib. Firenze, 16 maggio 2006, in CDI, 2006, 809; Trib. Bari 1° luglio 2002, in Giur. Dir. Ind. 2002, 355; Trib. Parma 26 febbraio 2001, in Galli, op. cit., 316.
[4] In tal senso, cfr. Trib. Modena, 23 agosto 2000, in AIDA 2001, 515, ove i giudici di merito hanno ravvisato un’attività di un’impresa come diretta a violare i diritti di Poste Italiane avevano citato in giudizio un’impresa di Modena, che aveva registrato i nomi di dominio: «bancoposta.it», «raccomandata.it», e «vaglia.it», sotto il profilo del pericolo di confusione generata nella generalità dei consociati, e di concorrenza sleale di cui all’art. 2598, 1° comma, c.c., in quanto lesivi sia del marchio notorio «bancoposta» sia dei marchi di fatto «vaglia» e «raccomandata».
[5] Trib. Roma, ord. 12 giugno 2012, in GADI, 2012, 5885.
[6] Sulle varie ipotesi che danno luogo a mala fede, v., ex multis, Martorana M. L., Deposito del marchio del licenziante e autotutela del licenziatario, nota a sentenza in Dir. Industriale, 2013, 5, p. 478, il quale, richiamando la dottrina in rassegna sul punto, elenca le seguenti fattispecie: la violazione di un’aspettativa legittima altrui, essenzialmente legata a una notorietà in fieri del marchio, che, ai sensi dell’art. 6 bis CUP, equivale a tutti gli effetti ad una prenotazione di deposito per il titolare perché genera a proprio favore una riserva di registrazione; b) la consapevolezza dell’attività di un terzo finalizzata al deposito di un marchio sino alla configurazione di un vero e proprio abuso di un rapporto di collaborazione e di fiducia; c) un atto emulativo in senso stretto o il deposito del marchio al solo scopo di ostacolare un terzo nell’attività imprenditoriale; d) la registrazione che non è finalizzata ad assolvere alcuna concreta funzione di distinzione sul mercato.
[7] Trib. Milano, Sez. Specializzata in materia di imprese, Ordinanza 11 gennaio 2016, in banca dati Pluris, 2016.
[8] Jenny Ng, The Domain Name Registration System, London, 2013, 13.
[9] A livello internazionale, il sistema di registrazione è di competenza dell’I.C.A.N.N. (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers).
[10] Trib. Napoli, sentenza 26 febbraio 2002, in GADI, 2002, n. 4411 652; Trib. Reggio Emilia, sentenza 30 maggio 2000, in Galli, op. cit., 316; Trib. Siracusa, 23 marzo 2001, in Foro it. 2001, I, 3705.
[11] Panavision Intern., LP v. Toeppen, 945 F. Supp. 1296 (C.D. Cal. 1996).
[12] Nella sentenza in commento, i giudici federali affermarono testualmente: «The Court holds that Toeppen has violated the federal and state dilution statutes and enjoins Toeppen from further violations of these laws. This holding will not impede free competition or lead to any of the “parade of horribles” suggested by Toeppen. This case does not grant trademark owners preemptive rights in domain names. Nor does this case grant trademark owners “rights in gross.” This decision merely holds that registering a famous mark as a domain name for the purpose of trading on the value of the mark by selling the domain name to the trademark owner violates the federal and state dilution statutes. This holding successfully balances the principles of “fair competition and free competition”. In addition, the Dilution Act itself excepts certain uses and thereby protects parties who “innocently” register a famous trademark as a domain name (e.g., a citizen of Pana, Illinois who registers “panavision.com” in order to provide a community political forum would come under the exemption for non-commercial use) ».
[13] L’ACPA ha comportato, altresì, una modifica al Lanham Act, e sottopone la tutela del ricorrente ad un triplice onere probatorio: a) la titolarità di un marchio; b) che il nome a dominio registrato o utilizzato dal convenuto è identico, o tale da creare confusione con il proprio marchio; c) che il convenuto ha agito con mala fede, profittando della notorietà del marchio.
[14] Trib. Milano, sentenza 9 febbraio 2009, in Sez. Spec. P.I., 2010, I, 136; Trib. Parma, sentenza 26 febbraio 2001, cit. Per un approfondimento sul punto, v., ex multis, Marinelli S., La disciplina dei nomi a dominio e i rimedi esperibili in caso di cybersquatting, in Cyberspazio e Diritto, 2015, 3, 405-420.
[15] AGCM, provvedimento del 9 ottobre 2012, n. 23976.
[16] Aranguena G., Nome e dominio e tutela del marchio verso la social property: slealtà commerciale e il nuovo enforcement del diritto della concorrenza e dei consumatori, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 2013, 6, 848.
[17] Aa.VV., in Proprietà industriale, intellettuale e IT (a cura di Trevisan & Cuonzo), op. cit., 249.
[18] Trib. Milano, sentenza 20 febbraio 2009, in Riv. Dir. Ind. 2009, 375 (nota Tosi).
[19] Per una lettura a margine della sentenza, cfr. Tosi E., Contraffazione di marchio e concorrenza sleale in Internet: dal classico “domain grabbing” all’innovativo “key-word” marketing confusorio, in Riv. di dir. ind., 2009, 4-5. 375.
[20] Corte Giust. UE, C-323/2009, sentenza 22 settembre 2011, Interflora Inc., Interflora British Unit c. Marks & Spencer plc, Flowers Direct Online Ltd.
[21] Trib. Milano, sentenza 11 marzo 2009, in Riv. Dir. Ind., 2009, II, 375 con nota di Tosi ed in in Giur. It., 2010, 125 e segg., con nota di Mantelero.
[22] Da ultimo, in questo senso, cfr. Gargiulo G., L’ultimo nato tra i segni distintivi: il nome a dominio, in Il dir. ind., 2015, 3, 300. Isolata, altresì, è la tesi secondo cui la qualifica del nome a dominio come segno distintivo andasse fatta in concreto, caso per caso, in relazione al contenuto ed alla configurazione del sito (Trib. Modena 1 agosto 2000, in Giur. Merito, 2001, 328; Trib. Modena 23 agosto 2000, in AIDA 2001, 515).
[23] Così, Canali F., La disciplina giuridica dei nomi di dominio, in Impresa, 2004, 7-8.