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La responsabilità sanitaria e i possibili contenziosi da COVID-19

Di Giulio Ponzanelli, professore ordinario di Diritto privato presso l’Università di Milano

Le diverse stagioni della responsabilità sanitaria. La prima stagione: quella della sostanziale immunità ( “The doctor can do no wrong”) (1942-1978)

Credo importante premettere una breve rassegna delle precedenti stagioni attraversate dalla responsabilità sanitaria prima di passare all’analisi dell’impatto del COVID 19 su questo settore della r.c. e in particolare delle norme attualmente in discussione governativa, volte ad approntare agli esercenti la professione sanitaria limitazioni di responsabilità per le eventuali colpe commesse dagli stessi commesse in questo periodo di straordinaria emergenza sanitaria.

Per ragioni di brevità non affronterò la prima stagione, nella quale il medico aveva goduto, a torto o a ragione, di una sostanziale immunità tale che potrebbe essere evocato il famoso principio di common law per escludere la responsabilità dei magistrati e più in generale dell’intero apparato governativo: al posto di The King, andrebbe The doctor can do no wrong. Le stesse esigenze di protezione dell’autonomia delle funzioni dell’apparato giudiziario – che per secoli avevano sconsigliato di dichiarare la responsabilità dei Giudici – possono valere anche per la classe medica. Ad esempio, l’interpretazione riservata per alcuni decenni all’art. 2236 (ritenuta applicabile alla sola imperizia e non anche ad imprudenza e negligenza ; al tempo stesso, quasi tutti gli interventi medici venivano considerati di speciale difficoltà e qualificare allora in termini di colpa grave o addirittura di dolo la condotta dei medici diventava onere della prova impossibile) e la qualificazione dell’obbligazione del professionista medico in termini di obbligazione di mezzi minavano alle basi la possibile affermazione di un diritto comune della responsabilità del professionista intellettuale medico. Il discorso sarebbe ovviamente assai più articolato da compiere, ma è stato esplorato in dottrina con compiutezza.

La seconda stagione della medical malpractice: l’imperialismo della  Giurisprudenza (1978-2012) 

Inaugurato dalle note decisioni che avevano distinto interventi di facile e di difficile esecuzione, che ponevano a favore del paziente danneggiato un più favorevole regime dell’onere della prova, sino al 2017 la giurisprudenza, pezzo dopo pezzo, ha, invece, costruito uno statuto della responsabilità medica che ha fissato un livello di responsabilità sempre più rigoroso per le strutture sanitarie e per gli esercenti la professione sanitaria.

Si è parlato addirittura, ma con un grave errore, di una responsabilità cripticamente oggettiva che sarebbe stata imposta dalla giurisprudenza a carico delle strutture sanitarie. In effetti non si tratta di una responsabilità oggettiva che poi in un sistema perfetto potrebbe essere introdotta solo dal legislatore, ma casomai di una responsabilità sempre più aggravata a carico della struttura sanitaria.

Il maggior rigore della responsabilità era stato determinato da un profondo mutamento della società italiana che dagli ultimi decenni del secolo scorso aveva cominciato a chiedere in modo sempre deciso e insistente un aumento del risarcimento del danno in generale e in particolare del risarcimento richiesto dai pazienti in seguito a trattamenti sanitari. Il vento risarcitorio che ha investito l’Italia muove dal progressivo allontanamento del principio holmesiano – non scritto in nessuna norma giuridica ma che aveva costituto il cuore della responsabilità civile – per il quale “a loss shall remain where it falls”. Non sono stati quindi solo i giudici che avrebbero promosso battaglie persecutorie nei confronti degli operatori sanitari, né gli avvocati dei pazienti lesi né i periti di parte responsabili di essere portatori di verità non rigorose e scientifiche: il “grande freddo” della responsabilità medica di quegli anni nasce dalla volontà, culturale prima che politica, di assicurare in modo sempre più diffuso il risarcimento, ignorando che il trasferimento della maggiore ricchezza (costituita dal risarcimento del danno ) così attuato sarebbe stato magicamente neutro in termini economici.

Come conseguenza di questo clima generale e per dare tecnicamente corpo a questa volontà riparatoria, la giurisprudenza in meno di dieci anni ha provveduto, progressivamente, ad una rivoluzionaria modificazione di alcune consolidate regole giuridiche, riconoscendo:

a) la natura contrattuale della responsabilità gravante sulla struttura e sull’esercente la professione sanitaria;

b) la generale operatività del principio della vicinanza della prova che finisce per far gravare sulla struttura l’onere di escludere il nesso di causalità materiale nei casi di causalità incerta;

c) il nesso di causalità materiale interpretato secondo il criterio del più probabile che non;

d) il riconoscimento della perdita di chance

e) l’interpretazione elastica riservata alle norme sulla prescrizione con particolare riferimento alla decorrenza dei suoi termini dal momento in cui il danneggiato ha avuto – o avrebbe dovuto avere, usando l’ordinaria diligenza – una conoscenza soggettiva dell’antigiuridicità della condotta del danneggiante; oltre a confermare nel settore specifico della responsabilità sanitaria una notevole generosità nella concessione del danno non patrimoniale che ha reso il sistema italiano come normalmente il più attraente in tutto il continente europeo quanto alla misura concreta di questa figura di danno [MAGGIOLO].

Il rigore e la severità con le quali viene giudicata l’attività degli operatori sanitari solleva il problema della c.d. “medicina difensiva”, nelle sue declinazioni attiva e passiva. Si impone cioè una disciplina della responsabilità sanitaria che, sempre volendo assicurare una adeguata protezione della salute dei cittadini, mira anche a introdurre un diverso equilibrio tra questa esigenza fondata sulla Costituzione rispetto ad altri valori e beni aventi sempre rango costituzionale.

La terza stagione, degli interventi legislativi: la legge Balduzzi, la lunga discussione per una nuova legge, l’approvazione della Gelli-Bianco e la sua attuazione (2012-2020)

Il settore delle professioni intellettuali è sempre stato ontologicamente di matrice quasi interamente giurisprudenziale, essendo costruito attorno a poche norme( artt.1176,2236); tuttavia, necessitava di un intervento legislativo per gli eccessi manifestati nella tutela del paziente, che avevano poi fatto lievitare i costi della sanità oltre ogni ragionevole limite e avevano determinato anche una quasi completa fuga dal mercato della gran parte delle imprese di assicurazione. Per queste ragioni entra in campo il legislatore con un cammino lungo caratterizzato da tanti interventi: un primo provvedimento, volutamente incompleto, è stato adottato con un DL e poi trasformato vistosamente in sede di conversione, su iniziativa del Ministro Balduzzi ; poi dopo un lungo processo di discussione viene approvata la legge Gelli Bianco che fissa una organica disciplina della responsabilità medica.

Il timore era che, nel pur lodevole compito di razionalizzare il settore dell’esercizio della professione intellettuale sanitaria, il legislatore in qualche modo avrebbe potuto violare la ripartizione tra i poteri legislativo e giudiziario, ponendo in essere un vero e proprio trespass nei confronti degli equilibri raggiunti dalla giurisprudenza.

La legge del 2017, invece, rispetta e non tocca quelle che erano stati i traguardi, giusti o sbagliati, raggiunti dalla giurisprudenza italiana: si mantiene, con tutti gli aspetti favorevoli per il paziente danneggiato, la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria ex art.1218 c.c., facendo invece divenire extracontrattuale la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, che è tradizionalmente più ostica per la persona che cerca il risarcimento. L’intento evidente è quello di spingere le eventuali controversie verso la struttura (attraverso un meccanismo di c.d. “canalizzazione della responsabilità”), quale soggetto nelle condizioni di meglio organizzare lo svolgimento dell’attività e anche più protetto, potendo poi esercitare un’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la responsabilità sanitaria, laddove sia provato il dolo o la colpa grave, pur sempre entro limiti quantitativi molto modesti. Non esiste responsabilità civile nel caso di osservanza delle linee guida, mentre la responsabilità penale rimane esclusa solo se la violazione delle linee guide è avvenuta per colpa lieve determinata da imprudenza e negligenza, ma non da imperizia, determinando in tal modo un maggior rigore.

La legge si propone anche di attivare il meccanismo assicurativo vista la grande fuga dal mercato, ma ad oltre tre anni non sono stati emessi i decreti attuativi previsti, con la conseguenza che ancor oggi i profili assicurativi sono fonte di grossi problemi: sono stati risolti solo quelli relativi agli esercenti la professione sanitaria, ma non anche per le strutture sanitarie. E molte di queste hanno anche optato per meccanismi di auto-assicurazione, del resto previsti dalla legge, forse nella consapevolezza che una sistemazione completa e ragionevole delle problematiche assicurative non sarebbe stata molto facile da raggiungere.

Come è noto, alcuni dei problemi più spinosi che avevano determinato il maggior rigore con il quale la giurisprudenza aveva considerato la posizione dei medici e della struttura sono stati poi rivisitati dalla giurisprudenza della Terza sezione; la quale ha lodevolmente recepito la più autentica indicazione della legge Gelli-Bianco, mirante ad introdurre un giusto equilibrio tra gli interessi spesso contrapposti (salute del paziente e sicurezza delle cure ma anche sostenibilità economica e assicurativa di un sistema sanitario molto avanzato). E quando in Italia, almeno nelle Riviste giuridiche, si discuteva animatamente della nuova giurisprudenza sanitaria inaugurata dalla Cassazione e si attendeva il deposito di una ulteriore produzione giurisprudenziale per completare il Restatement iniziato l’11 novembre 2019, arriva la pandemia del Covid 19 che riempie l’Italia, primo paese europeo colpito, di un numero impressionante di morti e di contagiati, potenziali soggetti attivi di pretese risarcitorie.

Quasi sopraffatte dalla violenza del contagio, le autorità sanitarie non sono nemmeno riuscite a contare con sufficiente precisione il numero dei decessi causati dal virus, né tantomeno a gestire i corpi. Il corona virus impegna poi all’inverosimile le terapie intensive, che si rivelano chiaramente insufficienti e inadeguate ad ospitare l’incredibile numero di coloro che ne fanno richiesta; se ne cercano e se ne costruiscono di nuove, ma intanto il numero dei pazienti che muore aumenta. Allo stesso tempo, tra le persone decedute si contano sempre più spesso medici e infermieri che malati non erano, ma sono stati contagiati da pazienti infetti perché spesso non protetti in modo adeguato. Lo scenario è apocalittico e assomiglia a quello di una vera e propria guerra.

Forti del ricordo di che cosa sia successo nell’Italia in una situazione di non pandemia, tutti pensano allora immediatamente alle tante cause che potrebbero essere instaurate nel dopo Covid 19. Subito il pensiero corre a episodi di contenzioso collettivo, più o meno omogeneo, verificatosi nel passato, stante la sostanziale inutilizzabilità dello strumento dell’azione collettiva (la nuova disciplina non è entrata in vigore, mentre quella attualmente in vigore non pare adeguata a ospitare le azioni dei tanti danneggiati perché la materia della responsabilità medica non rientra nel campo di applicazione): in particolare, immediato è il riferimento al blackout elettrico del 28 settembre 2003 che ha originato circa 150mila cause per richieste risarcitorie normalmente non superiori ai limiti di competenza per valore dei giudici di Pace. Il potenziale contenzioso Covid-19, oltre ad essere molto più grave nella sua diversità per la presenza di morti e feriti, si prospetta come altrettanto prolifico ; sicché non poteva non risvegliare gli appetiti di una parte della classe forense, subito giustamente redarguita per aver assunto posizioni non solo non corrette deontologicamente ma che soprattutto contrasterebbero apertamente con i sentimenti di apprezzamento e di riconoscenza che tutta la società italiana dovrebbe avere nei confronti di tutti gli operatori sanitari, i veri eroi della pandemia. Nasce da questa situazione una esigenza forte di assicurare una protezione ai medici, ma non è ben chiaro se tale misura debba essere concessa anche alle strutture sanitarie. Si parla insistentemente di “scudo”, cioè di una norma di deroga alla generale operatività delle disposizioni della legge Gelli Bianco e di quelle generali previste nel Codice Civile. Per la grave situazione di emergenza sanitaria ci si interroga in particolare se sia giusto o opportuno, politicamente prima che giuridicamente, prevedere questo scudo: in altri termini, una situazione eccezionale dovrebbe giustificare l’introduzione di una norma eccezionale [COMANDÈ].

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