di Giusella Finocchiaro e Laura Greco Sommario: 1. Premessa 2. Gli ostacoli; 2.1.…
Sentenza Google-Vividown: Non esiste la sconfinata prateria di internet dove tutto e’ permesso e niente puo’ essere vietato, nessun cenno alla responsabilità dell’Internet provider
di Elena Maggio Sono state depositate, lo scorso 12 aprile, le motivazioni della sentenza penale di condanna n. 1972 del 24.02.2010, emessa dalla IV Sezione penale del Tribunale di Milano in composizione monocratica ed ormai nota come sentenza Google-Vividown, in ragione delle parti interessate. Il 24 febbraio u.s., il giudice, leggendo il dispositivo dell’indicata sentenza, condannava a sei mesi di reclusione (con la sospensione della pena), tre tra dirigenti ed ex dirigenti di Google ritenuti responsabili di violazione delle norme sulla privacy per non aver impedito, nel 2006, la pubblicazione di un video, in cui si vedeva un giovane disabile di Torino ben identificabile nei suoi tratti somatici, insultato, umiliato e vessato dai compagni di classe, su una piattaforma web gestita dalla società californiana ed, altresì, per non aver provveduto alla rimozione dello stesso immediatamente dopo la pubblicazione, avendone, invece, consentito la consultazione da parte di un numero indeterminato di utenti. Il video era stato girato con un videofonino tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 2006 da quattro studenti minorenni di un istituto scolastico torinese, e caricato su Google Video, piattaforma di hosting per la condivisione video, nel settembre 2006, rimanendo online fino al novembre seguente, momento in cui l’associazione Vividown decise di sporgere una denuncia nei confronti di Google e periodo al quale risale anche la presentazione di una querela, alla Procura della Repubblica di Torino, da parte dei genitori del ragazzo maltrattato. A seguito delle indagini svolte dagli inquirenti erano stati contestati a quattro responsabili di Google i reati di diffamazione e di violazione della privacy. La sentenza in esame, che costituisce comunque un unicum anche a livello internazionale, ha suscitato l’interesse e la curiosità non soltanto degli addetti ai lavori, destando, altresì, una forse eccessiva attenzione mediatica. Ciò soprattutto in ragione del fatto che, all’indomani della lettura del dispositivo della sentenza, l’impressione di molti, esperti del settore e non, era stata che la decisione del giudice di Milano intendesse irrompere, di fatto, nelle tutele previste a favore degli Internet Providers dalla direttiva europea n. 2000/31/CE sul commercio elettronico, recepita in Italia per mezzo del d.lgs. n. 70 del 2003, confermando la tendenza, della più recente giurisprudenza, a voler attribuire obblighi di sorveglianza, agli operatori della Rete, sui contenuti postati dagli utenti. Ad oggi, un motore di ricerca come Google non può impedire la messa in Rete di un video girato da un qualsiasi soggetto che, avendo accesso diretto alla Rete, può immettervi tanto un messaggio scritto quanto un filmato precedentemente registrato. Nel nostro ordinamento non esiste, infatti, una norma che imponga ad un motore di ricerca di selezionare il materiale volta per volta proposto dalla massa di utenti; ben potendo, invece, lo stesso, provvedere a rimuovere il materiale che ritenga lesivo. Si è temuto, quindi, scorrendo le motivazioni che hanno indotto il giudice a condannare i dirigenti Google, rese note qualche giorno fa e redatte in un documento di oltre cento pagine, di incappare in un’attestazione di colpevolezza del motore di ricerca ritenuto responsabile di un mancato controllo sui contenuti caricati sulla sua piattaforma, in evidente contrasto con quanto sancito dall’art 17 del decreto del 2003 che disciplina l’assenza di un generale obbligo di sorveglianza in capo agli Internet Providers. Una tale affermazione avrebbe condotto il Web, nei termini oggi intesi, a scomparire e con esso molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologici che ne conseguono. Infatti, se si ammettesse la sussistenza di un obbligo di sorveglianza, da parte degli Internet Providers, questo determinerebbe il collasso del sistema, sia in considerazione di una impossibilità materiale e tecnica, per gli operatori della Rete, di effettuare un monitoraggio continuo sulle informazioni trasmesse, sia per la circostanza che tali difficoltose e dispendiose operazioni scoraggerebbero l’attività di tutti gli Internet Provider ad oggi operanti. Ciò rischierebbe, quindi, di frenare lo sviluppo di un settore considerato essenziale per il futuro dell’economia mondiale. Tra gli interrogativi che il dispositivo della sentenza aveva generato, appassionando e dividendo gli interpreti, vi era, dunque, la possibilità di considerare Google, in relazione al servizio Google Video, un intermediario della comunicazione con la conseguente applicabilità della disciplina sul commercio elettronico, nonché la possibile applicazione della legge italiana in materia di privacy ad un trattamento di dati personali che appare interamente, o quasi, svolto all’estero da un soggetto straniero. Nulla di quanto si temeva è, però, accaduto ed i quesiti giuridici anzidetti non hanno ricevuto una risposta esaustiva dal tenore delle motivazioni depositate qualche giorno fa. Gli unici obblighi non rispettati da Google, da cui è derivata per i suoi dirigenti, una responsabilità, penalmente rilevante, riguardano, secondo il magistrato, essenzialmente la legislazione in materia di privacy. Il Tribunale, giova ricordarlo, ha condannato Google solo per le infrazioni relative alla privacy, non per l’accusa di diffamazione, perché, a seguito del ritiro della querela da parte dei genitori del minore ripreso dal video, non si è potuto procedere relativamente a tale secondo capo di imputazione prospettato dall’accusa. Il giudice di Milano ha spiegato, nelle sue motivazioni, che non può esistere la sconfinata prateria di Internet dove tutto sia permesso e niente possa essere vietato, in quanto “esistono invece leggi che codificano comportamenti e che creano degli obblighi che, ove non rispettati, conducono al riconoscimento di una penale responsabilità”. Ha continuato ancora il giudice, affermando che “Google Italia trattava i dati contenuti nel video caricati sulla piattaforma di Google Video e ne era quindi responsabile perlomeno ai fini della legge sulla privacy”. L’informativa sulla privacy, secondo quanto si legge in motivazione, sarebbe stata del tutto carente o, comunque, talmente nascosta nelle condizioni generali di contratto da risultare assolutamente inefficace per l’assolvimento dei fini previsti dal d.lgs. n. 196 del 2003. Il ragionamento del giudice sembra incentrarsi sulla circostanza che Google avrebbe dovuto informare i suoi utenti del fatto che se si pubblica un video che riguarda una terza persona, il consenso di quel terzo è necessario perché non ci sia reato. Per il giudice questo non è avvenuto, in più il trattamento del video attraverso l’indicizzazione, le classifiche di popolarità ed il potenziale inserimento dei programmi pubblicitari di Google ha confermato una “conoscenza” del video e questo ha complicato la posizione dei dirigenti ritenuti responsabili. Nonostante il giudice abbia negato la possibilità di un controllo preventivo da parte del provider, sembra, tuttavia, ritenere che “l’hoster attivo”, come viene definito Google nel corpo del testo, debba farsi carico di rendere edotto tutto il suo potenziale pubblico del tenore della normativa in materia di tutela dei dati personali. Il giudice si rende conto che non si può chiedere un controllo diretto alle piattaforme ma incentra la sua disamina della fattispecie sulla necessità dell’avvertenza al pubblico quale mezzo idoneo a sgravare di responsabilità la piattaforma stessa. Risulta, tuttavia, difficile rintracciare, in quanto sin qui esaminato, ed alla luce delle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 196 del 2003, l’enucleazione chiara, puntuale e rigorosa di un principio di diritto idoneo a sorreggere l’impianto accusatorio ed a motivare la pesante e originale decisione adottata dal Tribunale di Milano. A pagina 96 del documento contenente le motivazioni della sentenza n. 1972 del 22.02.2010, si legge “NON (n.d.r. le maiuscole sono del magistrato) costituisce condotta sufficiente ai fini che le legge impone, ‘nascondere’ le informazioni sugli obblighi derivanti dal rispetto della legge sulla privacy all’interno di ‘condizioni generali di servizio’ il cui contenuto appare spesso incomprensibile, sia per il tenore delle stesse che per le modalità con le quali vengono sottoposte all’accettazione dell’utente” ed, ancora, che “tale comportamento, improntato ad esigenze di minimalismo contrattuale e di scarsa volontà comunicativa, costituisce una specie di ‘precostituzione di alibi’ da parte del soggetto/web e non esclude, quindi, una valutazione negativa della condotta tenuta nei confronti degli utenti”. Come hanno obiettato in molti, come si può ritenere che se Google avesse fornito, nelle proprie condizioni generali di utilizzo del servizio, avvertimenti in caratteri più grandi e magari in grassetto sull’esigenza di ottenere il consenso al trattamento dei dati dal protagonista del filmato, i compagni minorenni del bambino disabile, i quali hanno postato il video, vi avrebbero provveduto? Il quesito assume certamente pregnanza maggiore ove si consideri che nelle pagine successive, relative alla diffamazione, secondo capo di imputazione per il quale non si è potuto procedere, si legge testualmente “pur ammettendo per ipotesi che esista un potere giuridico derivante dalla normativa sulla privacy che costituisca l’obbligo giuridico fondante la posizione di garanzia, non vi è chi non veda che tale potere, anche se correttamente utilizzato, certamente non avrebbe potuto ‘impedire l’evento’ diffamatorio”. È, dunque, lo stesso giudice ad affermare che, anche se l’informativa sulla privacy fosse stata data in modo chiaro e comprensibile all’utente, non può certamente escludersi che l’utente medesimo non avrebbe caricato il file video incriminato, commettendo il reato di diffamazione. Le oltre cento pagine di motivazione non solo non rispondono, in modo soddisfacente, ai quesiti che la lettura del solo dispositivo aveva, generato negli addetti ai lavori, ma giungono a contraddirsi in alcuni passaggi, come appena dimostrato. Vi è, inoltre, da considerare che l’obbligo, disatteso da Google, di informare i suoi utenti del fatto che se si pubblica un video che riguarda una terza persona, il consenso di quel terzo è necessario, alla base delle motivazioni della condanna, viene, dal giudice di Milano, giuridicamente ricondotto al dettato dell’art. 13 del Codice Privacy. Tuttavia, l’articolo del Codice, citato dal giudice, riguarda le informazioni che l’Internet Provider deve dare al suo utente in merito alle modalità di trattamento dallo stesso provider effettuate, cioè su ciò che, nel nostro caso Google, fa con i dati di chi utilizza la piattaforma. L’articolo in esame non fa alcun riferimento ad un obbligo, per Google quale Internet Provider, di informare l’utente sui vincoli di legge da rispettare e cioè sul fatto che le persone riprese nel video che l’utente intende postare debbano essere avvertite e si debba ottenere il loro consenso. Sembra, quindi, che il giudice di Milano, nell’esplicitare le motivazioni che hanno giustificato la condanna emessa lo scorso febbraio, abbia male interpretato il tenore della legislazione in materia di trattamento dei dati personali, basando i suoi ragionamenti sulla sussistenza di un dovere qualificato di informativa che non è quello previsto dal d.lgs. n. 196 del 2003, c.d. Codice Privacy. Lo stesso presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, massimo organo in materia di tutela della privacy, non sembra aver condiviso le conclusioni cui è giunto il giudice di Milano paventando, altresì, la possibilità che ragionamenti tanto farraginosi e contraddittori ben potrebbero non superare il controllo di legittimità nei gradi successivi di giudizio. Tornando alla disamina delle motivazioni della sentenza, con specifico riferimento alla circostanza, che Google Italy e non già solo Google Inc. avrebbe trattato in Italia e non negli USA i dati personali oggetto del procedimento, la prova che Google Italy sarebbe stata titolare di un trattamento svolto in Italia andrebbe individuata, secondo il Tribunale di Milano, nella circostanza che “attraverso il sistema AdWords ed il riconoscimento di parole chiave” la società “aveva sicuramente la possibilità di collegare, attraverso la creazione di link pubblicitari, le informazioni riguardanti i clienti paganti alle schermate riguardanti Google Video e quindi in qualche modo, gestire, indicizzare, organizzare anche i dati contenuti in quest’ultimo sito” e quindi di trattare i dati contenuti nei video caricati sulla piattaforma di Google Video dei quali era quindi responsabile, perlomeno ai fini della legislazione in tema di trattamento di dati personali. È, quantomeno, azzardato ritenere che gestire attraverso un sistema automatizzato come AdWords, in forma anonima, l’associazione di contenuti pubblicitari a taluni contenuti audiovisivi ospitati da un soggetto straniero all’estero possa significare trattare, in Italia, dati personali altrui. Nessun rilevante riferimento, all’interno del corposo documento depositato qualche giorno fa, viene, invece, fatto alla disciplina sul commercio elettronico, ovvero al d.lgs. n. 70 del 2003, in tema di responsabilità dell’Internet Provider, neppure per escludere l’applicabilità, alla fattispecie in oggetto, della detta normativa. Il magistrato si spinge, invece, a scrivere che poco varrebbe “la distinzione che fanno sia i PM che le difese tra host provider e content provider” quasi a dire che almeno dinanzi alla disciplina sulla privacy intermediari della comunicazione (host provider) e non intermediari (content provider) sarebbero soggetti ai medesimi obblighi e responsabilità. Ed afferma che “la condanna del webmaster in ordine al reato di illecito trattamento dei dati personali, infatti, non viene qui costruita sulla base di un obbligo preventivo di controllo sui dati immessi, ma sulla base di un profilo valutativo differente che è, come detto, quello di una insufficiente (e colpevole) comunicazione degli obblighi di legge nei confronti degli uploaders, per fini di profitto”. In definitiva, è apparsa più dirompente la tesi prospettata dall’accusa rispetto a quanto non abbia poi motivato il giudice di Milano, ciò tralasciando, comunque, la gravità della sanzione inflitta ai tre dirigenti Google. Secondo quanto sostenuto dall’accusa, infatti, Google Italy avrebbe dovuto essere condannata, per diffamazione e violazione della privacy, in quanto costituente una particolare figura di host provider, c.d. host attivo, fedele alle sole regole del profitto e pronto, in nome del perseguimento di tale obiettivo, a non adottare procedure e sistemi informatici di filtraggio, pur disponibili, al solo scopo di massimizzare la quantità di contenuti, leciti ed illeciti online, e, per questa via, le opportunità di guadagno. La fattispecie esaminata, secondo l’accusa, si ridurrebbe ad una policy aziendale spregiudicata, finalizzata ad acquisire pubblico e pubblicità sul proprio sito, ad un interesse verso il business spinto oltre i limiti della moralità, sfociato nel non rispetto dei principi della privacy, che sarebbero stati ignorati. In un passaggio delle motivazioni si legge, al riguardo, che “appare evidente come il governo della società italiana sia stato – dall’America- volontariamente indirizzato dai legali rappresentanti alla esclusiva gestione dei profitti economici con totale e deliberata omissione di qualsiasi attività (anche di consulenza legale, attinente alle questioni proprie del diritto italiano o comunque comunitario) che potesse – in qualche modo – ostacolarne gli incrementi”. Il giudice, nelle sue conclusioni, rileva, in definitiva, la carenza legislativa sul tema affrontato ed auspica un sollecito intervento da parte del legislatore. Questo perché, spiega ancora il giudice, “non c’è peggior dittatura di quella esercitata in nome della libertà assoluta”; si chiede una legge che permetta di sanzionare non i responsabili dei reati, che è quanto di più ovvio, ma le responsabilità connesse. Insomma, non obbligatoriamente una responsabilità per l’omesso controllo, ma comunque una responsabilità, quantomeno colposa, come previsto per giornali e tv. Sul punto occorre considerare che, anche a voler prescindere dalle considerazioni prima esposte in merito alla contraddittorietà e farraginosità del ragionamento prospettato dal giudice di Milano, una futura legge che introducesse un obbligo di sorveglianza sui contenuti per gli Internet Providers, con la conseguente creazione di una forma di responsabilità degli stessi operatori della Rete in caso di disattenzione del detto obbligo, si porrebbe in contrasto con il diritto comunitario, segnatamente con l’art. 15, comma 1, della Direttiva Comunitaria n. 2000/31/CE, che, stante il sistema della gerarchia delle fonti nel nostro ordinamento, prevale sulla normativa interna di rango ordinario. Inoltre, come sostiene la dottrina prevalente, la previsione di una siffatta normativa, che dovrebbe comunque essere la scelta del legislatore comunitario prima e di quello nazionale solo in un secondo momento, condurrebbe a delineare, in capo al provider, un modello di responsabilità soggettiva, che, come tale, presuppone l’elemento della colpevolezza del danneggiante, con l’onere della prova incombente sul danneggiato.