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Il caso Android. Si apre la Fase II

di Valeria Falce Il caso Android entra in una nuova fase.

Con lo Statement of Objection, di cui si e’ appena appreso da comunicati stampa ufficiali, la Commissione Europea formalizza le risultanze istruttorie nei confronti della strategia commerciale perseguita da Google nel mercato dei servizi operativi, che, a giudizio del Commissario Vestager, impedirebbe a nuovi prodotti e servizi di raggiungere il mercato e i suoi potenziali clienti.

Il timore che si è andato rafforzando ad un anno dall’avvio dell’indagine riguarda l’effetto concorrenziale legato alla richiesta di Google a produttori e operatori di pre-installare un set di applicazioni, che sfocerebbe in un danno significativo per la concorrenza e l’innovazione.

L’indagine, pur complessa, ruota intorno ad una sola questione: se i contratti di distribuzione di Google interferiscano in maniera sostanziale con la capacità di produttori e operatori di proporre proprie applicazioni e in ultima analisi impediscano ai consumatori di scaricare altre applicazioni e di configurare telefoni, smartphone e dispositivi mobili intelligenti, così violando la disciplina antitrust.

Il tema è delicato perché gli accordi di distribuzione delle app Android non sembrano prevedere una clausola secca di esclusiva, prevedono piuttosto una clausola del tipo “tutto o niente”. In altri termini, gli operatori sono messi di fronte ad un bivio tertium non datur: prendere tutte le applicazioni proposte da Google o nessuna. Non sono cioè liberi di sceglierne alcune, escludendone altre.

Quale è il rationale del sottostante modello di business? Competitivo o distorsivo?

Certo, Android è un sistema operativo open source e come tale non è assoggettabile allo stesso grado e livello di controllo dei sistemi proprietari.

Tanto detto, economisti del calibro di David Evans ritengono che le clausole del tipo “tutto o niente” possono contribuire a bilanciare questo squilibrio in quanto necessari meccanismi di funzionamento delle piattaforme.In altri termini, in una prospettiva squisitamente economica si tratterebbe di strumenti che consentirebbero ai sistemi aperti di proporsi a parità di condizioni con i sistemi chiusi e proprietari, e infine ai consumatori di accedere ad un maggior numero di app e di qui di esercitare una scelta consapevole.

In punto di diritto, la questione, assai complessa e sfaccettata, è riconducibile ad un unico interrogativo di fondo: se i consumatori traggano benefici dalla politica di Google, se cioè alla fine abbiamo accesso ad un numero maggiore o inferiore di servizi, o piuttosto se i vantaggi percepiti siano “un fuoco di paglia” destinato a spegnersi insieme alle opportunità di scelta.

La risposta non è scontata.

L’auspicio è comunque che il verdetto al quale la Commissione perverrà  poggi 1) sull’applicazione rigorosa delle regole di concorrenza alla luce degli elementi di fatto, rinunciando alla tentazione di vietare o autorizzare senza convinzione o approfondimenti seri e circostanziati 2) su una approfondita analisi del mercato, che tenga conto della discontinuità e dell’accelerazione impressa dall’economia digitale, e delle dinamiche competitive delle e nelle piattaforme 3) su un “robusto” studio empirico di come i consumatori digitali si comportano su Internet e rispondono alle sollecitazioni esterne. E tutto ciò al fine di accertare gli effetti attuali e attesi della politica contestata in una prospettiva squisitamente concorrenziale.

20 aprile 2016

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