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Avvocati sul Web: quali regole per l’auto-promozione su internet?

Potenzialità e limiti della promozione di un professionista tramite la rete: quali pratiche sono lecite su siti e social network? Come si pone la professione in merito alla disciplina sulla pubblicità? E quali sono le implicazioni per la protezione dei dati? L’analisi del professor Aniello Merone per i Quaderni di Diritto Mercato Tecnologia, nella quale si sottolineano anche gli spazi dei quali l’avvocato non può avvalersi per promuovere la sua attività Fino dove può spingersi un avvocato quando immette su internet informazioni relative alla propria attività? Se le reti sociali online hanno permesso negli ultimi anni una sempre più ampia serie di meccanismi di autopromozione dei professionisti, tramite dinamiche che non hanno sostituito ma affiancato e allargato l’area del marketing tradizionale, è indubbio che possano generarsi alcune criticità e rischi in merito alla possibilità che alcuni comportamenti possano recare danno a terzi e, in alcuni casi, porsi in contrasto con le leggi vigenti. È il tema affrontato dal professor Aniello Merone, ricercatore di Diritto processuale civile nell’Università Europea di Roma, in “La divulgazione d’informazioni sull’attività professionale attraverso internet“, contenuto nel quaderno numero 3 del III Anno di attività dei Quaderni di Diritto Mercato Tecnologia, raccolta trimestrale della nostra Rivista Scientifica. Merone, dopo aver sottolineato la liceità di “attività quali l’analisi del mercato o l’autodiagnosi dello studio, nella loro veste di strumenti di marketing tesi a migliorare i risultati economici del professionista”, esclude la possibilità che, alla luce delle norme vigenti, l’informazione possa assumere i connotati della pubblicità ingannevole, elogiativa o comparativa,”aspirando ad indicare le percentuali di cause vinte, sottolineare la fiducia già concessa da prestigiosi clienti o stabilire paragoni di qualsiasi tipo con altri studi”, e chiosa:

“In un contesto liquido ed immateriale quale quello della rete internet non si potrà prescindere dall’individuare delle regole e/o dei limiti alla naturale tensione del professionista a realizzare, attraverso la pubblicità, un «surrogato o un’integrazione della propria reputazione», che lo aiuti ad espandere il suo network e ad innalzare il profilo professionale. Resta, infatti, immutata l’esigenza di tutela dei fruitori del servizio legale e, parallelamente, del pubblico interesse al corretto esercizio della professione forense”

Subito dopo la ricostruzione dell’evoluzione della disciplina, che evidenzia come la tematica della divulgazione a scopi pubblicitari per il professionista fosse diventata rilevante negli Stati Uniti già negli anni ’60 e, definitvemente, nel 1977, quando una sentenza della Corte Suprema apriva alla pubblicità commerciale richiamando le tutele del primo emendamento della Costituzione americana. Negli anni successivi prima l’Inghilterra e poi la Germania si dotarono di un quadro normativo sulla materia, mentre più lento fu l’allineamento della Francia. In riferimento all’Italia, Merone scrive:

“Guardando al nostro ordinamento, l’esistenza di un diritto di dare informazioni sull’attività professionale può dirsi incontroverso, per molteplici ragioni: da un lato, la riconducibilità del diritto ai principi costituzionali di libera manifestazione del pensiero (art. 21, Cost.) e libertà di iniziativa economica (art. 41, Cost); dall’altro lato, l’ampio riconoscimento e la tutela del diritto alla concorrenza, intesa come libertà per tutti i fornitori di servizi nei rapporti con i cittadini, le cui restrizioni sono da considerare illegittime, se non sostenute da esigenze di pubblica tutela; inoltre, la possibilità, espressamente prevista, per i prestatori di professioni regolamentate di avvalersi di comunicazioni commerciali”.

Vengono così messi in evidenza alcuni criteri che l’informazione data dall’avvocato deve rispettare: verità, correttezza, trasparenza e veridicità, impossibilità di pubblicare notizie riservate o soggette a segreto professionale, necessità di dare all’informazione contenuto e forma idonea a non ledere l’immagine sociale della professione. Lo specifico della rete entra nel “radar” della regolazione della professione con la modifica del codice deontologico del 26 ottobre  2002, che inserisce i “siti internet” tra i mezzi consentiti per la divulgazione delle informazioni. Il Consiglio Nazionale Forense ha poi confermato che l’avvocato può utilizzare esclusivamente i siti web con domini propri e direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato, o alla società di avvocati alla quale partecipa, comunicandolo al Consiglio dell’ordine di appartenenza. È poi onere del professionista assicurarsi che le informazioni sul suo spazio online siano sempre aggiornate e corrette oltre che in linea con il codice deontologico, un principio che si estende anche ad eventuali link a risorse di terzi. Importante la limitazione che impedisce all’avvocato di utilizzare gli spazi web forniti gratuitamente da portali telematici se essi impongono la presenza all’interno del sito di pubblicità ad altri siti o pop-up di alcun tipo.

“Quanto invece all’offerta di servizi attraverso internet – sottolinea Merone – i cui vantaggi sono ampiamente enfatizzati, essa rappresenta una semplice dichiarazione di disponibilità del professionista ad essere contattato da nuovi clienti, per offrire loro la propria consulenza; pertanto, se operata nel rispetto dei principi di correttezza e di decoro professionale e con modalità che consentano di acquisire le informazioni richieste dalla disciplina sul commercio elettronico, senza tradursi in un accaparramento di clientela, essa rappresenta un mezzo in sé indifferente, come l’uso del telefono, del fax o l’invio di una brochure. In altre parole, a rendere illecita l’offerta, sotto il profilo disciplinare, è la presenza di affermazioni suggestive e/o celebrative della qualità della consulenza prestata, di richiami alle percentuali di vittoria conseguite in altre cause, di eventuali (e improvvide) garanzie di risultato, e ogni altra violazione di regole deontologiche, chiamate a presiedere alle corrette modalità di utilizzo di questa, come di ogni altra, forma di comunicazione professionale. Ad esempio, il rispetto dovuto all’art. 36, canone I, del c.d.f., costituisce argomento decisivo contro l’ammissibilità dell’offerta di prestazioni di consulenza gratuite a soggetti indeterminati ed indiscriminati, poiché il professionista, anche quando intrattiene una relazione professionale per via telematica, deve sempre avere cura di verificare l’identità del cliente e rendere evidente quale sia la natura della consulenza legale prestata”.

Da qui deriva anche la delibera del Consiglio dell’Ordine di Firenze con la quale nel gennaio 2012 si invitavano gli iscritti a non pubblicizzare le loro prestazioni professionali tramite i voucher di Groupon. L’impostazione che vale per i siti sembra dover essere estesa anche ai profili e alle pagine aperte dai professionisti sui social network. La necessità di rispettare le norme sulla riservatezza e sulla protezione dei dati completano le griglie entro le quali deve essere confinata l’attività di divulgazione per il professionista. “Se dall’excursus offerto è possibile osservare come, ancor oggi, nel codice deontologico forense il richiamo alla pubblicità sia presente solo in termini negativi – afferma Merone aprendo l’ultimo paragrafo del suo lavoro – vale la pena domandarsi se e in che misura la legge 31 dicembre 2012, n. 247, recante la Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense consentirà di superare tale approccio”. E conclude:

“Se è vero che saranno le pronunce dei vari consigli dell’ordine e del CNF a meglio definire la portata precettiva del nuovo art. 10, la cui violazione costituisce illecito disciplinare, si può osservare come la norma sembri offrire una cornice definita in continuità e sulla scorta di principi e veti già presenti nel codice deontologico vigente, senza contare che ad essi, la stessa Corte di Cassazione ha spesso offerto il proprio avallo. Meglio, proprio le più recenti pronunce della Suprema Corte ci spingono a ricondurre le diverse voci del decalogo offerto dall’art. 10, secondo comma, al primario rispetto del decoro e della dignità professionali, riferimenti irrinunciabili anche in ipotesi di ricorso al mezzo pubblicitario, che se non conforme sarà sottoponibile a sanzione”.

Immagine: LeggiOggi.it 11 novembre 2013

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