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Per il pluralismo in TV serve (solo) un cronometro?

di Antonio Nicita

Dalle vecchie tribune politiche in bianco e nero, fino ai confronti tv negli studi televisivi di X Factor, il tempo della politica e dei politici in TV è stato spesso misurato da un cronometro.

Durante le campagne elettorali, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni deve misurare, ai sensi della normativa vigente, tempo di parola delle varie forze politiche e tempo di notizia (due misure che poi definiscono il ‘tempo di antenna’).

Da sempre si discute su come migliorare la misurazione e, soprattutto, sulle soglie critiche da assegnare alla varie forze politiche e sulle modalità ‘rimediali’ di compensazione in caso di violazione della parità di trattamento. Personalmente, ad esempio, ritengo che la compensazione (detta anche ‘riequilibrio’) vada sempre effettuata nel medesimo format e per la medesima fascia di programmazione, in modo da rivolgersi alla medesima platea. Ciò servirebbe ad evitare riequilibri uguali nei tempi, ma rivolti a platee di dimensione diversa e, dunque, ad un elettorato diverso nei numeri e nel profilo. Una regola semplice che tuttavia, ad oggi, non è ancora riuscita ad affermarsi.

Per i periodi non elettorali, le cose si sono complicate dopo che alcune recenti sentenze del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio hanno affermato la prevalenza della libertà editoriale sul ‘mero’ minutaggio dedicato alle forze politiche e ai suoi rappresentanti. Invitando, perciò, a individuare nuove modalità, più sostanziali, di ‘misurazione’.

Difficilmente le forze politiche e gli elettori sono soddisfatti dal modo in cui la normativa sulla par condicio viene applicata. Tanto per i periodi elettorali, quanto per quelli non elettorali è allora necessaria una nuova riflessione metodologica che dia certezza, a fronte di garanzie di libertà editoriali ma anche di equilibrio nella rappresentatività di tutte le forze politiche.

Sullo sfondo resta una questione più ampia da discutere. Quella delle ragioni per le quali va rinnovata (o meno) l’attenzione all’istituto della par condicio.

Partiamo dagli Stati Uniti e da quanto racconta Frédéric Martel (Smart. Inchiesta sulle Reti, Feltrinelli 2015) sugli interventi normativi e regolatori assimilabili alla nostra par condicio. La fairness doctrine si è affermata nel 1934 negli USA ed è stata rafforzata dalla Federal Communications Commission nel 1949. Nella storia della fairness doctrine si sono spesso intrecciate ragioni di ‘mera’ garanzia con motivazioni ad hoc, legate alla scarsità tecnica delle risorse impiegabili, in particolare con riferimento alla scarsità delle frequenze.

Il riferimento qui è alla nota locuzione del ‘pluralismo esterno’: in presenza di scarsa capacità trasmissiva, le emittenti avrebbero una ‘speciale responsabilità’ di assicurare programmi di interesse generale e di offrire lo stesso tempo di parola a opinioni e istanze divergenti. Come sottolinea Martel, si trattava, da parte della FCC, di operare una deroga e, in un certo senso, un’inversione (dallo speaker al listener) rispetto alfree speech tutelato ‘sacralmente’ dal primo emendamento: “una nuova interpretazione della libertà d’espressione [che] non costituisce più un diritto dell’emittente ma un dovere: è invece il pubblico ad avere il diritto di poter ascoltare i diversi punti di vista”.

In Italia questo dibattito, molto ricco e mai sopito, ha lungamente riguardato l’applicazione della par condicio anche in riferimento all’art. 21 della Costituzione e alla congiunzione del diritto di espressione, con il diritto di informare e di essere informati. La parola e l’ascolto, si direbbe.

È interessante, però, osservare l’evoluzione della fairness doctrine negli Stati Uniti per riflettere sul destino della par condicio in Italia o, perlomeno, su alcuni argomenti utilizzati da taluno per superarla. Alfred Sikes, a capo della FCC sotto la presidenza di H. W. Bush, spiega bene, nel libro di Martel, le ragioni – a suo dire bipartisan – che spinsero la FCC ad abbandonare la fairness doctrine nel 1987, senza peraltro tornare più indietro negli anni di Clinton e di Obama. Da un lato, la scarsità della capacità trasmissiva e il numero limitato di emittenti: “il pluralismo e la fairness doctrine avevano senso quando esistevano solo tre network. Tuttavia dagli anni ottanta il numero di emittenti è costantemente aumentato […]. Abbiamo pensato che il pluralismo sarebbe stato garantito meglio con un maggior numero di canali invece di essere governato in termini politici”. Dall’altro, la ricerca del pluralismo, secondo Sikes, avrebbe finito per limitare la libertà editoriale e, per tale via, per impedire agli ascoltatori di misurarsi con posizioni forti e schierate, utili a decidere: “le emittenti non avevano la libertà editoriale, prendevano solo posizioni moderate e insulse. Dovevamo dare loro il diritto di scegliere e di schierarsi, di essere ‘opinionated’”.

C’è intera, in quest’affermazione di Sikes, l’eco della marketplace of ideas doctrine americana per la quale è dallo scontro, anche feroce, che emerge la verità. Una dottrina, va ricordato, che è ad un tempo, causa ed effetto del bipartitismo politico americano. Tradotto in termini politici, quella dottrina afferma che è dallo scontro retorico che emerge la tesi cui poi gli elettori daranno ‘verità’ attraverso il loro voto. Solo che lo scontro non è da intendersi come contraddittorio tra portatori di istanze diverse, ma come ‘discesa in campo’ anche dell’editore, specie in ragione della concorrenza tra editori: “Fox news non sarebbe mai stata possibile senza l’abrogazione della fairness doctrine” dice Sikes.

Tornando in Italia, la domanda cui rispondere è dunque se il passaggio dall’analogico al digitale, che rende visibili centinaia di canali su base nazionale, unitamente all’accresciuta importanza di Internet come mezzo utilizzato per informarsi, risolvano, una volta per tutte, il tema del ‘pluralismo esterno’. Se ciò fosse vero, dovrebbero forse esser superate delle ragioni che hanno dato origine alla legislazione della par condicio, tanto per le reti concessionarie del servizio pubblico quanto per le private che svolgono servizio di interesse pubblico?

La risposta a questa domanda passa, a mio avviso, da (almeno) quattro considerazioni.

La prima ha che fare con il mercato e con le abitudini di consumatori ed utenti. Va cioè compreso quanto l’offerta di nuovi canali generalisti sia davvero competitiva rispetto al passato e quanto la legacy dei principali canali analogici si sia traslata nelle dinamiche dell’audience nell’epoca digitale. Va poi capito quanta parte dei telespettatori interessati al dibattito politico “consumi” fonti diverse di informazioni e quanta parte invece sia fedele al ‘canale’ e, per tale ragione, esposta a messaggi ‘politico-sociali’ diretti e indiretti, inclusi quelli che avvengono in contesti del tutto estranei al tipico format ‘informativo’ e spesso senza contraddittorio in un ineditopolitical product placement.

La seconda considerazione riguarda le relazioni tra potere politico e controllo delle principali reti televisive in termini di audience. Un tema che, nel nostro paese, riguarda tanto le reti pubbliche quanto alcune reti private. Qui la questione riguarda non tanto e non solo il rispetto del contraddittorio o il tempo di parola (entrambi misurabili) quanto la formazione-imposizione dell’agenda politica (difficile da misurare) cioé la selezione dei temi dei quali è rilevante discutere o tacere, perché la scelta stessa dell’agenda politica, da parte delle principali emittenti, determina poi il confronto elettorale. Non viene dunque in gioco solo la libertà editoriale dell’emittente e la sua capacità di influenza dell’elettorato, ma il farsi direttamente giocatore, da parte del broadcaster, nell’agone politico.

La terza considerazione – per certi versi quella più paternalista – riguarda la ‘capacità’ del telespettatore. E qui vale la pena dare la parola al Nobel Medal Ronald Coase, economista chicaghiano da molti definito come uno dei padri del libero mercato. Nella tradizione statunitense, il free marketplace of ideas assume che è dal confronto tra fatti e opinioni che emerge la verità. Il ‘consumatore’ in questo mercato semplicemente osserva e ascolta. Poi sceglie, in modo coerente. Ebbene, Ronald Coase (“The market for goods and the Market for ideas”, 1974) osserva che quando si tratti di scegliere beni sul mercato (specie, potremmo dire, nel caso di beni complessi quali la scelta di un mutuo, di un investimento finanziario, di un’assicurazione, di una pratica medica) siamo pronti a immaginare forme di regolazione volte a tutelare il consumatore dal monopolio, dall’oligopolio, da pubblicità ingannevole e da pratiche scorrette. Invece, aggiunge Coase, quando quello stesso consumatore deve scegliere nel mercato delle informazioni, riteniamo sufficiente che ci sia concorrenza, perché la scelta sia corretta. Anzi, riteniamo dannoso l’intervento pubblico. Così assumiamo che scegliere tra due programmi politici sia più facile che scegliere tra due compagnie assicurative; che la comunicazione politica non possa mai essere ingannevole come quella di una bevanda e così via.

In realtà, da Coase in poi, tutta l’economia comportamentale ci ha ampiamente documentato sui limiti razionali del consumatore proprio con riferimento all’incapacità o all’inerzia del consumatore nel processare informazioni, anche banali, rilevanti per la sua scelta.

D’altra parte, il confronto tra opinioni non rivela necessariamente la ‘verità’ con lo ‘scambio’ nel mercato delle idee. Anche perché spesso il confronto non riguarda ciò che è vero o falso, ma le modalità con le quali si rappresentano le diverse opinioni. Come già scrisse Michel Foucault in Discorso e Verità nella Grecia antica (Donzelli, 2005) la paressìa – letteralmente, la “libertà di dire tutto” ma anche la franchezza di dire tutto ciò che si ritiene vero – può essere associata tanto alla verità quanto al relativismo, tanto al dialogo quanto all’autoreferenzialità. E questo ci porta alla quarta e ultima considerazione.

L’ultima considerazione riguarda, infatti, le relazioni tra TV e Rete. Il pubblico al quale si rivolge – in via diretta e indiretta – la comunicazione politica, è fortemente differenziato per età, cultura, attitudini. Le indagini dell’Agcom, tra le altre, hanno documentato come la TV sia ancora oggi il mezzo dominante attraverso il quale ci si informa. Ma una larga platea di giovani ‘si informa’ sul web e sui social network. Le campagne elettorali di Obama, nel 2008 e nel 2012, hanno definitivamente sancito – come hanno mostrato, tra gli altri, Allen e Light (From Voice to Influence, the University of Chicago Press, 2015) e Vaughn (Controlling the Message: New Media in American Political Campaigns, Farrar-Myers, 2015) – la rilevanza della Rete nella sollecitazione al voto e alla partecipazione politica.

Alcune indagini empiriche sulle elezioni politiche del 2013 in Italia hanno evidenziato la rilevanza dell’uso dei social network. L’eco-sistema informativo, anche in campagna elettorale, è dunque assai più vasto e variegato del mondo televisivo e una riflessione sulla par condicio deve tener conto anche di questo, perché il tema della formazione dell’agenda politico-sociale nell’informazione televisiva è una questione rilevante anche da un altro punto di vista. L’emersione di ‘cross news’ che rimandano continuamente dalla TV ai social networke viceversa, secondo gli studi di Andrew Chadwick (The Hybrid Media System, Politics and Power, Oxford University Press 2013), ci mostra continuamente come ciò che si vede in TV diventi spesso trend topic su Twitter. Segno che Rete e TV, in parte rivali dal punto di vista dell’attenzione, sono complementari sotto il profilo dell’informazione, come ha scritto Lella Mazzolli (Cross News, Codice Edizioni, 2013). Va dunque accolta con molta prudenza la tesi di chi sostiene che la pervasività della Rete debba comportare il venir meno di regole, per quanto ‘eroiche’, volte a disciplinare il pluralismo in TV.

Questa tesi, infatti, confonde il marketplace of ideas con il pluralismo o, se si vuole, le relazioni socio-politiche con lerappresentazioni socio-politiche.

D’altra parte, come hanno di recente scritto Charles Seife (Le Menzogne del Web, Bollati Boringhieri, 2014) e Luca Sofri (Notizie che non lo erano, Rizzoli 2015) la Rete può essere, al tempo stesso, un meccanismo che svela le menzogne (della tv e dei giornali) e che accredita bufale (riprese da tv e giornali). In sé, la Rete, come scrive Michele Mezza (Giornalismi nella rete, Donzelli, 2015) non è un media, non è diversa dalla società e non è nemmeno una rappresentazione della società. È, semplicemente, la società ‘in Rete’. Prendere o lasciare.

La complessità che deriva, per il caso italiano, dalle considerazioni sopra richiamate suggerisce una qualche prudenza rispetto all’idea della ‘concorrenza per la verità’. Con riferimento ai periodi elettorali – nei quali più rilevante è l’impatto dei media sull’orientamento politico, specie per quella larga parte di elettori indecisi – non serve allora (solo) il cronometro, ma vanno adottate regole certe e note che rispettino la rappresentanza di ciascuno, che trattino allo stesso modo (nel tempo e nelle modalità) i rappresentanti delle diverse forze politiche, che verifichino gli elementi di fatto posti in contraddittorio (fact checking) e prevedano forme di riequilibrio nelle medesime fasce orarie di quelle nelle quali si sono manifestate violazioni della par condicio.

Ma il rispetto del pluralismo significa innanzitutto sposare profondamente e con convinzione la tutela della diversità, della libertà di espressione, della dignità umana nella definizione dell’agenda informativa. Non solo ‘come’ si rappresenta una posizione, ma ‘cosa’ si ritiene meritevole di inclusione nell’agenda informativa e perché. Un compito reso sempre più difficile dalla radicalizzazione del dibattito politico e dal precipitare della banalità di vecchi e nuovi ideological cleavage di fronte a fenomeni complessi, quali quelli che riguardano la costruzione di una società aperta al nuovo e alle sfide che questo comporta, prime tra tutte quelle della diversità culturale, etnica, religiosa.

Qui, il problema del (mancato) pluralismo si riflette nella costruzione retorica, più o meno esplicita, di agende sociali, politiche e informative pre-confezionate e subito ricondotte all’incomunicabilità tra fazioni opposte, dove niente si concede all’avversario e dove ogni fatto viene utilizzato, strumentalizzato e, talvolta, persino inventato – come nel caso dei falsi scoop. Per fortuna, oggi più di ieri, l’offerta è differenziata e il telespettatore abituato allo ‘zapping politico’ può facilmente trovare modalità diverse di rappresentazione del dibattito politico e diversi livelli di etica della responsabilità da parte di chi definisce le linee editoriali in TV. Serve allora responsabilità, capacità di rispondere in prima persona e consapevolezza del ruolo sociale rivestito da chi produce informazione, sia esso una testata o un singolo uploader. La Rete, d’altra parte, con tutti i limiti, permette forme libere di discussione e di segnalazione di notizie dimenticate e di ‘notizie che non lo erano’ su stampa e TV – come spesso racconta Luca Sofri dal sito dell’ottimo IlPost.

Questo per dire che, chi vuole, può agevolmente sottrarsi a racconti parziali della realtà, a politiche editoriali orientate, ad agende informative incomplete. Ma, in tutta onestà, ciò è davvero sufficiente per abbandonare la necessità di una complessiva funzione di vigilanza del pluralismo in TV?

Il contributo è inserito nell’eBook #questianni: domande digitali in cerca di regole, disponibile gratuitamente a questo link

Mercato dei beni e mercato delle idee: oltre il paradosso di Coase? Internet Bill of Rights: una cornice per la “transazione digitale”?

22 dicembre 2015

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