skip to Main Content

Azione di classe: prime applicazioni del nuovo strumento previsto dal Codice del Consumo

di Federica Togo

La legge finanziaria per il 2008 (1) con l’art. 140-bis, ha introdotto nel Codice del Consumo (2) la “Azione collettiva risarcitoria”. L’entrata in vigore originariamente prevista per luglio 2008 è stata successivamente differita a gennaio 2009, quindi a luglio 2009 e infine a gennaio 2010 (3), dopo che il testo originario dell’art. 140-bis è stato sostituito dall’art. 49, comma 1 della legge 23 luglio 2009 n. 99 sotto la rubrica “Azione di classe”.
Le modifiche apportate all’art. 140-bis hanno sollevato perplessità in ordine all’efficacia dello strumento introdotto. La principale novità riguarda la legittimazione ad agire. In effetti, il testo originario dell’art. 140-bis riservava la legittimazione in capo alle associazioni riconosciute dal Ministero, nonché ad altre associazioni e comitati. Secondo la nuova disposizione, la legittimazione attiva per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni appartiene a ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa.
Secondo alcuni tale modifica sarebbe mirata a contenere le azioni collettive; in effetti risulta difficile immaginare il singolo, danneggiato per un valore minimo, che voglia intraprendere da solo un’azione legale contro una multinazionale; inoltre non è di facile interpretazione la relazione intercorrente tra ciascun consumatore danneggiato e l’associazione o il comitato che lo rappresenta; in fine rimangono incerti i confini della classe di appartenenza. Sarà solo il tribunale, in un secondo momento, mediante l’ordinanza di ammissione dell’azione a definire quelli che sono i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio, specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono inclusi nella classe o devono ritenersi esclusi dall’azione (in base al comma 9, lett. a).
Oggetto della tutela sono i diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti. Per conciliare la natura individuale degli interessi protetti con l’esigenza di gestire unitariamente le diverse situazioni, l’art. 140-bis limita la tutela collettiva alle situazioni identiche. E’ prevedibile che il carattere di identicità sarà oggetto di un futuro contrasto interpretativo e di possibili interpretazioni eccessivamente restrittive. In particolare il comma 2 dispone che l’azione è diretta a tutelare a) i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione identica, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile (rispettivamente rubricati “condizioni generali di contratto” e “contratti conclusi mediante moduli o formulari”); b)i diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; c)i diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali. La domanda si propone con citazione al tribunale ordinario avente sede nel capoluogo della regione in cui ha sede l’impresa; tuttavia per alcuni casi viene indicato un unico tribunale per più regioni. Le associazioni dei consumatori hanno contestato il fatto che il concreto funzionamento della nuova class action dipenda anche dall’efficienza degli 11 tribunali preposti a trattare i ricorsi in quanto si tratta di fori già intasati da una non governata mole di attività e che operano nello specifico per territori molto ampi (nel caso del tribunale di Roma l’area di pertinenza comprende Abruzzo, Lazio, Marche, Molise, Umbria).
Il rito è quello ordinario ma è previsto ed è regolato, come già accadeva nel precedente testo della norma, il giudizio preventivo di ammissibilità. Infatti, il comma 6 dispone che all’esito della prima udienza il tribunale decide con ordinanza sull’ammissibilità della domanda.
La domanda è dichiarata inammissibile: a) quando è manifestamente infondata, b) quando sussiste un conflitto di interessi ovvero c) quando il giudice non ravvisa l’identità dei sopramenzionati diritti individuali tutelabili, nonché d) quando il proponente non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe. Tale ultima ipotesi, che rappresenta una novità rispetto al precedente testo dell’art. 140-bis, potrebbe comportare difficoltà interpretative e attribuire ai giudici ampia discrezionalità di valutazione.
L’ordinanza che decide sull’ammissibilità è reclamabile davanti alla corte d’appello entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione se anteriore. Inoltre, il tribunale può sospendere il giudizio quando sui fatti rilevanti ai fini del decidere è in corso un’istruttoria davanti a un’autorità indipendente ovvero un giudizio davanti al giudice amministrativo.
Anche nella nuova versione dell’art. 140-bis è previsto un meccanismo di pubblicità successivo al giudizio di ammissibilità della domanda. Infatti, solo se l’azione è dichiarata ammissibile il tribunale fissa termini e modalità della più opportuna pubblicità, ai fini della tempestiva adesione degli appartenenti alla classe. Inoltre con la stessa o successiva ordinanza impone alle parti l’onere della pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli aderenti. Anche l’aspetto delle spese di pubblicità si presenta come un tasto dolente nella procedura, per il rischio di scoraggiare i ricorrenti nell’intraprendere l’azione a causa di costi non preventivabili.
L’adesione all’azione di classe da parte dei consumatori ed utenti, che intendono avvalersi della suddetta tutela, avviene in un termine fissato dal giudice con l’ordinanza che ha dichiarato ammissibile l’azione che non deve essere superiore a 120 giorni dalla scadenza di quello fissato per la pubblicità dell’iniziativa giudiziaria e, quindi, dopo che l’azione è stata dichiarata ammissibile. C’è da precisare che l’adesione si concretizza con il deposito in cancelleria dell’atto di adesione che deve contenere, oltre all’elezione di domicilio, l’indicazione degli elementi costitutivi del diritto fatto valere con la relativa documentazione probatoria.
Secondo alcuni la soluzione accolta contribuirebbe a risolvere questioni presenti nella formulazione del testo anteriore che in primis consentiva ai consumatori di aderire all’azione fino all’udienza di precisazione delle conclusioni e di intervenire, inoltre, in qualunque momento nel giudizio promosso a seguito dell’azione collettiva risarcitoria per proporre domande aventi il medesimo oggetto.
Con la nuova disposizione, invece, sarebbe evitato il rischio che le adesioni contribuiscano a complicare il corso del processo, escludendo conseguentemente l’ammissibilità degli interventi. Questo sistema è stato d’altro canto criticato dalle associazioni dei consumatori in quanto escluderebbe chi, pur condividendo lo stesso danno patito dal promotore dell’azione, non ha aderito all’azione di classe entro il suddetto termine, non potendo più né aderire, né tantomeno promuovere un nuovo ricorso.
Inoltre, il valore preclusivo di una simile disposizione è sottolineato anche dalla previsione contenuta nel comma 14 che esclude la proponibilità di ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa dopo la scadenza del termine per l’adesione.
Con il meccanismo dell’adesione, il legislatore ha espresso in tal modo la sua preferenza per il sistema in base al quale è richiesto un atto di adesione espresso da parte del consumatore che voglia aderire agli effetti dell’azione proposta (opt in). In tal modo, la sentenza che definisce il giudizio avrà valore solo nei confronti degli aderenti. Va sottolineato che l’adesione comporta rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo e la soggezione agli effetti della sentenza che rigetta la domanda, mentre è fatta salva l’azione individuale dei soggetti che non aderiscono all’azione collettiva.
A differenza di quanto previsto nel precedente testo dell’art. 140-bis, il tribunale allorquando accoglie la domanda pronuncia una vera e propria sentenza di condanna con cui liquida equitativamente le somme definitive spettanti all’attore e agli aderenti, ai sensi dell’art. 1226 c.c. E’ prevista, altresì, la possibilità di stabilire meramente il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di tali somme. In tal modo si corre il rischio che tale scelta residuale possa divenire la regola, privando così il consumatore di qualsiasi utilità propria del giudizio collettivo e costringendolo ad azionare individualmente un giudizio per la liquidazione delle somme a suo favore.
Va ricordato che decorsi centottanta giorni dalla pubblicazione la sentenza diviene esecutiva. Infine, l’art. 49, 2° comma della legge 23 luglio 2009 n. 99 prevede che l’azione di classe possa applicarsi solo agli illeciti compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della legge (16 agosto 2009), con la conseguenza che rimarranno privi di tutela i recenti scandali cha hanno colpito alcune multinazionali e che hanno comportato notevoli danni per migliaia di consumatori ed utenti (ad es. le vicende Cirio e Parmalat). L’efficacia di questo nuovo strumento di tutela potrà essere valutata, in definitiva, esclusivamente sulla base dell’applicazione pratica che ne seguirà.
A tal riguardo l’associazione dei consumatori Codacons, attraverso l’iniziativa del suo Presidente, ha proposto la prima azione di classe nei confronti di Banca Intesa San Paolo. Il Presidente dell’associazione Codacons riteneva che Intesa SanPaolo, banca di cui è correntista, avesse applicato in maniera non corretta delle commissioni che, di fatto, avrebbero sostituito la precedente clausola di massimo scoperto.
Tale azione si basava su quanto sostenuto dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nel provvedimento relativo all’attività di segnalazione AS647 del 22/12/2009, secondo cui le banche avrebbero compensato l’eliminazione della commissione di massimo scoperto (vietata ex art. 2 bis d.lgs. del 29 novembre 2008, n. 185, convertito in legge 28 gennaio 2009, n. 2), introducendo nuove e più costose commissioni a carico degli utenti (4).
Il tribunale di Torino ha respinto con ordinanza del 4 giugno 2010 l’azione ritenendola inammissibile, nonostante la Procura si fosse espressa favorevolmente.
Il tribunale ha ritenuto, dopo un’analisi delle condizioni del conto del Presidente dell’associazione Codacons e dei relativi accordi con Intesa SanPaolo, che l’azione dovesse essere respinta per carenza di interesse ad agire del suo proponente.
In particolare risulta dall’ordinanza che la banca convenuta applicava ai clienti, in sostituzione della commissione di massimo scoperto (C.M.S.), nuove commissioni che venivano applicate sia sul fido che sull’extrafido. In particolare per l’utilizzo del fido erano applicate le “commissioni per scoperto di conto- C.S.C.” nella misura di 2 euro per ogni giorno in cui sul conto si era determinato un saldo debitore e per ogni 1.000 euro di saldo debitore. Per l’extrafido invece erano imposte commissioni nella misura del 12,5% c.d. T.U.O.F., per il numero di giorni per cui si era manifestato lo scoperto.
Nell’ordinanza il tribunale sottolinea innanzitutto come in presenza di un’azione di classe della legittimazione ad agire non sia titolare un ente o un’associazione, ma il singolo consumatore o utente, a condizione che la posizione giuridica soggettiva da lui vantata sia caratterizzata da omogeneità rispetto a quella degli altri componenti della classe. Il singolo esponente della classe può agire per il tramite di associazioni cui dà mandato o di comitati cui partecipa, secondo il meccanismo della rappresentanza processuale, come è appunto avvenuto nel caso esaminato.
Il tribunale sottolinea inoltre che l’esame preliminare di ammissibilità della domanda presuppone peraltro, come in tutti i giudizi, la sussistenza delle condizioni dell’azione, prima di tutto in punto di legittimazione dell’attore, con riferimento alla richiesta qualità di consumatore o utente, e alla sussistenza dell’interesse ad agire.
Sotto tale profilo, ha precisato il tribunale, non va fatto riferimento ad un interesse ad agire e ad una legittimazione di classe diversi da quelli che presiedono alla legittimazione nelle azioni ordinarie individuali. Solo il soggetto che assume l’iniziativa processuale assume la qualità di parte processuale, mentre coloro che aderiscono all’azione in virtù del meccanismo dell’opt-in ne subiscono gli effetti, ma non assumono la qualità di parte essendo privi di poteri di impulso processuale e della possibilità di impugnare la decisione, che fa comunque stato nei loro confronti.
Ne deriva che l’attore per potersi legittimare deve essere prima di tutto titolare, in proprio e personalmente, del diritto individuale omogeneo che caratterizza la classe che intende rappresentare. Di conseguenza la legittimazione attiva non è regolata in termini diversi da quelli propri di qualunque altra azione.
Al fine di verificare anzitutto la sussistenza dell’interesse ad agire del proponente il tribunale ha ritenuto necessario ricostruire la disciplina dettata dall’art. 2 bis della legge 2/90 e il contenuto delle clausole commissionali introdotte dalla banca convenuta nei rapporti con l’attore.
Ne risulta che la c.d. C.S.C. si applica ai soli correntisti non affidati e dunque non all’attore, che com’è pacifico in causa, gode di un’apertura di credito di conto corrente sino all’ammontare di 15.000 Euro.
Per i conti affidati la Banca ha invece introdotto il c.d. T.U.O.F. applicato in misura pari al 12,5%, poi ridotto al 12%, nel caso in cui sul conto corrente sul quale è concessa l’apertura di credito si determina un saldo debitore superiore all’importo dell’apertura di credito stessa. Il tribunale sottolinea che è pacifico in causa che la contestata C.S.C. non è mai stata applicata al proponente, essendo prevista per gli scoperti maturati sui conti non affidati, godendo l’attore, come si è detto, di apertura di credito in conto corrente. Di conseguenza l’attore non risulta legittimato ad impugnare la validità di tale pattuizione contrattuale, difettando in capo allo stesso l’interesse ad agire in quanto allo stato egli non è stato in alcun modo leso nei suoi diritti dall’introduzione di tale disciplina.
Il tribunale ha osservato, alla luce delle considerazioni che si sono già svolte, che l’interesse ad agire non può ricavarsi dall’esistenza di altri correntisti in ipotesi lesi dalla clausola commissionale, posto che esso, anche nell’azione c.d. collettiva, deve in primo luogo essere individuato in capo al proponente, soltanto in un secondo momento dovendosi verificare se l’esistenza del medesimo interesse in capo ad altri soggetti portatori del medesimo diritto consenta di ravvisare l’esistenza della “classe”.
Per quanto poi concerne la posizione dell’attore con riferimento al T.U.O.F. va osservato che il proponente ha documentato di aver tratto un assegno bancario per 15.000 euro sul conto oggetto di causa, con ciò utilizzando completamente il fido di cui godeva e determinando il sorgere di un saldo passivo per oltre 2.000 euro. La circostanza non è stata smentita dalla banca convenuta che l’ha anzi confermata, producendo copia dell’assegno tratto dall’attore.
Va peraltro sottolineato che la banca convenuta ha dichiarato di aver applicato al proponente il T.U.O.F. addebitandogli il medesimo tasso previsto per il credito concesso nel limiti del fido, vale a dire il 12%. Anche questa circostanza non è stata contestata dall’attore, che ha soltanto osservato nelle sue difese che, se era vero che in questo modo l’applicazione del T.U.O.F. non determinava alcun pregiudizio, la situazione avrebbe potuto mutare in ogni momento, sol che la banca si fosse avvalsa della facoltà di modificare il tasso di interesse per gli utilizzi di provvista nei limiti del fido, sì da rendere gli interessi intra-fido minori di quelli previsti in caso di sconfinamento extra-fido.
Ciò peraltro a tutt’oggi non è avvenuto. Pertanto, precisa il tribunale che anche per quanto concerne il T.U.O.F. l’attore in assenza di pregiudizio derivatogli dall’applicazione della disciplina contrattuale, è privo di un interesse concreto e attuale a far valere la nullità della clausola contrattuale.
Sulla base di simili considerazioni, il tribunale ha concluso che, in difetto d’interesse ad agire, l’azione proposta dall’attore deve essere dichiarata inammissibile.
Pertanto il primo caso di applicazione dello strumento contenuto nell’art. 140-bis codice del consumo si è arenato nell’esame preliminare di ammissibilità della domanda che presuppone, come in tutti i giudizi, la sussistenza delle condizioni dell’azione, prima di tutto in punto di legittimazione dell’attore, con riferimento alla richiesta qualità di consumatore o utente, e alla sussistenza dell’interesse ad agire.
(1) Art. 2, commi da 445 a 449, Legge 24 dicembre 2007, n. 244.
(2) Decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206.
(3) Ai sensi dell’art. 23, comma 16 del d.l. 1 luglio 2009 n. 78 convertito in Legge 3 agosto 2009, n. 102.

(4) Decisione dell’AGCM del 22.12.2009 – Attività di Segnalazione AS647 “Commissioni sugli affidamenti e sugli scoperti di conto corrente” in Bollettino settimanale n. 50/2009.

Back To Top