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Tecnologie digitali e valorizzazione del territorio: intervista a Renata Salvarani

Tecnologiedigitaliecatalogazione

La docente ha pubblicato per “Vita e Pensiero” un volume con oggetto metodologia e best practice per la catalogazione dello sconfinato patrimonio culturale sparso sul territorio italiano: “Gli enti e le istituzioni dovrebbero svolgere un ruolo di indirizzo e di coordinamento delle diverse esperienze, favorendo un superamento della frammentazione e andando nella direzione di un’apertura dei dati e degli accessi” di Marco Ciaffone tecnologiedigitaliecatalogazioneInnumerevoli volte ci sentiamo dire che l’Italia possiede il più grande patrimonio artistico e culturale del mondo e che la sua valorizzazione regalerebbe al Paese un incremento di “x” punti percentuali di Pil. Molto più raramente, a corredo di tali affermazioni, vengono servite ricette per invertire la tendenza, magari facendo leva sugli strumenti che il progresso tecnologico mette a nostra disposizione. Proprio quelle ricette descritte in “Tecnologie digitali e catalogazione del patrimonio culturale“, edito da “Vita e Pensiero” e curato da Renata Salvarani, professoressa di Storia del Cristianesimo e Storia Medievale presso l’Università Europea di Roma, specializzata nella progettazione di piani di valorizzazione del territorio. Il libro raccoglie contributi di Elena Aiello, Direttore Distretto culturale “Le Regge dei Gonzaga”, Laura Ciancio, Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane (ICCU), Sara Penco, “Scoprire l’opera d’arte – Sistema Penco”, Guido Bazzotti, esperto di computer grafica tridimensionale, Gianmarco Cossandi, Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia, Global Informatica srl di Mantova, Daniela Sogliani, Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te (Mantova) e Simona Brunetti, Università degli Studi di Verona, Fondazione Umberto Artioli. Professoressa Salvarani, da dove nasce l’idea di questo volume? In medias res: all’interno di un ampio progetto di valorizzazione del territorio in chiave storica, il Distretto culturale “Le Regge dei Gonzaga“, realizzato nel più ampio contesto dei Distretti culturali confinanziati da Fondazione Cariplo. Gli studi pubblicati raccolgono ricerche, analisi e dibattiti che hanno accompagnato la progettazione – curata dall’Università Europea di Roma – dei database su cui si basano le azioni di restauro, valorizzazione e animazione culturale del progetto complessivo. Le informazioni sono state organizzate e messe on line in modo da alimentare un circuito virtuoso di conoscenze che fanno perno intorno a un territorio, in questo caso l’area del ducato di Mantova, a sua volta collegata con il patrimonio oggi sparso in tutto il mondo. I new media sono uno strumento privilegiato per reperire, risistematizzare, incrementare e mettere a disposizione le informazioni sul patrimonio culturale e in questo caso si è sperimentato il loro reindirizzo al territorio, unendo la dimensione della conoscenza virtuale con quella della visita reale, new heritage e patrimonio materiale. E’ stata l’occasione per un confronto aperto con altre esperienze, con le linee di indirizzo in ambito europeo e internazionale, con problemi comuni all’Italia e all’Europa delle “piccole patrie”. Che ruolo gioca la tecnologia nel contesto della promozione del patrimonio culturale italiano? E quali sono le maggiori opportunità aperte dalla rivoluzione digitale in questo senso? Le ricerche raccolte nel volume sono focalizzate intorno alle operazioni di catalogazione e digitalizzazione, a partire da una concezione dinamica dei beni culturali, vissuti come chiave per la conoscenza e per la promozione di contesti più ampi. Il “caso” dei database dedicati ai Gonzaga, uno bibliografico e l’altro dedicato al patrimonio tangibile, sono rappresentativi di questo approccio: la casata ha strutturato il territorio del ducato dal punto di vista istituzionale, conformandone anche il paesaggio agricolo, l’insediamento, l’economia. Il patrimonio artistico, architettonico e documentario  all’interno del territorio. Ne deriva che la collocazione in rete di informazioni relative al patrimonio non può che rinviare al territorio del ducato, aprendo prospettive di indagine nuove e anche non previste.

In questa prospettiva, la conoscenza genera fruizione, non solo dei dati, ma dello stesso patrimonio, nella sua fisicità, materiale e geografica, con tutte le implicazioni che ciò presenta anche sul piano dello sviluppo e dell’occupazione.

Nel sottotitolo dell’opera si parla di “metodologie, prassi e casi di studio per la valorizzazione del territorio”, qualche esempio? E’ nota l’importanza della rete Minerva-Nrg, finanziata all’interno di un progetto della Commissione Europea, Direzione generale per la società dell’informazione, è un punto di riferimento europeo per la digitalizzazione del patrimonio culturale.  Individua linee di azione che si concretizzano nella definizione di racomandazioni e linee guida per la qualità dei siti web, l’interoperabilità dei sistemi, la conservazione a lungo termine delle risorse digitali, la definizione di “buone pratiche”. Predispone anche una piattaforma tecnologica di livello europeo per la realizzazione di repertori nazionali di fondi digitali. Proprio in prospettiva di delineare standard e metodologie comuni per l’Unione, Minerva ha l’ambizione di porsi come modello di riferimento per le esigenze di coordinamento che si esprimono nelle attività di digitalizzazione. Su un piano altrettanto ampio si colloca Europeana, una rete che raccoglie milioni di elementi digitalizzati appartenenti a musei, archivi e biblioteche europei, una biblioteca digitale che riunisce contributi già digitalizzati da diverse istituzioni dei ventisette paesi membri dell’Unione Europea in ventitrè lingue.

Prof.ssa Renata Salvarani
Prof.ssa Renata Salvarani
Per la valorizzazione territoriale locale in chiave scientifica un modello è il Museo Civico di Rovereto. Aperto nel 1851, ha sviluppato le proprie collezioni in relazione con gli approfondimenti dello studio dell’area della Vallagarina e del Trentino, arricchendosi di documentazione, immagini, cartografia, dossiers, progettazioni, dati.  Lo spazio virtuale del suo sito mostra gli oggetti conservati nel Museo e, insieme, una rete di informazioni ad essi connesse, che fornisce ai cittadini elementi importanti di conoscenza del territorio e dei suoi fenomeni (naturali, storici, sociali, economici). Alle sezioni liberamente accessibili si aggiungono spazi virtuali destinati ai ricercatori e agli studiosi, che formano una community che opera insieme con l’Istituzione: il Museo ha sviluppato una sorta di laboratorio virtuale per una comunità scientifica  che, mantenendo un contatto con le tematiche poste dalle collezioni stesse, condivide e divulga informazioni e risultati di ricerca in tempi molto rapidi. L’istituzione culturale, come un grande workshop, può creare e “vendere” conoscenze che vengono costantemente incrementate intorno ai contenuti di cui è detentrice, grazie agli apporti dei collaboratori scientifici che vi ruotano intorno e che essa riesce ad aggregare. Vi si aggiunge un’attività di stimolo più ampia e libera, messa in atto attraverso una web tv di carattere scientifico. Queste attività, che sono aperte alle interazioni con i privati e con i soggetti economici del territorio, rendono il Museo autosufficiente dal punto di vista gestionale, facendone un modello di valorizzazione integrata del patrimonio nel suo insieme. Nell’epoca in cui la fanno da padrona le piattaforme che aggregano i contenuti prodotti dagli utenti, nell’ottica della promozione dei territori le voci “ufficiali” giocano una partita a parte o dovrebbero fare proprie certe logiche innescate dalla rete e dalla socialità online?  La sfumatura in rete delle distinzioni fra utenti e soggetti “ufficiali” (in ambito istituzionale e culturale) è illusoria e risulta fuorviante.

Gli enti e le istituzioni dovrebbero svolgere un ruolo di indirizzo e di coordinamento delle diverse esperienze, favorendo un superamento della frammentazione e andando nella direzione di un’apertura dei dati e degli accessi. La circolazione più ampia possibile dei contenuti non può prescindere  da garanzie di scientificità sulle informazioni relative al patrimonio: tale garanzia può venire solo da un coinvolgimento diretto e sistematico della comunità scientifica, delle Università, delle case editrici e degli enti culturali.

Quanto si investe in Italia per la valorizzazione di cui sopra e quali sono gli enti chiamati a fare la parte più importante del lavoro? Si investe poco – e questo rientra nella più ampia questione degli investimenti in cultura e innovazione – e soprattutto malamente, disperdendo energie in molti progetti diversificati che talvolta, tutt’oggi, ancora non utilizzano standard comuni. Proprio la diffusione di metodologie condivise e di buone prassi sperimentate può contenere questa tendenza, insieme con un effettivo coordinamento fra la pluralità di soggetti che in Italia gestiscono il nostro immenso e multiforme patrimonio. Non penso solo all’interazione fra i privati e i diversi livelli di amministrazione pubblica, ma anche al coinvolgimento di Università e  Istituti di ricerca, dell’associazionismo culturale e dell’imprenditoria più innovativa. Recentemente il Ministro Bray ha rilanciato il progetto di Italia.it, attualmente monumento di grande dispendio di denaro pubblico foriero di minimi risultati. Che idea si è fatta in merito? In un settore che si evolve continuamente e che per natura è aperto a tutte le sperimentazioni e a tutti gli apporti, più i progetti sono rigidi e faraonici, meno possono funzionare. Sarebbe già molto che fossero mantenute e alimentate le reti istituzionali che esistono e che adottano standard europei (penso, per esempio, al SIUSA, la piattaforma on line per gli archivi, all’OPAC, e alle attività dell’ICCU, Istituto Centrale per il Catalogo Unico), e che intorno ai nuclei nazionali di patrimonio si sviluppassero reti di informazioni e strumenti digitali di accesso adeguati. Se potesse fare un appello al Governo, cosa chiederebbe? Il patrimonio culturale e i giovani sono le risorse di questo Paese: non hanno bisogno di assistenza, ma di essere liberate e di poter diventare effettivamente un elemento dinamico per la società. Più che stanziamenti di fondi pubblici, sarebbero importanti forme di defiscalizzazione e incentivi  per le aziende basate in Italia che contrattualizzano i giovani in operazioni di innovazione e digitalizzazione e per i professionisti che in forma associata si dedicano a queste attività. E’ un’esigenza tanto più evidente se si considera l’immediata trasferibilità di queste attività in aree più attrattive dal punto di vista fiscale,  burocratico e dei servizi tecnologici.  Rischiamo di avere sui nostri territori e nelle nostre città un patrimonio immenso “gestito” e veicolato da altri, con tutti i rischi che questo implica, anche sul piano delle distorsioni culturali. Lo stesso vale per i privati e per i soggetti pubblico-privati (musei, collezionisti, fondazioni) che potrebbero essere incentivati a mettere in rete i loro patrimoni, incrementando il peso e la potenzialità di collegamenti del sistema della cultura italiana, nel suo insieme. 5 dicembre 2013

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