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Riflessioni biomediche sulla fecondazione eterologa e sulla maternità surrogata

di Salvatore Mancuso

Relazione presentata al convegno “La fecondazione eterologa tra Costituzione italiana e Convenzione europea dei diritti dell’uomo”, svoltosi il 2 aprile 2012 all’Università Europea di Roma.
Sta entrando sempre più nell’uso corrente ed assume quasi le caratteristiche di un nuovo stile di vita, nelle coppie che hanno superato i 35 anni, di richiedere al di fuori dei confini nazionali la donazione ovocitaria per una fecondazione eterologa, nella speranza di superare l’ostacolo rappresentato dall’età delle donne, che, come è noto, costituisce un fattore di insuccesso o di limitazione nella ricerca di una gravidanza sia naturale che con tecniche di procreazione medicalmente assistita (FIVET, ICSI etc.). In effetti l’età avanzata femminile di ricerca della gravidanza è divenuta la causa più frequente e meno curabile di sterilità coniugale: la qualità degli ovociti declina prepotentemente con gli anni, diminuendo a 35 anni e arrivando a determinare circa il 10% della fertilità spontanea a 40 anni e meno del 5% a 44 anni. In tali casi anche le tecniche di procreazione assistita hanno efficacia molto ridotta; inoltre, per ripetuti interventi sull’ovaio o per terapie mediche particolarmente aggressive (chemio radioterapia in casi oncologici) anche donne più giovani possono trovarsi in condizioni simili a quelle delle donne over 40 per un processo di riduzione della riserva ovarica, cioè del numero di ovociti atti ad essere fertilizzabili, a causa del loro deficit qualitativo. Tutto ciò sta dunque comportando un allargamento al ricorso alla fecondazione eterologa: quindi non più e non solo la donazione di un gamete estraneo alla coppia per esigenze mediche o genetiche, (che possono essere causa di insuccessi gravidici o di prole affetta da patologie congenite), ma la prospettiva di una gravidanza con maggiori probabilità di successo, perché ottenuta con l’impiego di un ovocita “giovane” donato, in coppie che hanno superato l’età ideale per diventare genitori. Il riflesso di questo mutato atteggiamento è chiaramente constatato dai ginecologi che esercitano attività ambulatoriale pubblica o privata, i quali in questi ultimi tempi sono sempre più impegnati a seguire un numero crescente di gravidanze ottenute in donne attempate (vicine alla quarantina) mediante tecniche di procreazione assistita e con fecondazione eterologa. E mentre diventa sempre più raro l’impiego di gameti maschili eterologhi, data la possibilità di ottenere attraverso una puntura testicolare gli spermatozoi o i suoi immediati progenitori nel coniuge ipofertile o addirittura azoospermico, la fecondazione eterologa è oggi intesa quasi esclusivamente al femminile, attraverso una donazione ovocitaria alla donna avanti negli anni, che, pur essendo fertile, teme l’insuccesso gravidico a causa dei suoi ovociti senescenti. Tutto questo avviene all’estero, ne fa fede un recente rapporto dell’Osservatorio sul turismo procreativo. Infatti, sembra che sono oltre 2.700 le coppie che lo scorso anno si sono rivolte da Cipro a Malta, dall’Austria alla Spagna, per ottenere tale donazione e per loro Internet rappresenta la fonte di informazione più efficiente per fornire l’ampia scelta delle sedi straniere più vicine, più affidabili e più convenienti dal punto di vista economico. Il flusso è tale che i Centri o le cliniche estere, in particolare in Spagna, si sono attrezzate per accogliere prevalentemente le coppie italiane, offrendo loro un’organizzazione “ad hoc”, dove ognuno, dalle segretarie agli specialisti, parla perfettamente italiano, facendo sentire gli ospiti a loro agio e inoltre attivando ogni risorsa di buona ospitalità, mentre il flusso di denaro che esce dai confini nazionali per far fronte alle considerevoli spese sanitarie e logistiche diventa sempre più consistente di anno in anno. Si va da 2.500 a 10.000 euro a seconda dei Centri solo per l’ovodonazione, senza contare i soggiorni alberghieri e le varie spese per il sostentamento, affrontate dalle coppie e talvolta da qualche familiare al seguito.
In Italia la legge 40/2004 vieta espressamente tale pratica (Art. 4 comma 3) e il ricorso ai Centri stranieri cresce di anno in anno. Certo in quell’anno i legislatori nel regolamentare finalmente tale materia, divenuta incontrollata e selvaggia nel nostro Paese, si sono appellati all’esperienza e all’autorevolezza di esperti in varie discipline, dalla biologia all’antropologia, dalla sociologia alla psicologia, dalla fisiopatologia della riproduzione al diritto di famiglia ed inoltre hanno voluto accuratamente studiare le norme che regolano questa materia in altri Paesi, assimilando o rifiutando quelle procedure ritenute per loro rispettivamente accettabili o improponibili. Per questo la nuova legge divenuta esecutiva nel 2004 fu considerata la migliore, la più equilibrata e la più moderna tra quelle in vigore nei diversi Paesi. Questo giudizio però non fu condiviso sia dagli specialisti italiani esperti nelle pratiche di procreazione assistita, che sentivano ridotte le loro possibilità di impiego delle tecniche prima adottate e di sperimentare nuove procedure e nuove manualità, e sia dalle coppie che vedevano notevolmente limitate le loro esigenze procreative e sia dai politici, sempre pronti ad appoggiare istanze “contro corrente”, soprattutto se di provenienza lontana dai loro ideali di partito e non in linea con i programmi di “rinnovamento e di modernizzazione” del Paese. Negli anni successivi al 2004 queste reazioni contrarie riuscirono ad ottenere alcuni ritocchi alla legge 40, come quello riguardante la possibilità in casi selezionati di ricorrere alla crioconservazione degli embrioni e la possibilità di effettuare la diagnosi pre impianto.
Oggi si prospetta l’eventualità di rimettere in discussione la proibizione per la fecondazione eterologa e il tentativo di ritoccare la legge anche su questo versante consentirebbe di adottarla anche nel nostro Paese, ponendo termine alla crescente richiesta delle coppie italiane che si rivolgono al di fuori dei confini nazionali e che si sentono limitate nella libertà e nella facoltà di attingere alle procedure più avanzate per esaudire il desiderio di diventare genitori. Al di là di ogni considerazione etica, sociale e relativa all’unità e all’inscindibilità del nucleo familiare, l’utilizzo sotto forma di “donazione” di gameti estranei alla coppia pone riflessioni innanzi tutto di ordine genetico, biologico e immunitario, mai sufficientemente rilevate ed illustrate finora. Tralasciando la donazione di spermatozoi, sempre meno richiesta, mi riferisco specificatamente all’impiego di ovociti da parte di donne che hanno superato quel limite di età, che rappresenta un consistente elemento di rischio sia per l’insorgenza e sia per la prosecuzione di una gravidanza ricercata in modo naturale, a causa della ridotta fertilità che interviene dopo i 35 anni, soprattutto nella fascia 38- 45 anni.
Un certo numero di ovociti ottenuto attraverso un’intensa stimolazione ormonale su una giovane donna volontaria e sconosciuta, spesso proveniente da un Paese dell’est europeo e desiderosa sia di compiere un gesto solidaristico e sia di ricavarne anche un pur modesto guadagno, contiene un patrimonio genetico che è proprio di quel soggetto umano e caratteristico della sua comunità d’origine. La donna che riceve questa donazione accetta ciecamente e inconsapevolmente i caratteri ereditari di un ceppo familiare totalmente estraneo al suo organismo e lo consegna a quella che sarà la sua prole, non sapendo se quel genoma contenga caratteristiche di eccellenza in quanto a salute e benessere oppure tare ereditarie che condizionerebbero in negativo lo sviluppo somatico e psichico, e quindi il futuro del figlio che lei stessa darà alla luce, dopo averlo portato in utero per 40 settimane e che geneticamente contiene il 50% del genoma di una donna sconosciuta insieme al corrispettivo 50% del genoma paterno. La presenza quindi di un concepito per il 100% estraneo al suo organismo non è un fenomeno biologico naturale per la donna che affronta l’impegno di una gravidanza e potrebbe comportare conseguenze negative per la sua salute.
La tolleranza immunitaria è quel fenomeno biologico che si attiva sin dalle fasi più iniziali della gravidanza, è controllata dall’embrione e consente alla madre di accettare la presenza del 50% degli antigeni di provenienza paterna e di accogliere ed ospitare il figlio che si sviluppa fino a raggiungere la sua maturazione all’interno dell’utero materno. E’ accertato e ben documentato che durante la gestazione la madre deve far fronte all’adattamento del suo sistema immunitario alla presenza nel suo organismo, e quindi con esso intimamente correlato e in stretta simbiosi, di un altro essere umano, che possiede una parte del genoma paterno, del tutto estraneo alla stessa madre. E’ altresì dimostrato che il concepito, sin dall’inizio della sua convivenza con la madre, attraverso la produzione di specifici ormoni, citochine e fattori di crescita, contribuisce ad instaurare quella “tolleranza immunitaria” materna, che gli consentirà l’accoglienza e lo sviluppo fino al termine della sua strutturazione e quindi fino alla nascita. La presenza nel cordone ombelicale di un flusso continuo di cellule fetali, che entrano e si domiciliano stabilmente nell’organismo materno (microchimerismo gravidico), sollecita il sistema immunitario della donna ad un particolare impegno, facilitato appunto dal fenomeno della tolleranza che si è stabilita nel suo organismo sin dall’inizio della gravidanza. Il permanere di queste cellule estranee alla madre molto oltre la fine della gravidanza, anche quando è cessato il fenomeno della tolleranza immunitaria, può in alcuni soggetti facilitare l’insorgenza di patologie autoimmuni, dal lupus eritematoso sistemico alla dermatomiosite, dalle tiroiditi autoimmuni alla sclerodermia, etc., a distanza di molti anni dai parti. Se questo avviene in condizioni normali, e cioè dopo gravidanze insorte spontaneamente, non è del tutto fantasioso ipotizzare una sua maggiore incidenza in gravidanze ottenute in seguito ad ovodonazione, quando il genoma dei figli risulta per il 100% estraneo all’organismo materno che li ospita.
Un altro elemento di rischio per la donna avanti negli anni che affronta una gravidanza (e oggi il limite massimo di età in cui indurre una gravidanza risulta sempre più sfumato, grazie alle risorse tecnologiche disponibili e alla tendenza a venire incontro alle richieste delle donne perfino alla vigilia della loro menopausa) è rappresentato dal sovraccarico metabolico, cardiocircolatorio e funzionale da parte di organi come fegato e rene, che col trascorrere degli anni perdono gradualmente quella efficienza che tende a limitare in misura più o meno accentuata la capacità gestazionale della donna, configurando quella sindrome che è ben descritta nel capitolo della “gravidanza nella donna attempata”, in cui si manifestano con maggiore frequenza le patologie intercorrenti e quelle dovute alla gravidanza stessa. E questo vale sia nell’ambito della coppia stabile e sia nei casi di gravidanza surrogata, altresì detta di “utero in affitto”, quando cioè una donna estranea alla coppia accetta di accogliere l’impianto di un embrione proveniente dalla tecnologia di procreazione assistita, affittando il suo utero in quei casi in cui la madre non dispone di un utero in condizioni di ospitare una sua gravidanza, per precedenti interventi chirurgici o per gravi processi malformativi, per poi restituire il figlio alla coppia che lo ha “commissionato”.
Di tutt’altra natura e prospettiva è invece il dibattito scientifico ed etico sulle prospettive di salvaguardare e preservare la fertilità in casi fortemente a rischio per problematiche di ordine medico. Da più parti sono state auspicate azioni volte a organizzare una rete di servizi che possano fornire ad un numero crescente di utenti la possibilità di congelamento di materiale biologico (gameti , embrioni o tessuti gonadici) da essere disponibile in futuro per la riproduzione naturale o tramite tecniche di riproduzione assistita.
In questi ultimi tempi anche nel nostro Paese sono sorti alcuni Centri che preservano la fertilità di giovani donne affette da endometriosi allo stadio avanzato o candidate a ricevere dosi intensive di chemioterapici per terapie antitumorali, prelevando prima di iniziare dette terapie frammenti di tessuto ovarico e criopreservandoli bancati in condizioni ottimali, per essere poi ripresi e reimpiantati negli stessi soggetti e nella stessa sede del prelievo, al termine dei programmi terapeutici e dopo ottenuta la guarigione, consentendo così di andare incontro a gravidanze naturali, utilizzando lo stesso tessuto ovarico mantenuto giovane e nelle migliori condizioni di crioconservazione nelle apposite banche. Il metodo, ancorché sperimentale, ma discretamente standardizzato ha permesso di ottenere un certo numero di gravidanze. Si tratta di una metodica relativamente semplice: il prelievo può essere effettuato al momento della diagnosi delle suddette patologie, per via laparoscopica, quindi senza ricorrere ad ulteriori interventi invasivi e i frammenti di tessuto ovarico si possono immediatamente bancare e criopreservare.
Allora, perché non ricorrere a questo metodo tecnicamente di semplice attuazione, eticamente accettabile, che consente di mantenere intatta la fertilità, di utilizzare il tessuto ovarico giovane e dello stesso soggetto donatore e che diverrà ricevente in un tempo successivo alle terapie antitumorali, dopo avere ottenuto la guarigione (oggi sempre più realistica), per esaudire il desiderio di maternità? La stessa procedura si potrebbe applicare a quei casi nei quali l’attuale assetto socio economico impone alla coppia di rinviare la gravidanza, piuttosto che richiedere una donazione ovocitaria con possibili conseguenze sulla salute e sul benessere materno e della prole. Oggi l’assetto socio antropologico del nostro Paese è tale che le coppie tendono a rinviare sempre più la decisione di diventare genitori, dopo avere raggiunto obiettivi di stabilizzazione di carriera lavorativa, di completamento di curriculum di studi e di realizzazione dei traguardi di tranquillità socio economica. E come avviene in quei casi in cui la presenza di una patologia tumorale comporta l’impiego di terapie potenzialmente lesive del patrimonio gonadico della donna, e una parte del tessuto ovarico può essere sottratto all’effetto dei farmaci, conservato, mantenuto giovane e trapiantato nella stessa sede del prelievo a guarigione avvenuta, così in quelle circostanze in cui le vicende della vita portano a rinviare il momento della prima gravidanza a quella fascia d’età che coincide con il calo fisiologico della fertilità della donna, frammenti di ovaio prelevato in giovane età si potrebbero reimpiantare nella loro sede naturale, allo scopo di ottenere una gravidanza con l’ovaio omologo mantenuto giovane e assicurando così una procreazione naturale nell’ambito della coppia, non ricorrendo quindi a innaturali e potenzialmente rischiose intromissioni di gameti estranei ma sottraendo all’azione altrettanto lesiva del tempo quel tessuto ovarico destinato alla procreazione ben oltre i 35 anni.
Per concludere, la fecondazione eterologa scompagina l’unità e l’identità della coppia, espone la donna a potenziali rischi del suo sistema immunitario, se l’età della futura madre risulta particolarmente avanzata la espone con maggior frequenza al rischio di patologie gravidiche e comporta per il nascituro rischi di eventuali tare ereditarie (quest’ultimo rischio peraltro sarebbe ovviamente presente anche quando utilizzando una tecnica di conservazione di tessuto omologo, questa venga praticata in età della donna particolarmente avanzata) .

Ritengo quanto mai opportuno e per ragioni di onestà scientifica portare a conoscenza delle coppie e di chi ha il compito di legiferare le motivazioni su esposte, sovente taciute o mal presentate o, peggio ancora, riportate in modo volutamente incompleto.

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