di Giusella Finocchiaro e Laura Greco Sommario: 1. Premessa 2. Gli ostacoli; 2.1.…
La circolazione dei contenuti mediante link ad opere protette tra diritto d’autore, responsabilità del prestatore e concorrenza
di Eugenio Prosperetti Sommario
- Definizione del tema
- Il link è un oggetto di diritto d’autore?
- Illiceità nella costruzione e presentazione della relazione tra ipertesto ed opera linkata.
- Il tema del linking nella giurisprudenza italiana ed internazionale
- Il linking nella proposta di Regolamento AGCOM 2013 sulla tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica
- Il problema del legal risk sopportato dalle piattaforme web 2.0 e le implicazioni antitrust – cenni.
1. Definizione del tema
Il linking è la modalità principale di circolazione delle informazioni in Internet e, segnatamente, nel world wide web, che funziona per il tramite di ipertesti, cioè parti di testo “attive” che, una volta selezionate, portano il browser a navigare verso un certo indirizzo del World Wide Web a cui, per l’appunto, “connettono” a qualcosa di diverso (da qui la denominazione inglese di link – connessione). Chiunque predispone un sito Internet inserisce in esso connessioni ipertestuali per collocarlo nel contesto del web e della “rete” e, così facendo, dimostra di accettare il metodo del linking quale forma espressiva e di indirizzamento tipica del contesto del web. La dottrina giuridica, come si dirà, ha avuto modo in varie occasioni ed ambiti di confrontarsi con la tecnologia ipertestuale dei link e, in particolare, ha valutato se potesse esistere un diritto ad inibire a terzi di realizzare link particolarmente invasivi (deep linking), le problematiche derivanti da link scarsamente trasparenti (framing ed indirect linking), i casi derivanti dal porre il link in collocazioni pregiudizievoli per ragioni di dignità o concorrenza sleale ed infine anche casi che vedevano associazioni tra testo del link e oggetto del link che causare problemi di concorrenza sleale [1]. Successivamente all’ampia attenzione al tema del linking prestata dalla giurisprudenza, la tecnologia dei link e, soprattutto, dei dispositivi in grado di utilizzarli, si è evoluta; rispetto a tale evoluzione, tuttavia, le pronunce sono rare e non affermano principi chiari; è inoltre del tutto assente l’intervento della Corte di Giustizia Europea. Il presente breve saggio si propone pertanto di indagare, alla luce del mutato quadro tecnologico, il tema del linking ad opere digitali [2], di verificare se esistano situazioni di illiceità del link ad opere digitali e di asseverare quali siano i criteri per determinarli/riconoscerli. Le analisi sinora svolte, in dottrina e giurisprudenza sul tema del linking, hanno tutte dato per presupposto che il link fosse proposto ed operato nel contesto di un browser ed utilizzato da una postazione di computer. Tale assunto non è più necessariamente vero; in particolare, non è detto che, con le tecnologie attuali, l’utilizzatore sia consapevole di azionare un link o di aver aperto un contenuto grazie ad una azione di linking; nemmeno è scontato che l’utilizzatore sia messo in grado di distinguere tra contenuto presente su un sito Internet esterno e contenuto interno ad un software. Il link nella sua essenza è un elemento contenente dati ed informazioni in tecnologia ipertestuale, tesi ad azionare l’apertura di una risorsa attraverso il “protocollo IP”, caratteristico di Internet; esso è utilizzato da una lunga lista di oggetti tecnologici e relativi software, che hanno, come si diceva, modalità molto diverse per proporlo all’utilizzatore. Distinguerei però tra la proposizione del link e la proposizione del contenuto che risulta dall’attivazione del link medesimo. Al secondo dei due momenti citati si applica infatti il normale regime di tutela previsto per l’opera dell’ingegno su sito web (o sulla piattaforma che viene aperta). Lo stesso non può, invece, dirsi per il primo momento, quello della presentazione di un link, almeno sino a che non avviene una interazione con il contenuto (l’apertura del link, in buona sostanza). Un caveat da tenere presente nell’indagine è che il link è connaturato all’essenza di Internet come la conosciamo: qualora si ritenesse accettabile l’idea che qualsivoglia link debba essere “autorizzato”, Internet cambierebbe la propria natura e non potrebbe più funzionare; basti pensare che l’inventore del World Wide Web Tim Berners Lee [3] non fece altro che predisporre il linguaggio HTML ed il relativo protocollo di comunicazione HTTP, al fine di rendere possibile a scienziati e ricercatori di predisporre attraverso links ai lavori e alle ricerche di terzi una più agevole comunicazione a distanza i propri trovati. Qualora il link fosse oggetto di privativa, il web diverrebbe qualcosa di non molto diverso dalla televisione commerciale: ogni sito che propone contenuti al pubblico diverrebbe scarsamente interattivo, in quanto ogni azione su IP richiederebbe di azionare o predisporre un link e si dovrebbe dunque ottenere l’autorizzazione del titolare chiamato in causa: si eliminerebbe perciò la gran parte della possibilità di interagire, per evitare di dover continuamente chiedere autorizzazioni. Cesserebbe la possibilità di realizzare siti individuali o, meglio, i siti diverrebbero qualcosa di autoreferenziale, non potendo ospitare collegamenti a terzi, se non a pagamento. La necessità di pagare “licenze di linking” disgregherebbe grande parte dell’interattività che ha portato all’evoluzione della società dell’informazione. Ciò premesso, non è automatica la conclusione opposta, che cioè ogni link ed ogni azione di linking sia lecita e consentita, in quanto, nell’ambito di un generale diritto a creare ed utilizzare un link operano pur sempre i principi generali dell’ordinamento a tutela della correttezza, trasparenza, della lealtà commerciale, così come opera la tutela dei consumatori. Si è così definito l’ambito di indagine del presente saggio, che individuati i criteri di possibile utilizzo del link ad opere digitali, si concluderà con alcune considerazioni circa il rapporto tra utilizzo del link, esclusiva, mercato e concorrenza. L’analisi terrà inoltre conto anche della più recente proposta di regolamento sul diritto d’autore posta in consultazione dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni nel luglio 2013 e tuttora in consultazione al momento della stesura del presente contributo.
2. Il link è un oggetto di diritto d’autore?
Affinché si possa inibire un soggetto a realizzare o mantenere un link in una pagina web in virtù di una privativa, occorre individuare quale sia la norma che in ipotesi riserverebbe la privativa sul link il questione al soggetto che richiede una siffatta inibitoria [4]. E’ necessario dunque verificare se il link sia esso stesso oggetto di privativa o se la privativa in questione sia di altra fonte. Il link non pare essere previsto dalla Legge sul Diritto d’Autore tra le opere oggetto di protezione, né espressamente, né nell’ambito di una delle categorie di cui all’art. 2 [5]. Esso infatti è cosa diversa sia dal domain name che dal sito web. Il link nemmeno pare idoneo a rientrare per analogia in alcuna categoria di opere tutelate. Esso viene in essere non come creazione dell’ingegno in quanto non è frutto diretto della mente creativa di un creatore di sito web. Il link è piuttosto il risultato tecnico della predisposizione dei contenuti del sito che, secondo le regole del HTML e di altri linguaggi di programmazione, combinati ai file systems associati al server che ospita il sito, producono un ibrido tra un percorso di localizzazione dei files ed alcuni comandi ed informazioni, da passarsi, all’atto dell’apertura del file in questione sul web (la pagina web) al programma di consultazione (il browser). Si tratta di informazioni tese a consentire al browser di rintracciare e, una volta aperto, utilizzare (ad esempio fornendo un nome utente e password), un certo elemento presente su Internet. Non sembra, tuttavia, che il link possa rientrare nella tutela riservata ai programmi per elaboratore: la tutela riservata ai programmi per elaboratore dalla Direttiva 2009/24, se esaminata nel suo insieme, ci mostra infatti che il “programma” tutelato dal diritto d’autore è una creazione complessa, dotata di una forma “estetica” di espressione, che sia distinta e distinguibile dalle idee alla base della programmazione, dotata di interfaccia utente e che presenta attitudine ad essere utilizzato in “copie” dagli utenti [6] e ad essere oggetto di compilazione [7]. A monte di queste considerazioni, occorre inoltre notare che, anche a voler interpretare estensivamente il considerando 7 della suddetta Direttiva, che specifica che la tutela riguarda “programmi in qualsiasi forma”, bisogna però considerare che il considerando 8 nega tutela a programmi sulla sola base di “meriti qualitativi ed estetici”, mentre il considerando 11 specifica che “le idee ed i principi alla base di qualsiasi elemento di un programma non sono tutelati dal diritto d’autore”, e certamente il link è carente di una espressione formale autonomamente tutelabile, appunto, anche a volerlo considerare in via interpretativa un elemento di software. In via residuale, una tutela potrebbe riconoscersi, in quanto vi è ingegno e forma espressiva, al testo che viene associato al link con relativo divieto di riprodurre una certa originale associazione ipertestuale tra un certo testo, dotato dei requisiti per la tutela ed un link, che i requisiti, come si è detto, non possiede. Tuttavia, il divieto cadrebbe ove il link venisse riprodotto autonomamente e/o associato in via ipertestuale ad un testo diverso, dovendo effettuarsi, a quel punto la valutazione sulla relazione tra il testo associato e il contenuto linkato, senza che il link possa più essere invocato quale possibile oggetto di privativa.
3. Illiceità nella costruzione e presentazione della relazione tra ipertesto ed opera linkata
La dottrina e la giurisprudenza che si sono occupate di Internet in generale hanno diviso le tecniche di linking in direct linking (si tratta di link diretti e palesi a contenuti che sono disponibili nel medesimo sito), indirect linking (espressione che può indicare, sia link tradotti attraverso servizi di terzi che riducono, per maggior praticità, link particolarmente “lunghi” in maniera tale che gli stessi non siano però riconoscibili, che semplici link che riferendosi ad un contenuto di dettaglio, collegano alla homepage del sito dove il contenuto è presente) e, infine, deep-linking (link strutturati per puntare direttamente a specifici contenuti di un sito, saltando processi, avvertenze e/o autenticazioni che hanno una certa importanza in relazione a quel link, in quanto tesi ad aggirare divieti, precauzioni, o, addirittura, saltare richieste di password, pagamenti e similari). Il tema del linking alle opere dell’ingegno e, segnatamente, alle opere digitali, costituisce un ibrido delle tecniche sopra descritte e presenta varie casistiche che, come si è visto, non possono essere inibite per una privativa diretta esistente sul link; l’eventuale illiceità di un link deriva, dunque, dalla relazione tra contenuto linkato e modalità con la quale il link viene presentato. Un esempio di link ad opere dell’ingegno frequentemente utilizzati in Internet è la citazione dell’opera tramite link a corredo di articoli di giornali online che la chiamano in causa; in tali situazioni è evidente che il link “rappresenta” la localizzazione dell’opera: esso consente a chi non abbia chiaro l’oggetto dell’articolo di raggiungere l’opera medesima ma, in nessuna parte, ha il medesimo contenuto espressivo dell’opera. Una certa trasmissione televisiva disponibile in replica online, un certo articolo di un giornale, anch’esso consultabile online, un certo brano musicale disponibile su un portale di user generated content, se linkati, devono essere visionati attraverso il link, per esprimere il contenuto creativo di cui sono depositari. Un diverso tipo di utilizzo è invece quello compiuto da siti ed applicazioni che presentano un vero e proprio database/catalogo di links, funzionando, in sostanza, da motore di ricerca specializzato e tematico per chi voglia ritrovare su Internet un certo tipo di contenuto (es. contenuto di tipo televisivo, editoriale, immagini pittoriche, contenuto a tema sportivo, ecc.). Alcune applicazioni, inoltre, offrono la possibilità di visionare il contenuto linkato direttamente tramite un lettore multimediale associato, generalmente in tecnologia open source. In questi casi, può essere oggetto di contestazione un utilizzo del link che non sia del tutto trasparente: ciò quando il costrutto link-oggetto del link è tale da non consentire all’utilizzatore di comprendere che si sta (i) azionando un link e (ii) che il contenuto risultante dall’azionamento del link proviene da un sito esterno e da quale sito. Google Search – che qui utilizziamo come paradigma del funzionamento del motore di ricerca – pur non restituendo l’intero link risultante dalle ricerche, ne fornisce una versione “sintetica”, che consente all’utilizzatore di rendersi conto della destinazione del proprio “clic” (una parte del link viene omessa per evitare che la ricerca possa essere cannibalizzata da altri siti); se il suddetto motore di ricerca non specificasse il link in alcun modo, esso – in sostanza – si approprierebbe dei risultati delle ricerche e diverrebbe imputabile a titolo di responsabilità editoriale per i medesimi, in quanto non sarebbe possibile agevolmente risalire alle fonti delle varie voci risultanti dalla ricerca Google. In effetti ,l’esame della casistica vede contestazioni frequenti sul tema delle modalità con cui il link viene proposto; se, cioè, esso debba venire riportato come semplice link, senza alcuna descrizione, che, all’attivazione, apre il sito linkato in un browser, oppure se il contenuto linkato possa invece venire corredato di descrizioni ed essere, al clic, aperto e fruito nell’ambito di una finestra del sito di partenza (c.d. tecnologia embedded). L’embedding di contenuti è menzionato nelle condizioni generali d’uso dei principali portali di distribuzione contenuti (es. Youtube) come soggetto a licenza. Non è cioè possibile, secondo i portali che disciplinano contrattualmente tale tecnica offrire i contenuti del portale in embedding senza che essi siano corredati di alcune caratteristiche tipiche di visualizzazione che richiamino il portale stesso tramite una interfaccia utente particolare; attraverso l’embedding, in sostanza, si vieta che il sito originante il link “vesta” i contenuti come parte della propria offerta, utilizzando, ad esempio, tecniche di iframing che sono censurabili a prescindere dall’esistenza di termini che richiedono di utilizzare particolari forme di embedding: l’iframing consiste nel dissimulare come parte del proprio sito Internet contenuti che, in realtà, provengono da altri siti Internet e, se attuato, deve ovviamente rispettare i principi della correttezza e della tutela del consumatore. Cosa diversa è la pretesa di far valere condizioni contrattuali attraverso l’accettazione per comportamento concludente (non vi è alcuna accettazione scritta e alcuna firma delle medesime); siti come Youtube presentano le condizioni contrattuali solo agli utenti identificati del portale che rimane, per il resto, anche ad utenti anonimi verso i quali non è prevista accettazione esplicita di condizioni d’uso, non essendo peraltro la controparte contrattuale identificata, se non da un indirizzo IP assistito da privacy. Ad esempio, nel caso di Youtube, l’utente non deve necessariamente accettare termini e condizioni per poter visionare i contenuti: i contenuti, inoltre, non sono assistiti da sistemi di digital rights management; i termini e condizioni prevedono una accettazione per comportamento concludente da parte di chi utilizza il sito, ma tale tecnica contrattuale mostra il fianco a possibili contestazioni e ricorda le obiezioni che la dottrina mosse, all’epoca, alle licenze shrink-wrap; le licenze software in questione, la cui accettazione avveniva lacerando la confezione furono considerate come dichiarazioni negoziali unilaterali recettizie, non vincolanti nei confronti della controparte se non espressamente e formalmente accettate. Dunque, la controparte che, consapevole di non avere una espressa accettazione, offre ugualmente il servizio, non essendo tenuta a farlo, accetta il rischio di veder violate le proprie pretese in termini di condizioni del servizio medesimo dalla controparte che quelle condizioni non ha accettato. La difesa meramente contrattuale dei termini Youtube è dunque debole, e così lo è la costruzione di un diritto a sottoporli a specifiche condizioni di fruizione che, dunque, non pare in assoluto poter resistere ed assumere, in mancanza di espressa accettazione, la natura di nuovo genus di diritto digitale. Si potrebbe considerare il diritto a imporre condizioni specifiche per l’utilizzo dei contenuti come rientrante nella facoltà del titolare ai sensi dell’art. 17 LdA (e suoi equivalenti nei rispettivi ordinamenti, se ragioniamo di servizi non basati in Italia). Tuttavia, nel caso in questione, attraverso il link il titolare rimane l’entità che distribuisce l’opera e, a meno che non sia spogliato di una chiara e trasparente attribuzione, nessuna copia non autorizzata dell’opera viene realizzata e nessuna messa a disposizione per il solo fatto di realizzare/attivare un link alla medesima: questo in quanto il titolare, intervenendo sulla piattaforma di distribuzione linkata può in qualsiasi momento evitare la distribuzione e disabilitare il link medesimo. Qualora invece, una volta predisposto il link, esso rimandi a una copia non controllabile e non disattivabile dal titolare, il link diverrà uno strumento di controllo/attivazione di una copia non autorizzata e si dovranno fare differenti considerazioni [8]. Infatti, il link ad opera non autorizzata assume la natura di connessione verso un oggetto autoriale non consentito e pare, pertanto, essere valutabile ai sensi dell’art. 171-ter. Il link all’opera proveniente dal sito del titolare sembra invece avere, più che altro, natura “promozionale” o, per l’appunto, di citazione, senza che si possa considerare applicabile la fattispecie della norma sopra citata: manca infatti un oggetto della violazione, “immesso in rete” a cui la “connessione” rappresentata dal link dovrebbe condurre; pertanto, la normativa applicabile sembra, in ipotesi di abusi nella predisposizione del link, meramente quella in tema di concorrenza sleale, tutela del consumatore e pubblicità ingannevole, per prevenire e sanzionare modalità non trasparenti di predisposizione del link, quali, ad esempio, l’impossibilità di riconoscere il sito cui si viene linkati. In particolare, il link che non presentasse un ipertesto veritiero e che, tramite l’ipertesto associato al link (che è cosa diversa dal link) utilizzasse marchi ed altro tipo di oggetti di proprietà industriale senza autorizzazione potrebbe essere inibito con gli ordinari rimedi previsti per le violazioni in questione.
4. Il linking nella giurisprudenza italiana ed internazionale
Il tema del linking si è rivelato fonte di interessanti casi in giurisprudenza originati da contestazioni a siti/servizi i quali presentavano un vero e proprio database di link organizzato con tratti simili a quelli di un motore di ricerca. Si tratta della questione che, per l’appunto, ebbe ad esaminare la giurisprudenza nel caso Coolstreaming [9]. La sentenza della Cassazione riguarda un caso in cui venivano linkati stream video di partite calcistiche del campionato italiano trasmesse su Internet da emittenti cinesi. La Suprema Corte confermava la sanzione penale a carico dei titolari del sito Coolstreaming, in quanto fornitori di configurazioni e software che consentivano la violazione del diritto esclusivo di sfruttamento economico delle trasmissioni in questione, appartenente a Sky Italia S.r.l. che aveva concesso i diritti per le medesime in licenza per la sola trasmissione via etere in Cina, e non aveva dunque nemmeno autorizzato l’emittente cinese ad alcuna trasmissione via Internet. In sostanza, il link reperito da Coolstreaming e diffuso da questa all’utenza era un link ad una trasmissione non autorizzata dal titolare. Con la sentenza n. 15158 del 10.4.2008 la Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, ha disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza di sequestro preventivo dei portali di titolarità di Coolstreaming, emessa dal Tribunale di Milano nel medesimo caso. La Suprema Corte, in questo caso, ha rilevato, a differenza di quanto avvenuto con la prima pronuncia [10], la non agevole qualificazione delle trasmissioni sportive in questione quali “opere dell’ingegno” meritevoli delle tutele di cui alla LdA in quanto, nel corso del giudizio di primo grado, esse non erano state affatto “visionate” e, dunque, non vi era alcuna evidenza che i link conducessero ad opere tutelate e di titolarità di Sky Italia. Il caso Coolstreaming, in sostanza, ha dimostrato la l’importanza della relazione tra link ed opera linkata e che un link ad un opera non autorizzata assume la qualifica di link non autorizzato se, effettivamente, conduce ad un opera non autorizzata. Una delle obiezioni che, sempre nel caso Coolstreaming veniva mossa, e che costituisce un ulteriore spunto di analisi di interesse, riguardava l’utilizzo commerciale che il titolare dei diritti contestava del contenuto linkato: in particolare, che il contenuto oggetto di link fosse mostrato abbinato a pubblicità di vario genere, non controllate/controllabili dal titolare dei diritti e senza alcuna autorizzazione al riguardo. Due sono le obiezioni possibili alla tesi per cui ogni abbinamento tra contenuto oggetto di link e comunicazione pubblicitaria richiede il consenso del titolare dei diritti: la prima è che la lettura del contenuto avviene su un PC/terminale di proprietà dell’utente e per effetto di un’azione di collegamento web azionata dal proprio terminale; il contenuto viene così a essere visualizzato nei contesti più vari ed è conseguenza naturale dell’essere contenuto “web” quella di essere visualizzato in contesti che non prevedono la visualizzazione unica ed a pieno schermo. Il tipo di software di lettura può inoltre essere dunque liberamente scelto tra quelli compatibili con il formato audio/video con i quali il contenuto viene proposto e, qualora questo software preveda pubblicità contestuali al suo azionamento, tale aspetto non è azionabile mediante privativa dal titolare dei diritti in quanto, ove così fosse, l’esercizio della privativa avrebbe implicazioni anticoncorrenziali per le quali si rinvia al paragrafo conclusivo. Il consenso sarebbe, in sostanza, implicito nel rendere disponibile il contenuto in un formato leggibile dal software medesimo. Una seconda obiezione è quella che il titolare può, in qualsiasi momento, disabilitare il link e che, conseguentemente, la mancata disabilitazione dell’accesso presuppone il consenso all’accesso diretto via link. In effetti, l’unica differenza dei siti operanti mediante database di link rispetto ai motori di ricerca nel senso consueto del termine sembra essere quella del metodo di acquisizione dei link il quale deve avvenire, se non attraverso un completo automatismo, attraverso criteri noti, trasparenti ed oggettivi di compilazione del database, che non può essere aggiornato secondo metodi editoriali o tramite eterogenee ed acquisite con criteri non verificabili. I motori di ricerca operano infatti, come noto, in base al principio dell’implied consent: si considera lecita l’acquisizione dei riferimenti al contenuto di quei siti che non manifestano, tramite il c.d. file “robots.txt” una opposizione in forma intellegibile dal software che ricerca, per conto del motore, la rete (il c.d. spider). Tale principio, per i motori di ricerca, è idoneo, dunque, a paralizzare – almeno in via temporanea – l’ulteriore e diversa efficacia di ogni privativa, norma sulla privacy, ordine giudiziale. Se un sito non include un file robots.txt in forma digitalmente corretta, il motore potrà indicizzare il suo contenuto e sarà onere del sito fare valere eventuali diritti particolari tramite le regole (per i motori soggetti al diritto statunitense) del DMCA [11]. La differenza tra un motore di ricerca ed un sito che presenta un indice di link è solamente nella modalità di acquisizione dei link stessi, che, per quanto riguarda il sito che indicizza i link, possono essere varie: i siti attualmente funzionanti li ottengono per contribuzione dagli utenti e per ricerca diretta; alcuni hanno anche funzioni automatiche non dissimili da quelle dei motori di ricerca in senso proprio [12]. La normativa e la giurisprudenza sembrano considerare il problema assegnando una sorta di salvacondotto ai servizi di search engine e a servizi specialistici, quali la ricerca immagini, forniti dai motori di ricerca medesimi [13] mentre, non risulta, almeno in casi giurisprudenziali espressi, che simili principi siano stati estesi a siti di linking. Per tali siti, in sostanza, la qualificazione giuridica è ancora fluida, alla ricerca di una collocazione, appunto, tra i motori di ricerca e le tecnologie di diffusione al pubblico delle opere. Ciò è paradigmatico della difficoltà delle attuali categorie normative a rapportarsi con la veloce evoluzioni dei sistemi di distribuzione digitale, che sono in perenne mutamento [14]. Alla questione si aggiunge qualche grado di complessità, se si vanno ad analizzare le pratiche di linking ad opere dell’ingegno che sono realizzate non attraverso browser ma, come si diceva, attraverso applicazioni mobili (le cosiddette “app”). Tecnicamente la “app” si comporta come se fosse un browser nel gestire il link, tuttavia potrebbe non apparire come tale all’utente, e non necessariamente renderebbe palese il fatto che sta aprendo un contenuto attraverso un link, in quanto è in grado di gestirne l’apertura con modalità diverse da quelle convenzionali del browser. Se, dunque, un link ad opera dell’ingegno viene gestito attraverso una applicazione (fissa o mobile che sia, dato che recentemente sono state introdotte le “app” anche per personal computer), è particolarmente importante che la sua qualità di link sia resa palese e trasparente. Ad esempio, parrebbe importante che all’utente fosse chiesto se vuole aprire un link su un sito esterno prima dell’apertura del link medesimo. Se, tuttavia, sono rispettati tali requisiti di trasparenza, possiamo ugualmente considerare fondata una eventuale pretesa di un titolare dei diritti che contesti ad un sito/applicazione di linking di aver violato le proprie privative tramite la creazione di un link ad un’opera digitale presente sul proprio sito? Ad esempio, potrebbe un titolare dei diritti vantare – per il tramite delle proprie privative intellettuali – un diritto esclusivo a creare applicazioni che incorporino link al proprio sito web? Alla questione sembrerebbe di dover rispondere negativamente, sulla base di quanto sinora si è detto. Anzitutto, il link in sé non è un’opera dell’ingegno e dunque non può essere oggetto di privativa autonoma; esso è creato da regole tecniche prevedibili ed è, nella sua essenza, un combinato di nomi di files e comandi. Non ha nemmeno il link natura di software in quanto, diversamente da un programma per elaboratore, il link non ha possibilità di funzionare autonomamente: esso deve necessariamente riferirsi ad un sito esistente altrove rispetto al link e, se quel sito viene a mancare o muta, il link non ha più alcun senso nella sua forma e deve essere riformulato. Dunque, la privativa non può riguardare il link ma riguarda, eventualmente, il suo oggetto. Cosa dunque è il link dal punto di vista normativo e quali norme, eventualmente, possono essere azionate da un titolare dei diritti che voglia impedirne o limitarne la creazione? Occorre tenere conto del fatto che l’azionamento del link provoca l’apertura del sito oggetto del link medesimo e l’esaurimento della funzione del link: qualsiasi diffusione dell’opera che segua non è dunque azione attribuibile al link ma al sito che viene aperto e alla struttura tecnica del medesimo. Il link può dunque essere imputabile, come si è anticipato, solo se provoca “surrettiziamente”, in mala fede o in maniera contraria ai principi della correttezza commerciale l’apertura del sito oggetto il quale si trova a quel punto “indifeso” rispetto ad un’apertura che non sarebbe dovuta avvenire. Simile situazione si può ipotizzare se, ad esempio nel caso di opera digitale consistente in un programma televisivo, il link sia strutturato per provocare l’apertura di uno streaming televisivo in territori dove il sito web in questione non può normalmente essere aperto e, dunque, il link elude alcune limitazioni normalmente implementate nei browser per evitare che ciò avvenga. Se, tuttavia il link è correttamente aperto e l’utente ha la percezione che il contenuto che dall’apertura del link deriva è originato da un sito terzo, di cui è riportata correttamente la titolarità, sembrerebbe che il funzionamento possa essere ricondotto tra le dinamiche ordinarie di Internet; dunque, anche la compresenza del contenuto linkato con altri contenuti sullo schermo, anche di natura commerciale, provenienti dal sito di linking, non dovrebbe risultare pregiudizievole, in quanto l’uno e gli altri sarebbero chiaramente distinti e distinguibili senza parassistismi reciproci; d’altra parte, sin dai primi anni ’90, con il diffondersi di sistemi commerciali multitasking a finestre, la compresenza di finestre e contenuti sullo schermo è divenuta la normalità. Sarebbe invece preoccupante che si diffondesse la regola, di prassi o codificata, che si dovessero ottenere, dai principali siti che offrono contenuti, “licenze di linking” per poter menzionare nei propri siti contenuto ospitato in tali piattaforme. Questa prassi creerebbe degli oligopoli della circolazione digitale, anche tramite link, del contenuto ed impedirebbe di poter menzionare/commentare un contenuto circolante, a meno, appunto, di accettare di pagare una royalty. Qualora un titolare dei diritti voglia evitare il linking i metodi non possono che essere l’autonoma protezione dei contenuti tramite tecnologie DRM e/o richiesta di identificarsi al sito prima di visionare il contenuto.
5. Il linking nella consultazione AGCOM 2013 sulla tutela del diritto d’autore
La quantità di piattaforme e tecnologie che arrivano dagli Stati Uniti prova che l’esperienza statunitense ha prodotto una regolamentazione che non contrasta l’emersione di tecnologie favorevoli alla circolazione digitali dei contenuti e la ragionevole quantità di casi discussi dalla giurisprudenza statunitense in materia di circolazione digitale dimostra si tratta di un sistema di dissuasione/composizione delle liti che riesce a risolvere la maggior parte dei conflitti. Un sistema di questo tipo è stato proposto nella consultazione in materia di norme a tutela del diritto d’autore sulle reti, indetta dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni a fine 2010 e rinnovata in seconda battuta ma senza risultati effettivi nel luglio 2011; a seguito degli approfondimenti compiuti, il meccanismo è stato perfezionato e nuovamente proposto nella consultazione AGCOM, indetta sul medesimo tema nel luglio 2013, con la Delibera 425/2013/CONS. E’ interessante commentare quest’ultima, in quanto da essa probabilmente uscirà un regolamento di tutela del diritto d’autore in ambito digitale che si porrà come primo effettivo atto di regolamentazione della materia successivamente alla normativa attuativa della Direttiva 2001/29. Non sfugge, in primo luogo, che, qualora, a seguito della consultazione, venga emanato un regolamento in materia di diritto d’autore, esso sarà emanato da una Autorità amministrativa indipendente, assumendo così le caratteristiche di regolamentazione amministrativa, anche per quanto riguarda la giurisdizione di eventuali controversie relative all’applicazione del regolamento stesso [15]. La dottrina si sta da tempo interrogando sulla competenza dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni a regolare la materia del diritto d’autore e vi sono studiosi che esprimono forte perplessità [16] riguardo il fondamento che l’Autorità invoca a base della propria competenza che sarebbe ricavabile dall’art. 182-bis della L. 633/1941 secondo il quale: “All’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ed alla Società italiana degli autori ed editori (SIAE) è attribuita, nell’ambito delle rispettive competenze previste dalla legge, al fine di prevenire ed accertare le violazioni della presente legge, la vigilanza: a) sull’attività di riproduzione e duplicazione con qualsiasi procedimento, su supporto audiovisivo, fonografico e qualsiasi altro supporto nonché su impianti di utilizzazione in pubblico, via etere e via cavo, nonché sull’attività di diffusione radiotelevisiva con qualsiasi mezzo effettuata; […]”; altra parte della dottrina ritiene, tuttavia, che “non vi sia dubbio” circa la competenza dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni a vigilare la materia [17]. La chiave della questione sembra risiedere, più che nella LdA, nelle “rispettive competenze” cui l’art. 182-bis rimanda e, dunque, occorre (anzi, occorrerà, se un Regolamento verrà effettivamente approvato da AGCOM) verificare se le competenze dell’Autorità, previste dalla sua legge istitutiva o da altra normativa, consentono all’Autorità di vigilare sugli ambiti di cui all’art. 182-bis nei termini previsti dal Regolamento. E’ in tal senso degno di nota che la L. 31.7.1997 n. 249, che per l’appunto ha istituito l’Autorità e determinato le sue competenze, all’art. 1, comma 6, lettera b), nn. 1) e 3), prevede che l’Autorità: “vigila sulla conformità alle prescrizioni della legge dei servizi e dei prodotti che sono forniti da ciascun operatore destinatario di concessione ovvero di autorizzazione in base alla vigente normativa promuovendo l’integrazione delle tecnologie e dell’offerta di servizi di telecomunicazioni;” e “vigila sulle modalità di distribuzione dei servizi e dei prodotti, inclusa la pubblicità in qualunque forma diffusa, fatte salve le competenze attribuite dalla legge a diverse autorità, e può emanare regolamenti, nel rispetto delle norme dell’Unione europea, per la disciplina delle relazioni tra gestori di reti fisse e mobili e operatori che svolgono attività di rivendita di servizi di telecomunicazioni;”. Se è però pacifico che i “servizi” non comprendono i contenuti editoriali (anche se, alla luce della riforma del Codice delle Comunicazioni operata nel 2012 comprendono i servizi della società dell’informazione che si svolgono interamente su reti di comunicazione elettronica), non è altrettanto chiaro a cosa si riferisca il Legislatore con la parola “prodotti”. Possono i “prodotti” includere i contenuti editoriali se un operatore titolare di autorizzazione generale li diffonde attraverso i propri servizi? Può dunque l’Autorità verificare la conformità di tali prodotti che includono contenuti alla luce delle competenze citate? Non convince, invece, la tesi che vede la competenza AGCOM fondata sull’art. 32-bis del Testo Unico dei Servizi Media Audiovisivi [18] sul c.d. “Decreto Romani”, attuativo della Direttiva Servizi Media Audiovisivi. La norma in questione prevede infatti che l’AGCOM debba emanare le disposizioni necessarie a far si che i fornitori di servizi media audiovisivi, che sono chiaramente i soggetti regolati dal Testo Unico Servizi Media Audiovisivi, non offrano su alcuna piattaforma servizi in contrasto con il diritto d’autore. Non sembrano invece nel perimetro della norma quelle entità che non svolgono attività di trasmissione sulle reti di servizi media audiovisivi. Si tratta di una limitazione importante, in quanto, ad esempio, tornando al già citato esempio del filmato delle vacanze, esso, con la sua colonna sonora, non è un servizio media audiovisivo, né il soggetto che lo immette in rete può essere qualificato come fornitore di servizio media audiovisivo. Allo stesso modo, un portale di User Generated Contents, per quanto riguarda quelle attività che riguardano effettivamente contenuti immessi (e prodotti/assemblati) dagli utenti, non può essere considerato un fornitore di servizi media audiovisivi in quanto non è in grado di determinare i contenuti della libreria di contenuti on demand. Nemmeno un servizio peer-to-peer rientra nel novero dei servizi media audiovisivi, in quanto l’art. 2 del citato Testo Unico Servizi Media Audiovisivi esclude dalla definizione “i servizi di condivisione e scambio nell’ambito di comunità di interesse”, a condizione che essi non siano in concorrenza con la radiodiffusione televisiva e siano prestati nell’esercizio di attività “precipuamente non economiche”. In sostanza, l’ambito di applicazione di un regolamento dell’Autorità, fondato sull’art. 32-bis del Testo Unico Servizi Media, dovrebbe riguardare le violazioni dei diritti compiuti dai servizi media audiovisivi ed i servizi in rete che, violando il diritto d’autore, si pongono in concorrenza con i servizi media audiovisivi e, dunque, le diffusioni non autorizzate di programmi televisivi in rete operate nell’ambito di attività economiche, non altro. E’ comunque evidente, a valle dell’approvazione di qualsivoglia regolamento, la necessità di una verifica della competenza, sulla base delle misure che l’Autorità deciderà effettivamente di approvare. In assenza dell’effettivo testo del Regolamento, si può, nelle more, analizzare il merito dei remedies che l’Autorità propone nella sua consultazione e l’idoneità dei medesimi a essere fattore di equilibrio e regola del regime di circolazione delle opere digitali. Per quanto riguarda l’ambito di indagine del presente lavoro, ciò che interessa, infatti, è comprendere se la proposta AGCOM contenga soluzioni idonee a costituire una regolamentazione efficace della circolazione delle opere digitali. Le opere digitali risultano essere una categoria espressamente menzionata dalla proposta di regolamento che contiene un esaustivo elenco di definizioni tra cui, appunto, quella di “opera digitale”. E’ definita opera digitale una o più opere (o parti), di carattere sonoro, audiovisivo, videoludico ed editoriale, tutelate dalla Legge sul diritto d’autore e diffuse su reti di comunicazione elettronica. La definizione in questione esclude varie categorie di opere dell’ingegno che potrebbero costituire “opera digitale”, in primis software e banche dati, oltre, naturalmente, ai siti web ed immagini, e dunque ci si domanda il perché della scelta di AGCOM, posto che, come si è detto, la competenza sembra essere “certa” solo per quanto riguarda specifiche categorie di opere. Se la scelta alla base della consultazione è quella di puntare ad un concetto di competenza/vigilanza ampia, basata sulla vigilanza dei prodotti diffusi sulle reti di comunicazione elettronica, non si vede perché AGCOM avrebbe competenza sul software videoludico e non sul software in generale. Ad ogni modo, il regolamento non riguarderà ciò che non è nella categoria di opera digitale e, dunque, non sarà applicabile a nessuna forma di contenuti online che non siano qualificabili come opera dell’ingegno delle categorie sopra menzionate. Ad esempio un immagine che costituisca una parodia di altra opera, postata sul web, non essendo ivi ricompresa non potrà essere contestata per il tramite del regolamento. Altra esclusione degna di nota e contenuta all’art. 2 comma 3 del proposto regolamento è quella relativa alle attività dei c.d. “downloader” (persone fisiche o giuridiche che, attraverso reti di comunicazione elettronica, scaricano opere digitali su un proprio terminale o su uno spazio condiviso e delle attività di condivisione diretta tra utenti finali di opere digitali attraverso reti di comunicazione elettronica); il proposto regolamento si pone dunque come procedura di risoluzione delle controversie che riguardano la immissione in rete di contenuti a scopo commerciale e non come regola punitiva dei download sulla scorta della considerazione che un ambiente digitale ostile agli upload porterà a minori download e prevedendo altresì misure di promozione attiva dell’utilizzo legittimo delle reti per la circolazione dei contenuti [19]. Definita come si è visto la categoria settoriale dell’opera digitale, la proposta dell’AGCOM ne vuole tutelare la diffusione effettuata da particolari soggetti definiti “gestori della pagina internet”. Si tratta di una definizione quanto mai ampia. Il gestore della pagina internet, secondo l’Autorità è il prestatore dei servizi della società dell’informazione che, sulla rete internet, cura la gestione e l’organizzazione di uno spazio su cui sono presenti opere digitali o parti di esse ovvero collegamenti ipertestuali (link o tracker) alle stesse, anche caricati da terzi; tale categoria comprende vari livelli di possibile azione e varie tipologie di servizi che, assieme contribuiscono alla circolazione dell’opera digitale, sicché per una data “opera digitale” si potrebbero avere molteplici “gestori della pagina internet” quali, ad esempio, l’ISP che mette a disposizione lo spazio di hosting, il soggetto che gestisce il server su cui il sito web opera, collocato nello spazio di hosting, l’amministratore della pagina, che ha, nell’ambito della stessa consentito la creazione di una sottopagina ad un utente e, l’utente che ha, nell’ambito della proprio sottopagina, caricato una serie di contenuti. Non è chiaro a quale di questi soggetti l’Autorità intende attribuire specifica responsabilità o se il concetto di responsabilità che l’Autorità concepisce sia di corresponsabilità di tutti i soggetti qualificabili come “gestori di pagina Internet”, tale da incentivare l’autoregolamentazione. Tale seconda tesi parrebbe tuttavia quella preferibile in quanto, nel prosieguo, il documento prevede, all’art. 6, che il gestore della pagina internet possa adottare una propria autoregolamentazione, pubblicata su un apposito sito dell’AGCOM e che tale autoregolamentazione, se esistente, sia da invocare in prima battuta, da chi abbia reclami in materia di violazione del diritto d’autore, prima di azionare le procedure di cui al regolamento, mentre resta impregiudicata, in qualsiasi fase la possibilità di rivolgersi all’organo giudiziale competente. Se la proposta di regolamento, nel prevedere che i gestori di pagina web che adottano un autoregolamentazione, possono risolvere autonomamente il conflitto, incentiva, in qualche modo, la creazione di autoregolamentazione, non ne prescrive il contenuto. Non si comprende dunque se l’autoregolamentazione, per essere idonea a funzionare da primo livello di composizione della controversia debba avere certi requisiti e quali essi siano; si potrebbe avere così autoregolamentazione strumentale a rallentare le procedure e creare complessità a chi intenda segnalare, rendendo, in particolare, complesso comprendere se il reclamo sia stato effettivamente evaso oppure no. Tale punto andrebbe probabilmente meglio definito in una eventuale regolamentazione definitiva. D’altra parte le “notice & take down” procedures attualmente meglio funzionanti, previste dal DMCA statunitense ai sensi della Section 512(c) del Copyright Act, trovano proprio nelle rigide prescrizioni sul contenuto sostanziale e formale la propria caratterizzazione. Tali procedure prevedono infatti una dichiarazione giurata del titolare dei diritti che individua con il precisione il contenuto segnalato, afferma quale sia il diritto violato e quale sia la norma violata e dichiara che esso è in violazione di legge “under penalty of perjury”. A fronte di tale dichiarazione, per la quale il dichiarante si è assunto la responsabilità anche penale e per danni eventualmente causati dalla segnalazione, il contenuto viene rimosso, con possibilità di contraddittorio futuro qualora la dichiarazione non sia veritiera. Si tratta del sistema che risulta essere, per quanto riguarda motori di ricerca, portali di contenuti e social network, di fatto l’unico utile strumento per intervenire sui contenuti costituenti oggetto di proprietà intellettuale [20]. E’ pur vero che l’indicatore di efficacia dell’autoregolamentazione adottata sarà l’assenza di secondo reclamo all’Autorità e, in tal senso, probabilmente il gestore della pagina web che non voglia incorrere in provvedimenti da parte di AGCOM o, addirittura, in ordini da parte del giudice, avrà interesse a dotarsi di autoregolamentazione particolarmente efficace, che – per così dire – invogli i titolari dei diritti ad utilizzare la procedura alternativa a quella giurisdizionale e non procuri una seconda segnalazione ad AGCOM, allo stesso modo in cui una buona privacy policy evita successivi reclami al Garante Privacy; allo stesso modo, probabilmente, il fatto che l’autoregolamentazione debba essere notificata all’Autorità potrebbe implicare una valutazione preliminare di congruità Di particolare interesse è il fatto che, all’interno della definizione di gestore della pagina web, sia stato incluso il concetto di link: risulta gestore della pagina web anche colui che “organizza collegamenti ipertestuali (link o tracker) ad opere digitali, anche caricati da terzi”. La previsione, redatta in questi termini, non è pienamente comprensibile. Sembrerebbe dunque che ogni sito dove sono presenti link a opere protette dal diritto d’autore debba, per poterli ospitare, verificare se i link sono autorizzati. Tale previsione, come meglio si discuterà al paragrafo successivo, parrebbe carente di fondamento nella Legge sul Diritto d’Autore in quanto il link, di per sé, non è un’opera dell’ingegno e non influisce sull’opera che rimane altrove. In effetti, il link assume le caratteristiche dell’opera a cui si riferisce, per cui, laddove l’opera linkata non costituisce una violazione, neanche il link può essere considerato in violazione del diritto d’autore mentre un link che fosse unica via per l’accesso ad un’opera dell’ingegno diffusa senza autorizzazione, potrebbe probabilmente essere considerato in violazione dell’art. 171-ter LdA in quanto costituirebbe una “connessione” all’opera in violazione; difettando l’opera non autorizzata il link di per sé non è nel perimetro della Legge sul Diritto d’Autore e, dunque, non sembra nemmeno poter rientrare nel perimetro dell’eventuale regolamento. Al riguardo sembra opportuno il riferimento ai tracker che spesso indicizzano file che non sono altrimenti reperibili. Qualora invece si abbia un link ad un’opera che sia distribuita direttamente dal titolare dei diritti la questione non è invece pacifica [21]. L’effetto paradossale potrebbe essere quello di un titolare dei diritti che lamenta una violazione per il fatto che una propria opera, diffusa tramite il proprio sito, sia stata linkata da terzi, sostenendo che il diritto d’autore include anche il diritto esclusivo a creare collegamenti ipertestuali alle opere diffuse tramite Internet. Come si dirà al paragrafo successivo possono esistere links creati in maniera pregiudizievole e che possono evocare questioni in materia di concorrenza sleale, tuttavia pare difficile configurare un diritto esclusivo e monopolistico di linking come estensione digitale della privativa in quanto, il porre il contenuto in Internet, di per sé, implica l’accettazione della modalità di distribuzione in rete e cioè del fatto che l’opera possa essere – se non digitalmente protetta – aperta dai terzi che accedono tramite collegamenti ipertestuali. L’ultima questione che sembra opportuno segnalare in questa sede e che deriva dall’analisi della proposta di regolamento AGCOM riguarda il metodo di contrasto alle violazioni. L’Autorità si propone, in caso di accertamento di una violazione, di emettere un ordine, diretto al gestore della pagina internet, tramite il quale l’Autorità richiede al gestore della pagina internet di rimuovere il contenuto. Tale ordine è assistito dal principio del contraddittorio anche con l’uploader dell’opera digitale oltre che con il gestore della pagina internet interessato che, sin dalla notifica, vengono coinvolti dall’Autorità nel procedimento e possono presentare le proprie deduzioni. Se non rintracciabili, vengono coinvolti i prestatori di servizi interessati (ragionevolmente, l’ISP). I soggetti coinvolti hanno tre giorni per rimuovere il contenuto spontaneamente o, per l’appunto, presentare le proprie deduzioni. Qualora il procedimento presenti contraddittorio, l’Autorità prende una decisione, a meno che tra le stesse parti, nelle more, non si instauri contenzioso dinanzi all’Autorità giudiziaria per il medesimo oggetto. In base a tale procedimento, l’Autorità potrà emanare un ordine di disabilitare l’accesso alle opere digitali diffuse in violazione. Gli stessi Commissari dell’Autorità, alla presentazione della consultazione pubblica hanno sottolineato come la formulazione scelta sia volutamente generica per consentire al destinatario dell’ordine la scelta di metodi non invasivi e che non prevedano tecniche di Deep Packet Inspection; pare esservi un suggerimento indiretto all’utilizzo della tecnica che prevede l’inibizione dell’accesso sul c.d. server DNS, che regola l’abbinamento tra nome del sito e indirizzo numerico del medesimo. Si tratta di una misura “leggera” (nel senso che un utente evoluto la può aggirare con relativa facilità e senza incorrere in illecito essendo il DNS un servizio ) ma che risulta funzionare per una grande parte di utenza.
6. Il problema del legal risk sopportato dalle piattaforme web 2.0 e le implicazioni antitrust – cenni
In chiusura della presente breve analisi, pare necessario fare cenno ad una importante criticità che riguarda in ugual misura la questione del linking e ad altre questione non propriamente definite dal diritto positivo e dalla giurisprudenza. Laddove l’ordinamento europeo sia rimasto “indietro” rispetto all’ordinamento statunitense, come – nel caso appena trattato – per quanto riguarda motori di ricerca e tecniche di tutela stragiudiziale del copyright, le piattaforme innovative hanno tratto indubbio giovamento dalle più avanzate disposizioni disponibili nell’ordinamento statunitense per nascere e crescere. Tuttavia, una volta che il servizio viene reso disponibile in Europa, esse trovano un rilevante gap normativo che, alla prima criticità, appare impossibile da colmare. Se, dunque, ad una piattaforma statunitense viene segnalato un caso di linking improprio, essa suggerirà di utilizzare la notifica DMCA per la segnalazione, senza, tuttavia che la notifica DMCA sia realmente applicabile. Il DMCA, infatti, a rigore, è applicabile solo alle violazioni commesse nella giurisdizione statunitense e una segnalazione proveniente dall’Europa potrà – con ogni probabilità – riguardare una applicazione europea o contenuti europei che si avvalgono di una piattaforma USA. Alcune piattaforme, a tal riguardo, introducono correttivi nella forma di accettazioni browse wrap della giurisdizione USA e dei metodi del DMCA per la tutela delle violazioni del copyright, tuttavia questo potenzialmente peggiora la situazione in quanto anche l’accettazione non poggia su fondamenta solide; si ha così una procedura gestita secondo regole di incerta applicazione e che, se azionata in giudizio, sarebbe esposta a possibile contestazione. Le situazioni simili vengono così a determinare potenziali corto-circuiti normativi ed impasse difficilmente risolvibili in quanto la agevole tutela statunitense si va a scontrare contro la maggiore complessità dell’ordinamento europeo nell’individuare, Stato per Stato, il metodo di tutela appropriato. In questi casi viene con ogni probabilità effettuata una valutazione di opportunità legale che non consente una rapida definizione della controversia a causa del rischio legale, con la necessità di adire il giudice anche per situazioni che, di per sé, non lo richiederebbero. Tale contesto è terreno di coltura ideale per comportamenti anticoncorrenziali, quali la pretesa di inibire qualsivoglia link a contenuti sulla base del diritto d’autore creando così un monopolio improprio sulla risorsa indispensabile per utilizzare in Internet i contenuti autoriali. Qualora i contenuti autoriali siano programmi televisivi si crea così una leva per riservare solo al titolare dei diritti l’uso Internet della programmazione televisiva, proprio attraverso l’ipertutela del link. Tale tecnica ricorda molto da vicino alcuni aspetti del caso Magill, in cui ciò che veniva inibito dal broadcaster non era l’uso della programmazione televisiva, ma di informazioni che consentivano di rintracciare ed utilizzare la programmazione televisiva. Il c.d. “caso Magill” [22] nacque da una controversia tra la BBC, la ITP e la RTE, che erano compilatori (e titolari) del diritto d’autore sui palinsesti televisivi di cui consentivano a terzi la pubblicazione riservando a se stesse quella dei palinsesti settimanali. La società Magill TV Guide intendeva pubblicare una rivista contenente i palinsesti settimanali di tutti i tre canali televisivi prima citati, senza aver ottenuto la necessaria licenza da parte dei proprietari dei relativi diritti d’autore e in aperto contrasto con un provvedimento di una Corte irlandese che, disponendo a favore delle tre emittenti, impediva alla Magill di pubblicare la sua guida. Per raggiungere lo scopo, la Magill chiese alla Commissione di intervenire in via antitrust e questa decise che i titolari dei diritti d’autore stavano abusando della loro posizione dominante [23] in maniera contraria all’art. 82 TCE (ora art. 102 TFUE). L’analisi si basò in gran parte sul fatto che, in mancanza dell’intervento, nessuno, se non i titolari dei diritti (o i loro cessionari), avrebbe potuto pubblicare i palinsesti, in quanto essi soltanto ne decidevano e controllavano il contenuto [24], in maniera simile a come i titolari dei sistemi di digital rights management sono in grado di controllare la circolazione delle informazioni, a prescindere dalla validità del diritto di proprietà intellettuale associato. L’intervento espletò i suoi effetti sia sul mercato delle informazioni sui palinsesti – che direttamente interessava l’editore Magill – che sul mercato a valle delle guide televisive, che interessava in maniera più generale anche i consumatori. In tal senso, la limitazione all’efficacia del diritto di proprietà intellettuale in senso pro-concorrenziale, posta per garantire l’accesso all’informazione necessaria per redigere le guide tv, ebbe un beneficio che si estese non solo ai soggetti interessati a competere sul mercato, ma anche ai consumatori. Si tratta, come noto, di una decisione fondamentale per quanto concerne i rapporti tra diritto comunitario della concorrenza e diritto d’autore [25]. Dal contesto della sentenza emerge la volontà della Corte di limitare la validità del principio affermato al caso di specie senza cioè voler creare un precedente. La successiva giurisprudenza superò, come noto, questa limitazione stabilendo e meglio precisando i criteri basati sulla dottrina dell’essential facility che sono applicabili alla materia dei diritti di proprietà intellettuale. Sin da Magill, la Corte di Giustizia ha dunque stabilito il principio per cui in circostanze eccezionali la Commissione è competente ex art. 82 TCE (ora art. 102 TFUE) ad imporre licenze obbligatorie di diritto d’autore, nonché ad imporre il rifornimento di nuovi clienti [26]. Quello appena citato è elemento di “compatibilità” tra diritto d’autore ed antitrust, determinante ai fini di un ragionamento avente come tema il principio di interoperabilità: l’interoperabilità riguarda infatti la possibilità per nuovi attori del mercato dei contenuti digitali di ottenere informazioni indispensabili alla propria attività – le informazioni che consentono di “interoperare” – che sono sotto il controllo di terzi monopolisti a causa di privative; in mancanza di un organo ad hoc che espleti tale compito la competenza parrebbe delle Autorità Antitrust che dovrebbero analizzare il problema secondo i criteri enunciati in Magill, come aggiornati dal successivo caso IMS/HEALTH [27] e cioè rispondendo ai seguenti quesiti:
- Se il rifiuto di interoperare impedisca la creazione di un nuovo sostituto per cui esiste potenziale domanda da parte dei consumatori;
- il rifiuto sia ingiustificato;
- il rifiuto crei un monopolio su un mercato secondario separato e, pertanto, potenziali perdite/danni ai consumatori.
Tali criteri rimangono validi e si possono applicare ai casi di rifiuto di erogare servizi di distribuzione di contenuti digitali in rete nei quali ciascun produttore cerca di portare gli utenti ad acquistare unicamente contenuti dal proprio servizio escludendo i concorrenti mediante privative, mediante utilizzo pervasivo delle misure tecnologiche di protezione e mediante tecnologie non interoperabili. Il tentativo di enforcement della privativa sui links può, se non sorretto da giustifcazioni oggettive, rientrare tra questi. In altre parole, la competizione, in assenza di interoperabilità, non è “nel mercato” ma “per il mercato”, in base alla teoria di Schumpeter della distruzione creativa [28], in cui vi è un susseguirsi di imprese dominanti l’intero mercato a muovere le spinte all’innovazione. Nella distruzione creativa i concorrenti possono arrivare ad utilizzare una serie di comportamenti ai limiti del lecito (o anche oltre) in quanto non è in gioco la leadership di mercato ma la posta in gioco è la propria sopravvivenza. L’interoperabilità tra standard o l’adozione di un unico standard comune eliminerebbe il problema della “sopravvivenza” in quanto si ridurrebbero drasticamente gli effetti di rete. Un azione attuata sui comportamenti escludenti delle imprese non ha invece pari efficacia in quanto non è idonea a ingrandire o diminuire la dimensione della rispettiva “rete” generata dalla presenza sul mercato di sistemi chiusi; questa rimane quella massima, identica, per tutti; la competizione è infatti nel mercato: gli utenti del sistema disciplinato secondo i principi di interoperabilità sarebbero contendibili attraverso l’innovazione a livello dei prodotti e servizi e potrebbero nuovamente migrare a sistemi chiusi. Vi può essere anche il caso in cui il nuovo prodotto o servizio di una impresa possa essere migliorato dall’altra attraverso un ulteriore servizio o funzione interoperabile [29]. A tale ricostruzione si è obiettato [30] che la facilità con cui ogni utente può passare dall’uno all’altro servizio in un mercato interoperabile porta le imprese a bassi livelli di investimento sull’innovazione del servizio stesso rispetto a contesti in cui la competizione è “per il mercato”. La risposta a tali critiche si basa anzitutto sul fatto che la competizione “per il mercato” è sostenibile solo dalle grandi imprese ed è, di per sé, una barriera all’ingresso di piccole imprese che, storicamente, sono quelle che hanno portato significative innovazioni nei campi tecnologici e sulla considerazione che proprio il rischio di essere facilmente “scalzati” dai concorrenti nel contesto interoperabile è un sufficiente incentivo all’innovazione e all’investimento quando vi è una base di utenti sufficientemente ampia; le imprese cercheranno cioè di costruire il loro seguito di utenti sulla qualità e sull’innovazione più che sugli effetti di rete, che rendono impossibile fruire dei servizi di terzi e proteggono elevati investimenti. Tale impostazione trova seguito nella visione della Commissione Europea che ha aperto la strada, appunto con i casi Magill ed IMS/Health e attuato concretamente tale approccio con la elevatissima sanzione inflitta a Microsoft. Nel caso dei contenuti digitali, infatti, ciò porterà l’impresa che operi nel contesto interoperabile ad assicurarsi i contenuti di migliore qualità per mantenere gli utenti collegati al proprio servizio di distribuzione ed il vantaggio competitivo dell’interoperabilità è dunque evidente e desiderabile. Un simile risultato non sembra raggiungibile in un contesto concorrenziale caratterizzato da elevati effetti di rete dove invece, l’elevato costo di sviluppo di uno standard proprietario potrebbe essere invece recuperato proprio diminuendo la qualità dei contenuti distribuiti agli utenti abbonati, che non possono facilmente procedere ad una transizione ad altri servizi di distribuzione. Nel complesso sarebbe dunque desiderabile estendere il contesto interoperabile alla generalità del mercato e, dunque rinunciare agli investimenti elevati una tantum della singola impresa in quanto gli stessi potrebbero, in teoria, essere equiparati da una costante attenzione a mantenere alto il livello di qualità dell’offerta per non “perdere l’attenzione” del cliente che si muove in contesto interoperabile. L’intervento antitrust serve da presupposto a questi interventi per creare condizioni favorevoli, eliminando preclusioni e distorsioni venutesi a creare nelle condizioni di sostanziale assenza di regolamentazione pro competitiva che hanno determinato quella che si è descritta come “competizione per il mercato”, con contemporaneo aumento fuori controllo, e reazione conservativa dell’ordinamento, dell’utilizzo illecito. D’altronde, fornire supporto legislativo all’emersione di nuovi modelli legali di distribuzione diretta in un sistema interoperabile integrato, che sfrutti ad ampio raggio le proprietà dei diritti digitali, a basso costo per l’utente è anche uno dei modi di ridurre il numero complessivo di violazioni al diritto d’autore e, in base a quanto sopra, una più che efficiente modalità di conciliare la distribuzione di audiovisivi e opere dell’ingegno digitali con le regole del diritto d’autore in una catena del valore che sia finalmente giuridicamente ed economicamente integrata in una concezione interoperabile del modello distributivo digitale.
Note
[*] Il presente contributo è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista. [1] Cfr. P. GALLI, commento all’art. 16 LdA, in L.C. UBERTAZZI (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, IV ed., Padova, 2012, 1414 ss.; [2] Per opere digitali, intendo qui le opere che circolano sulle reti telematiche e non presuppongono un supporto per essere compiutamente fruibili. Mi sia consentito un rinvio al mio saggio su La circolazione dell’opera digitale, Torino, 2012 e alla mia voce Opera Digitale, in Enc. Giur. Treccani, Aggiornamento, 2010. [3] Cfr. http://www.webfoundation.org/about/sir-tim-berners-lee/ [4] Sul tema delle inibitorie si veda M.S. Spolidoro, Misure di prevenzione nel diritto industriale, Milano, 1982, 59 ss.; id., Le inibitorie nel diritto industriale e nel diritto d’autore, disponibile in Internet, all’URL http://www.ordineavvocatimilano.it/upload%2Ffile%2Fpdf%2Fatti-2007%2FRel%20Prof%20Spolidoro%20Le%20inibitorie%20def.pdf nel quale l’A. analizza le inibitorie per violazioni di diritto d’autore sulle reti telematiche, che ricadono nell’ambito della Direttiva Commercio Elettronico. [5] Si veda il commento alle categorie stesse di P. GALLI, commento all’art. 2 LdA, in L.C. UBERTAZZI (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, IV ed., Padova, 2012, 1347 che non annovera tra gli oggetti protetti il link ma solo siti e domini ed a particolari condizioni. [6] Si vedano i consideranda 8, 11 e 12 della Direttiva 2009/24/UE e gli artt. 6 e 7 della medesima, inapplicabili ai link. [7] Si veda L.C. Ubertazzi (a cura di), La legge sul software, Milano, 1994; E. Arezzo, Tutela brevettuale e autoriale dei programmi per elaboratore: profili e critica di una dicotomia normativa, Milano, 2012; si veda inoltre, V. Falce, La modernizzazione del diritto d’autore; L. Bregante, La tutela del software, Torino, 2003; R. Pardolesi-M.Granieri, Il software, in AIDA 2007. [8] Sui criteri e sul tipo di responsabilità per link ad opere digitali “pirata”, cfr. A. Savin, EU Internet Law, Edward Elgar, Cheltenham, 2013, 87 ss. secondo il quale il link ad un’opera non autorizzata costituisce motivo di responsabilità sia di chi ha postato il link sia dell’utente che vi accede poiché si consente accesso a materiale illecito, tuttavia il presupposto del ragionamento in questione è che il soggetto che predispone il link sia anche il soggetto che immette il materiale non autorizzato su Internet (il link è dunque effettuato dalla stessa persona che ha caricato il materiale sulla rete). Se un utente si limita a predisporre un link a materiale di terzi, come si vedrà, l’ordinamento applica criteri simili a quelli utilizzati per i motori di ricerca. [9] Cfr. Cassazione IV sez. penale, n. 15158 del 10/4/2008. [10] Si veda Cassazione III Sez. Penale, n. 33945 del 4/7/2006 e la nota di D. Stefani, in AIDA 2007, 1183 ss. [11] Occorre tuttavia notare che il safe harbor previsto dal DMCA protegge da responsabilità il provider solamente per violazioni commesse negli USA. Per quanto dunque vi sia la prassi di utilizzarlo (per la sua semplicità ed efficacia nella mediazione di controversie) anche quale metodo di soluzione di controversie con utenza internazionale, esso non si presta a esonerare da liability il provider che rimane, comunque, esposto a una causa civile nella eventuale giurisdizione estera dove si è verificata la violazione. [12] Sull’aspetto della differenza tra motore di ricerca generico e specializzato cfr. anche il recente caso statunitense Flava Works, Inc. v. Gunter, 689 F.3d 754 (7th Cir., 2012), nel quale un produttore di video per adulti resi disponibili alla visione a pagamento su appositi siti aveva portato in giudizio il sito myVidster il quale proponeva links a siti che mostravano senza autorizzazione i video in questione. MyVidster consente ai propri utilizzatori di memorizzare tramite un bookmark i video preferiti che tuttavia saranno visionati su siti terzi. Il servizio mostra tuttavia immagini a dimensione ridotta (thumbnail) dei video selezionati attraverso cui gli utenti possono scegliere il video da visionare. Tali immagini sono contornate da pubblicità. La corte d’appello ha annullato l’ingiunzione preliminare ottenuta da Flava stabilendo che myVidster non era un contributory infringer per il solo fatto di presentare bookmark attraverso cui è possibile la visione successiva di video. La Corte ha ritenuto che fornire una connessione tra un server, degli hosts ed il computer dell’utente di myVidster di per sé non denota contributory infringement in quanto in queste attività non vi sono attività di copia di un video soggetto a copyright. La Corte ha inoltre ritenuto che qualora il contenuto linkato sia disponibile autonomamente su siti terzi, non si possa invocare la norma contenuta alla §512d del DMCA che punisce il “referring or linking users to an online location containing infringing material”. Parte dei commentatori statunitensi del caso hanno interpretato la decisione come motivata da una oggettiva carenza di prove della violazione, cfr. B. SOOKMAN, Understanding Flava Works v. MyVidster: Does Inline Linking Infringe Copyright?, 59 J. Copyright Soc’y 723, 724, 2012 [13] Cfr. ad esempio, per quanto riguarda la giurisprudenza statunitense, la recente Columbia Pictures Industries, Inc. v. Fung, 710 F.3d 1020 (9th Cir. 2013) in cui il giudicante ha ritenuto che un sito che raccoglieva ed organizzava file di tipo bittorrent, permettendone la ricerca e il browsing non potesse utilizzare ed invocare il DMCA “safe harbor”. Nel caso Perfect 10 Inc. v. Amazon.com, Inc., 508 F.3d 1146 (9th Cir. 2007), la Corte statunitense del Nono Circuito si è occupata dalla funzione Google Image Search. Le immagini thumb nail (a dimensione ridotta) che Google restituiva come risultati della ricerca per immagini erano state infatti denunciate come violazioni dirette del copyright dai rispettivi titolari (direct infringements). La corte tuttavia stabilì che quando Google mostrava l’immagine piena attraverso un link presente sotto l’immagine in scala ridotta, che portava al sito di appartenenza dell’immagine, non violava il copyright. In effetti, Google facilitava l’accesso dell’utente all’immagine e questa “facilitazione” poneva questione di responsabilità secondaria per il c.d. contributory infringement a condizione che l’immagine a cui si veniva diretti fosse anch’essa in violazione del copyright. La corte respinse la tesi che il mostrare le immagini in scala ridotta e il linkare immagini fosse, di per sé, una violazione diretta del copyright in quanto solo il codice HTML del sito risultava memorizzato da Google. Essa concluse che tutto ciò che Google distribuiva era una istruzione in codice per reperire contenuto mostrato su siti terzi. [14] Si pensi che, recentemente è comparsa in rete una nuova tecnologia (Streamza) che, partendo dall’indicazione dell’utente di un file torrent che può essere ovunque in Internet, genera una visione in diretta streaming dell’audiovisivo proveniente da quel file, consentendo così una fruizione on demand del file stesso senza che vi sia alcun server centrale. In sostanza, anche Streamza parte da un link (fornito però dall’utente) per generare uno streaming individuale (senza dunque diffusione “al pubblico”). Il problema però in questo caso è nella ricomposizione del file che, sui server di Streamza riprende la forma di opera digitale ed ha, probabilmente, in quel momento necessità di una autorizzazione del titolare per essere ricomposto in formato idoneo allo streaming. [15] Cfr. M. Bertani, Internet e la amministrativizzazione della proprietà intellettuale, in AIDA 2012, 129 ss. [16] Cfr. De Martin-Blengino-Ricolfi-Cogo, Osservazioni del Centro Nexa in merito alla seconda fase della consultazione AGCOM sul diritto d’autore, Centro Nexa, 2011, http://nexa.polito.it. [17] Cfr. C. Camardi, Inibitorie amministrative di attività, in AIDA 2012, 268 ss. [18] Introdotto dall’art. 6 del D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 44, c.d. “Decreto Romani”, attuativo della Direttiva Servizi Media Audiovisivi, la quale tuttavia non prevede una simile tutela del diritto d’autore. Il testo della norma è il seguente: “1. Le disposizioni del presente testo unico non sono in pregiudizio dei principi e dei diritti di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 68, recante attuazione della direttiva 2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, e al decreto legislativo 16 marzo 2006, n. 140, recante attuazione della direttiva 2004/48/CE, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale. I fornitori di servizi di media audiovisivi assicurano il pieno rispetto dei principi e dei diritti di cui alla legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, indipendentemente dalla piattaforma utilizzata per la trasmissione di contenuti audiovisivi. 2. I fornitori di servizi di media audiovisivi operano nel rispetto dei diritti d’autore e dei diritti connessi, ed in particolare: a) trasmettono le opere cinematografiche nel rispetto dei termini temporali e delle condizioni concordate con i titolari dei diritti; b) si astengono dal trasmettere o ri-trasmettere, o mettere comunque a disposizione degli utenti, su qualsiasi piattaforma e qualunque sia la tipologia di servizio offerto, programmi oggetto di diritti di proprietà intellettuale di terzi, o parti di tali programmi, senza il consenso di titolari dei diritti, e salve le disposizioni in materia di brevi estratti di cronaca. 3. L’Autorità emana le disposizioni regolamentari necessarie per rendere effettiva l’osservanza dei limiti e divieti di cui al presente articolo.” [19] Appare prematuro commentare le misure in questione in questa sede in quanto in grande parte sono demandate a tavoli tecnici di attuazione e, dunque, non ne è ancora verificabile il contenuto concreto. [20] Cfr. paragrafo 4.1.1 per un esame dei casi che riguardano la responsabilità ex post degli aggregatori in seguito alla notice della presenza di contenuti in violazione. [21] Al riguardo alcuni commentatori, tra cui Ricolfi, citato nel commento di P. Galli all’art. 16, in Commentario Breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, cit., 1414 si sono dichiarati favorevoli alla tesi della liceità del link, mutando una precedente opinione, in quanto l’accesso al materiale protetto avviene con l’intermediazione di un soggetto diverso da quello che allestisce il sito ma la circostanza non “depone affatto a sfavore dell’illiceità del link”, visto che “(i) il criterio dell’intervento di un soggetto diverso dal soggetto autorizzato alla comunicazione al pubblico è influente per valutare la necessità di un ulteriore autorizzazione dei titolari del diritto d’autore solo in relazione ad una sub-fattispecie specifica, la ritrasmissione delle radiodiffusioni contemplata dall’art. 11 della Convenzione Universale di Berna, essendo per tutte le restanti ipotesi di comunicazione al pubblico decisivo il criterio del raggiungimento di un pubblico nuovo e diverso; e (ii) che, da quest’ultimo punto di vista, il pubblico che accede ai siti navigando interattivamente è tipicamente quello che si vale della struttura reticolare e non sequenziale della rete e, quindi, particolarmente, anche dei links, siano essi normali o “deep”, cosicché (iii) (…) si deve concludere che l’autorizzazione all’accesso include anche l’accesso attraverso un link”. Anche qui, tuttavia, si sottolinea sommessamente che occorre probabilmente distinguere il caso del link al programma televisivo diffuso senza l’autorizzazione del titolare dal caso del link al programma televisivo che venga direttamente diffuso dal broadcaster e, dunque, risulti di per sé autorizzato anche ai sensi del citato art. 11 CUB, non potendo il link, autonomamente considerarsi una “diffusione” ma solo un “collegamento”. [22] Cfr. J. Turney, Defining the limits of the EU Essential Facilities Doctrine on Intellectual Property Rights, Northwestern Journal of Technology and Intellectual Property, Vol. 3, No. 2, 2005; Per la definizione in generale della essential facilities doctrine è utile vedere Corte di Giustizia, 1998, C-7/97, Oscar Bronner GmbH & Co v. Mediaprint Zeitungs- und Zeitschriftenverlag, ECR I-7791; Cause Riunite T-374/94, T-375/94, T-384/94 e T-388/94, European Night Servs. Ltd. c. Commissione, 1998 E.C.R. II-3141 (tunnel); Raccomandazione della Commissione sull’Applicazione delle Regole della Concorrenza agli Accordi sull’Accesso nel Settore delle Telecomunicaizioni, 1998 GUCE (C 265) 2; Direttiva del Consiglio 90/547/CEE del 29 October 1990 sul Transito di Elettricità attraverso Reti di Trasmissione, 1990 GUCE (313) 30. [23] Secondo quanto stabilito, la posizione dominante non è automaticamente integrata dalla titolarità del diritto di proprietà intellettuale; occorre però considerare in questo caso il monopolio di fatto sul mercato rilevante, costituito dalle informazioni necessarie a produrre i palinsesti, a loro volta, necessari a produrre e pubblicare le guide [24] È interessante notare che nel Regno Unito il Broadcasting Act del 1990 impone agli esercenti le imprese televisive di concedere licenza per i loro palinsesti ad altri editori, dietro pagamento di una ragionevole royalty. [25] Cfr. M. Bertani, Diritto d’autore europeo, cit., 251 ss. [26] Tale principio è realmente innovativo rispetto a casi precedenti in cui la Commissione si limitava ad imporre di non interrompere arbitrariamente forniture già in corso. Secondo l’analisi di Sarti, tuttavia, il rifiuto di licenze ad effetti escludenti è possibile e lecito quando protegga l’interesse del titolare a realizzare economie di scala per massimizzare il rendimento degli investimenti e sfruttare così sul mercato l’opera protetta, o l’interesse della collettività alla diversificazione del mercato, cfr. D. Sarti, Proprietà intellettuale, interessi protetti e diritto antitrust, in Riv. Dir. Ind., 2002, I, 564 ss. Nella analisi basata sull’interoperabilità l’interesse del titolare della piattaforma potrebbe tuttavia essere in contrasto con l’interesse a massimizzare l’investimento sull’opera ed avere altra natura. [27] I criteri sono stati sviluppati nel caso IMS HEALTH. Una società con diritti di proprietà intellettuale (copyright) su uno standard de facto rifiutava licenze ai propri concorrenti. La società fu obbligata a concedere licenze laddove esista una interconnessione fra due fasi della produzione e il prodotto del mercato a monte sia indispensabile per ottenere il prodotto nel mercato a valle. Sulla valenza di tale caso per porre un freno alla compressione del public domain da parte dei diritti di proprietà intellettuale e sulla relativa possibilità di intervento antitrust, cfr. E. Arezzo, Osservazioni a margine del caso NDC Health v. IMS Health, in Riv. Dir. Ind., 3, 2004, 236 ss. I riferimenti del caso sono i seguenti: Tribunale di Primo Grado delle Comunità Europee caso T-184/01, IMS Health Inc. v. Commissione (due ordinanze preliminari); fase successiva IMS Health Inc. v. NDC Health Corp., Case C-481/01, pregiudiziale del Landgericht Frankfurt am Main nel caso tra IMS Health GmbH & Co. OHG v NDC Health GmbH & Co, case C-418/01. [28] Cfr. Schumpeter J., Capitalism, Socialism and Democracy, New York, Harper & Row, 1942; [29] Ad esempio l’archiviazione in rete di contatti, agenda ed altre informazioni a partire da noti software. [30] Cfr. Katz-Shapiro, Network Externalities, Competition and Compatibility, in The American Economic Review, 1985, 424-441.