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La divulgazione d’informazioni sull’attività professionale attraverso internet

di Aniello Merone

Abstract

The author, after describing the Italian and international regulatory framework on publicity and information spreading relating to the legal profession, wonders about the ways in which the use of Internet can condition (or conditions) a correct approach by the lawyer in the information spreading. The topic is also discussed in the light of the law of 31 December 2012, n. 247, on the “New regulations for the organization of the legal profession.” Sommario

  1. Il diritto dell’avvocato di dare informazioni.
  2. L’evoluzione della disciplina.
  3. Divulgazione d’informazioni attraverso internet.
  4. Le suggestioni della nuova legge professionale.

1. Il diritto dell’avvocato di dare informazioni. 

La divulgazione d’informazioni sulla propria attività professionale da parte dell’avvocato e la possibilità di riconoscere in capo al professionista il diritto di procedervi è tema che per essere opportunamente sviluppato deve essere ricondotto al più ampio contesto del marketing in ambito legale, inteso come studio descrittivo  del mercato  e analisi  della sua interazione  tanto con il professionista quanto con i cittadini a cui è rivolto il servizio legale [1]L’espressione individua molteplici attività organizzative e strategie promozionali, che possono essere adottate sia al fine di migliorare la performance economica del professionista sia con l’intento d’influenzare le scelte dei potenziali clienti per attrarli alla propria realtà professionale.  Attività quali l’analisi del mercato o l’autodiagnosi dello studio, nella loro veste di strumenti di marketing tesi a migliorare i risultati economici del professionista, non generano particolari problemi di carattere deontologico ma, al contrario, aiutano a comprendere quanto possa essere virtuoso l’investimento operato dall’avvocato sull’efficienza: se è indubbio che il professionista vi ricorra anche al fine di aumentare la propria clientela (ambizione di per sé lecita), è parimenti evidente come tale impegno possa tradursi in concreti ausili per il corretto adempimento degli obblighi deontologici, cui lo stesso è chiamato [2]. Il collegamento con il tema che qui ci occupa e l’insorgenza di un potenziale contrasto tra le attività di marketing e gli obblighi deontologici va, invece, individuato nella esternalizzazione sul mercato che il professionista intenda fare della propria attività professionale, essendo comunque immutabile il rispetto dovuto agli artt. 17 e 17-bis c.d.f. concernenti le informazioni e i mezzi di informazione consentiti (oltre che all’art. 18 a proposito dei rapporti con la stampa e all’art. 19 per quanto concerne il divieto di accaparramento di clientela). Il marketing, infatti, «si alimenta di un’adeguata informazione» [3] e da essa non può prescindere, ma è necessario garantire che la divulgazione verso l’esterno delle informazioni non trascenda in un’attività propriamente pubblicitaria ovvero, parafrasando l’art. 17, comma 5, « in ogni caso l’informazione non deve assumere i connotati della pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa » aspirando ad indicare le percentuali di cause vinte, sottolineare la fiducia già concessa da prestigiosi clienti o stabilire paragoni di qualsiasi tipo con altri studi. In tale contesto, è indubbio l’impatto delle nuove tecnologie informatiche, che hanno enormemente ampliato le possibilità di comunicazione informativa e di ricorso alla pubblicità per quanto concerne l’organizzazione e/o la qualità di qualunque realtà professionale, da un lato, favorendo l’accesso della clientela a dati ed indicazioni sui servizi che un certo legale è in grado di offrire [4] e, dall’altro lato, ampliando la visibilità di tutti i professionisti [5], anche di quelli più giovani o peggio posizionati sul mercato [6]. Tuttavia, anche (o meglio, soprattutto) in un contesto liquido ed immateriale quale quello della rete internet non si potrà prescindere dall’individuare delle regole e/o dei limiti alla naturale tensione del professionista a realizzare, attraverso la pubblicità, un «surrogato o un’integrazione della propria reputazione» [7], che lo aiuti ad espandere il suo network e ad innalzare il profilo professionale. Resta, infatti, immutata l’esigenza di tutela dei fruitori del servizio legale e, parallelamente, del pubblico interesse al corretto esercizio della professione forense.

2. L’evoluzione della disciplina.

Ancora oggi, sono pochi gli ordinamenti che consentono agli avvocati di farsi pubblicità con la stessa libertà di cui godono le imprese, laddove è maggiormente diffusa la previsione di limiti, più o meno stringenti, tesi a consentire la sola pubblicità informativa. Come noto la rilevanza pratica del tema si manifestò negli Stati Uniti già a partire dagli anni 60 [8], per imporsi definitivamente a seguito della nota decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, Jhon R. Bates v. State Bar of Arizona [9], del 1977. Con essa la Corte, accogliendo il ricorso dell’Avv. Bates [10], affermava il principio secondo cui, essendo il commercial speech, come tutte le forme di comunicazione, protetto dal primo emendamento alla Costituzione americana, a sua volta, posto a tutela della libertà di espressione (freedom of speech), le norme disciplinari che vietavano la pubblicità dovevano essere dichiarate incostituzionali, aprendo al ricorso alla pubblicità promozionale e commerciale [11]. Peraltro, l’attenzione che il tema ha trovato negli Stati Uniti, tanto dal punto di vista giurisprudenziale [12] quanto normativo, rappresenta un unicum, che si segnala anche per la celerità con cui la disciplina della materia ha trovato un equilibrio stabile tra le esigenze d’informazione, gli interessi commerciali e la tutela del pubblico. Infatti, se attraverso il Model Code [13], prima regolamentazione della pubblicità in termini espliciti, si decideva di optare per un approccio prudenziale, con specifica indicazione delle informazioni che potevano essere offerte all’esterno e  proibizione di tutto ciò che non era espressamente consentito, con le successive Model Rules [14] ogni forma di pubblicità trova una propria disciplina secondo precetti generali e l’indicazione di comportamenti modello, dovendosi sempre ritenere ammessa una pubblicità corretta nelle forme e nei contenuti e risultando vietata solo la pubblicità falsa e fuorviante [15]. In Europa i primi paesi a consentire apertamente il ricorso degli avvocati alla pubblicità furono l’Inghilterra [16], che pervenne a tale risultato attraverso un articolato processo di riforme normative sviluppatosi nel corso degli anni ottanta del secolo scorso [17], e la Germania, ove, invece, fu la Corte costituzionale ad intervenire, nel 1987, per dichiarare l’illegittimità costituzionale del divieto assoluto di pubblicità — ritenendolo incompatibile con la libertà professionale sancita dall’art. 12 della Costituzione tedesca [18] —, formalmente recepita dalla legge federale tedesca sulla professione di avvocato del 1994 [19]. Più lento il processo di riforma negli altri paesi europei, come ad esempio in Francia, se si considera che la legge sulla professione forense adottata nel 1990 [20] si limitava a consentire la diffusione al pubblico delle sole informazioni necessarie, rimettendo ai singoli Conseil des Barreaux l’adozione di un regolamento sulla pubblicità che risultasse conforme ai principi normativi generali [21].  Solo nel 1999, verrà introdotta una disciplina comune, grazie al Règlement intérieur harmonisé des barreaux de France [22], il cui art. 10 in materia di pubblicità introduce la distinzione tra pubblicità funzionale — sempre ammessa e destinata a far conoscere la professione di avvocato e gli ordini di appartenenza alla collettività — e pubblicità personale, mirante ad offrire al pubblico un’informazione specifica sul singolo professionista, ugualmente ammessa a condizione che sia veritiera, rispettosa del segreto professionale e in ogni caso realizzata salvaguardando la dignità del professionista [23]. Tuttavia, tale processo di riforma è, in quegli stessi anni, inesorabilmente sospinto dalla progressiva emersione delle norme a tutela della libera prestazione dei servizi [24] e dall’entrata in vigore delle direttive europee sul diritto di stabilimento [25], sul riconoscimento delle qualifiche professionali [26] e sulla liberalizzazione dei servizi professionali [27], che hanno indotto tutti i paesi europei a rivedere, tendenzialmente in maniera più permissiva, la propria disciplina interna in materia di pubblicità. D’altronde, lo stesso Code of conduct for the european lawyers, che nella prima versione approvata a Strasburgo nel 1988, salomonicamente consentiva di far pubblicità «ove questa non sia vietata», in seguito alla novella approvata nell’adunanza plenaria di Dublino del 6 dicembre 2002, ha modificato l’art. 2.6., rubricato personal publicity, espressamente autorizzando l’avvocato ad informare il pubblico sui servizi offerti anche attraverso la stampa, la radio, la televisione, le comunicazioni commerciali elettroniche e ogni altro mezzo a condizione che «the information is accurate and not misleading, and respectful of the obligation of confidentiality and other core values of the profession» [28]. Guardando al nostro ordinamento, l’esistenza di un diritto di dare informazioni sull’attività professionale può dirsi incontroverso, per molteplici ragioni: da un lato, la riconducibilità del diritto ai principi costituzionali di libera manifestazione del pensiero (art. 21, Cost.) e libertà di iniziativa economica (art. 41, Cost); dall’altro lato, l’ampio riconoscimento e la tutela del diritto alla concorrenza, intesa come libertà per tutti i fornitori di servizi nei rapporti con i cittadini, le cui restrizioni sono da considerare illegittime, se non sostenute da esigenze di pubblica tutela [29]; inoltre, la possibilità, espressamente prevista [30], per i prestatori di professioni regolamentate di avvalersi di comunicazioni commerciali [31]. Il principio della libertà d’informazione è stato formalmente accolto nel 1999, con la revisione del codice deontologico che ha modificato la rubrica e il testo dell’articolo 17 [32], passando dalla tradizionale enunciazione del «divieto di pubblicità» [33],alla regolamentazione del diritto a fornire «informazioni sull’esercizio professionale» [34] ed anche il testo attualmente in vigore, introdotto nel 2006 [35] e modificato nel 2007 [36], continua a far perno sulla distinzione tra pubblicità e informazione, nel senso che l’informazione riguarda tutto quanto attiene ai servizi professionali offerti ed obbedisce a un criterio conoscitivo, solo indirettamente collegato alla promozione, mentre, al contrario, la pubblicità ne è strumento [37]. In tale ottica, l’informazione lecita risulta sottoposta tanto ad un limite estrinseco, secondo cui l’informazione non può avere un contenuto ed una forma idonei a ledere l’affidamento riposto dalla collettività nella funzione e nel ruolo dell’avvocato mortificandone la percezione sociale (art. 17, comma 2), quanto ad un limite intrinseco, laddove è richiesto che l’informazione sia rispettosa dei principi di verità e correttezza e non possono essere rese pubbliche notizie riservate, o coperte dal segreto professionale (art. 17, comma 3). Inoltre l’informazione lecita deve « rispondere a criteri di trasparenza e veridicità » [38], nella misura in cui il messaggio che si veicola all’esterno deve essere riconoscibile come pubblicità, e quindi non essere occulto [39] né subliminale [40], e deve essere veridico, quindi verificabile e non ingannevole [41]. Per quanto concerne, invece, le modalità di divulgazione delle informazioni, la novella del gennaio 2006 ha aggiunto al testo del codice l’art. 17-bis, con l’esplicito obiettivo di disciplinare i “mezzi d’informazione”. Nella sua prima versione la norma optò per una disposizione molto restrittiva —  facendosi carico di offrire un elenco puntuale dei mezzi “consentiti” [42] e ponendo al bando tutti gli altri [43] — che non si mancò di definire di retroguardia [44] —  molto distante dagli esiti maturati in altre esperienze ove, già da tempo [45] si era pervenuti ad una generica enunciazione di segno opposto [46] —  e che fu rapidamente abbandonata. Con la modifica del gennaio 2007, infatti, l’art. 17-bis fu sostanzialmente riscritto, a cominciare dalla sua rubrica, che abbandona la rigida e tassativa indicazione dei mezzi consentiti per dare spazio ad una più ampia visuale, unicamente centrata sulle “modalità dell’informazione” [47], vale a dire il modo in cui l’informazione può attuarsi nel rispetto di valori fondanti la professione [48]. La disposizione tuttora vigente si compone di una doppia elencazione, affiancando ad alcune informazioni necessarie (art.17-bis, comma 1) [49], quale nucleo imprescindibile di dati atti a garantire la soglia minima di conoscenza informativa del cliente, per consentire l’instaurazione di un rapporto ispirato a trasparenza e chiarezza [50], ulteriori informazioni che l’avvocato ha semplicemente la facoltà (e non l’obbligo) d’indicare [51].

3. Divulgazione d’informazioni attraverso internet.

A fronte del tratteggiato quadro normativo è ora necessario accostarci ad uno specifico  mezzo di divulgazione dalle potenzialità esponenzialmente maggiori rispetto ai mezzi d’informazione tradizionali, quale è internet, e chiedersi, da un lato, se la descritta cornice possa dirsi sufficiente ad assorbire e contenere tutte le implicazioni che discendono dall’utilizzo del nuovo mezzo e, dall’altro lato, in che modo le potenzialità che esso esprime possono condizionare (o condizionano) il corretto approccio dell’avvocato nella divulgazione delle informazioni. L’attenzione dell’avvocatura sull’utilizzo di internet, e sulle molteplici implicazioni che accompagnano il ricorso a questa forma di comunicazione a distanza, ha preso corpo da tempo, sin dalla modifica del codice deontologico operata il 26 ottobre  2002, allorquando il novellato art. 17 ha inserito i «siti internet» tra i mezzi consentiti per la divulgazione delle informazioni [52]. La diffusione e il proliferare di siti web, home page, banners o pop up informativi e/o pubblicitari [53] ha da tempo sollevato il dibattito sulle regole di comportamento che gli avvocati debbono seguire in rete, non essendo immaginabile che le norme deontologiche e i canoni di decoro, dignità, riservatezza e segretezza che ispirano la professione, possano essere disattesi in questo diverso contesto. Il Consiglio Nazionale Forense, ha concentrato il proprio intervento su due profili, vale a dire quelli che maggiormente espongono l’avvocato a forme di pubblicità non consentita: da un lato, la liceità dell’attivazione del sito web da parte del professionista e le condizioni del suo utilizzo [54]; dall’altro lato, la liceità, o meno, dell’offerta di servizi per via telematica,  in particolare le c.d. consulenze on line. Il 3° co. dell’art. 17-bis conferma che l’avvocato può utilizzare esclusivamente i siti web con domini propri e direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato, o alla società di avvocati alla quale partecipa, previa comunicazione al Consiglio dell’ordine di appartenenza della forma e del contenuto in cui è espresso. Ne consegue che il contenuto del sito è rimesso alla potestà decisionale del professionista che deve poterne verificare, in ogni momento, la rispondenza ai principi deontologici e la presenza di tutti i dati obbligatoriamente previsti dal 1° co. dell’art. 17-bis, c.d.f. L’esigenza perseguita è di massima trasparenza e correttezza, pertanto, l’avvocato dovrà anche assicurare che le informazioni divulgate attraverso il sito siano veritiere ed aggiornate e che i dati minimi ed essenziali siano sempre disponibili. In questa stessa ottica, nel caso si utilizzino, sul sito web dell’avvocato, link o altri riferimenti (non necessariamente ipertestuali) a terzi, questi non dovranno essere offensivi per la professione forense o, comunque, incompatibili con i suoi principi informatori [55], dovendosi escludere anche la possibilità di ospitare link «promozionali» dell’altrui attività economica (ad es., il motore di ricerca, il sito di aste on line) pur se d’interesse per la professione (la casa editrice di pubblicazioni giuridiche, la testata giornalistica specializzata, etc…) Infine l’avvocato non potrà utilizzare gli spazi web forniti gratuitamente (c.d. hosting) da portali telematici se essi, come usualmente accade, pongano come condizione la presenza all’interno del sito di pubblicità (banners) ad altri siti o pop-up di alcun tipo. Quanto invece all’offerta di servizi attraverso internet, i cui vantaggi sono ampiamente enfatizzati [56], essa rappresenta una semplice dichiarazione di disponibilità del professionista ad essere contattato da nuovi clienti, per offrire loro la propria consulenza; pertanto, se operata nel rispetto dei principi di correttezza e di decoro professionale e con modalità che consentano di acquisire le informazioni richieste dalla disciplina sul commercio elettronico, senza tradursi in un accaparramento di clientela, essa rappresenta un mezzo in sé indifferente, come l’uso del telefono, del fax o l’invio di una brochure. In altre parole, a rendere illecita l’offerta, sotto il profilo disciplinare, è la presenza di affermazioni suggestive e/o celebrative della qualità della consulenza prestata, di richiami alle percentuali di vittoria conseguite in altre cause, di eventuali (e improvvide) garanzie di risultato, e ogni altra violazione di regole deontologiche, chiamate a presiedere alle corrette modalità di utilizzo di questa, come di ogni altra, forma di comunicazione professionale. Ad esempio, il rispetto dovuto all’art. 36, canone I, del c.d.f., costituisce argomento decisivo contro l’ammissibilità dell’offerta di prestazioni di consulenza gratuite a soggetti indeterminati ed indiscriminati, poiché il professionista, anche quando intrattiene una relazione professionale per via telematica [57], deve sempre avere cura di verificare l’identità del cliente [58] e rendere evidente quale sia la natura della consulenza legale prestata [59]. Proprio sul terreno (scivoloso) dell’offerta di servizi e violazione dell’art. 17-bis, 3° comma, si pone la delibera del Consiglio dell’Ordine di Firenze, dei primi giorni del gennaio 2012, con cui ha invitato gli iscritti a non pubblicizzare le loro prestazioni professionali tramite il noto sito Groupon , in cui vengono offerti voucher per servizi o merci proposte da altre società e/o soggetti partner [60]. La delibera originava dalla presenza di alcune offerte di servizi professionali [61] che, oltre ad apparire per modalità di presentazione e termini economici obiettivamente lesive sia del decoro e della dignità della professione sia del divieto, ex articolo 19 c.d.f., di acquisire nuova clientela tramite agenzie o procacciatori, per quanto qui di maggiore interesse, trovavano divulgazione attraverso siti web con domini evidentemente non riconducibili al professionista e sui quali egli non risulta avere alcun controllo. Peraltro, è interessante evidenziare come tale soluzione non possa dirsi scontata se è vero che in Germania, una fattispecie del tutto analoga, quale l’offerta di servizi legali su un sito di aste on-line, sia stata considerata lecita, dalla Corte Costituzionale tedesca, con sentenza del 29 febbraio 2008 [62]. Argomentando dal tenore del § 43-b [63] della legge professionale tedesca, che vieta l’attività pubblicitaria dell’avvocato solo se finalizzata ad ottenere un incarico professionale in relazione a una situazione specifica, profittando della concreta necessità per un determinato soggetto di rivolgersi a un avvocato, la Consulta germanica ha ritenuto che il fatto di mettere all’asta su internet i propri servizi legali non configura violazione delle norme professionali, proprio perché l’avvocato non si rivolge specificamente a una singola persona, che ha concretamente bisogno di un legale, ma alla collettività di tutti coloro che possono averne necessità. In altre parole, non si integra il tentativo di approfittare di una situazione di debolezza del cliente per acquisire il “singolo incarico”, a nulla rilevando le modalità di esternalizzazione dell’offerta [64]. Interpretazione questa che rilancia il tema dell’adeguatezza del dato normativo rispetto ad una materia che, per sua stessa natura, è sottoposta a continue sollecitazioni, individuando a più riprese nuovi scenari in cui l’avvocato è chiamato a tradurre in concreto canoni e principi deontologici. Non tarderà a porsi, infatti, l’esigenza di valutare il contegno professionale di quanti decideranno di divulgare informazioni attraverso i nuovi vettori, straordinariamente capillari ed invasivi, rappresentati dai social network quali Facebook, Myspace, Linkedin, etc…, che in altri ordinamenti ha già raggiunto l’attenzione degli organi disciplinari con valutazioni sorprendentemente restrittive [65]. Tali siti, è facile osservare, quando vengono utilizzati per pubblicare materiale (foto, commenti, etc…) sono in tutto e per tutto simili a qualsiasi altra pagina web o sito su cui si decida di scrivere e caricare delle informazioni e di renderle accessibili al pubblico on-line; qualora l’utente avvocato decida di creare un proprio “profilo” dando evidenza del ruolo professionale svolto ed, anzi, decida di avvalersi dell’account sul social network quale strumento esclusivo o preferenziale, come già avviene per molte realtà che offrono beni e/o servizi, per la divulgazione delle informazioni concernenti la propria attività professionale sono diversi i problemi deontologici che si possono scorgere. La principale peculiarità che caratterizza i social network è data dalla possibilità per il soggetto iscritto di indicare ed identificare le persone che potranno accedere alla propria pagina, dovendo l’iscritto sempre approvare (o vedere approvata) la richiesta di contatto proveniente da (o inviata a) soggetti terzi, i quali si ritroveranno indirettamente a condividere informazioni, veicolate dall’utente attraverso la possibilità d’impostare differenti livelli di privacy in ordine alle informazioni pubblicate. Se da un lato l’avvocato non ha mai la possibilità di controllare tutti i contenuti della propria pagina, poiché su di essa saranno pubblicati anche i contenuti provenienti dagli altri soggetti che hanno aderito alla richiesta di contatto, e che ben potrebbero non rispettare il decoro e la dignità della professione, dall’altro egli potrebbe sfruttare la capillarità del mezzo [66] per divulgare informazioni sulle proprie specializzazioni ovvero esperienze (e, nel caso, successi) professionali, che oltre ad essere non richieste e non verificabili da chi le riceve, facilmente potranno assumere modalità suggestive se non capziose. Infine, è evidente come la questione della pubblicità rappresenti solo una parte del più vasto problema connesso con la divulgazione d’informazioni tramite il web da parte dell’avvocato, laddove una prospettiva non meno importante concerne il rispetto delle norme sulla riservatezza e sul segreto professionale [67] ovvero sulla sicurezza e protezione dei dati [68]. Già il 25 novembre 2000 il Consiglio degli ordini forensi dell’Unione europea (CCBE) pubblicò un documento di significativa importanza, intitolato Communication electronique et Internet [69], che affronta e propone, senza disdegnare un approccio tecnico [70], regole di condotta concrete per l’uso degli strumenti telematici negli studi professionali, aderenti alle particolarità di Internet. Secondo il citato documento, nella sua versione aggiornata e modificata dal Consiglio forense europeo il 24 ottobre 2008 [71], l’avvocato deve fare un uso consapevole e responsabile delle nuove tecnologie attraverso l’osservanza delle norme, oltre che professionali, specifiche del contesto della comunicazione scritta, quali la disciplina sulla protezione dei dati personali e quella sul diritto d’autore. In tale ottica, il professionista è tenuto a porre in essere e a sviluppare una strategia di sicurezza diretta a contrastare le intercettazioni volontarie, le intrusioni, i virus e le attività di pirateria informatica, avendo sempre cura di non utilizzare — specie nelle comunicazioni di natura confidenziale — trasmissioni non protette, e nel caso di richiedere previamente e ottenere [72], anche per ragioni di trasparenza, l’espresso consenso del cliente. Inoltre, è richiamata anche in questa sede, con particolare enfasi, l’esigenza di verificare costantemente l’identità del cliente on line, a tutela della fiduciarietà del rapporto — ed in particolare quando il professionista si trovi a gestire on-line controversie transfrontaliere [73] — procedendo «aux mêmes vérifications et demander les mêmes renseignements que s’ils étaient dans le cadre de relations traditionnelles» — anche se non è detto, nè consigliato, come procedervi in concreto — sottolineando come l’utilizzo della e-mail possa agevolare, soprattutto in «certains domaines de la profession, tels que la préparation de testaments et/ou les divorces en ligne», l’integrarsi di condotte quali il furto d’identità e l’abuso d’influenza [74]. Anche sotto questo profilo, pertanto, risulta evidente come il ricorso allo strumento telematico imponga al professionista di relazionarsi in toto con le implicazioni proprie della divulgazione di informazioni senza che queste possano dirsi esaurite nella valutazione del solo momento di esternalizzazione (se del caso) pubblicitaria.

4. Nuova legge professionale e suggestioni per il futuro.

Se dall’excursus offerto è possibile osservare come, ancor oggi, nel codice deontologico forense il richiamo alla pubblicità sia presente solo in termini negativi [75], vale la pena domandarsi se e in che misura la legge 31 dicembre 2012, n. 247, recante la “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense” [76] consentirà di superare tale approccio. Sul punto, l’art. 10, comma 1, della l. 247/2012 offre un chiaro segno di rottura semantica, laddove qualifica come consentita la « pubblicità informativa » purché abbia ad oggetto la propria  attività professionale,  l’organizzazione  e  la struttura dello studio, ovvero le eventuali specializzazioni e titoli  scientifici e professionali posseduti. La scelta di parlare di pubblicità e non di mere informazioni, o meglio di individuare nella pubblicità il veicolo lecito per la divulgazione delle informazioni aventi ad oggetto la professione, non può essere considerata fortuita [77] e sembra lecito cogliervi la consapevolezza che l’avvocato, come ogni altro professionista, è chiamato a gestire in maniera diversa, rispetto ad un passato non certo remoto, i rapporti con il mercato e con la clientela (acquisita e da acquisire). In altre parole, in un contesto fortemente concorrenziale dove è continuo il moltiplicarsi delle nuove tecnologie che si pongono a servizio e/o a supporto tanto della professione quanto dell’informazione, diventa decisiva la possibilità per l’avvocato di poterne usufruire a pieno, non disdegnandone, ove presente, il carattere e le potenzialità promozionali. Pur tuttavia, il summenzionato approccio non sembra poter offrire una spinta destinata ad esaurirsi oltre i limiti di un perimetro definito; limiti, che al contrario, restano ben spiegati e noti. In tale ottica, il 2° comma dell’art. 10, l. 247/2012 è sollecito nel segnalare che: « La pubblicità e tutte le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico: debbono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere comparative con altri professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive ». Se è vero che saranno le pronunce dei vari consigli dell’ordine [78] e del CNF a meglio definire la portata precettiva del nuovo art. 10, la cui violazione costituisce illecito disciplinare, si può osservare come la norma sembri offrire una cornice definita in continuità e sulla scorta di principi e veti già presenti nel codice deontologico vigente [79], senza contare che ad essi, la stessa Corte di Cassazione ha spesso offerto il proprio avallo. Meglio, proprio le più recenti pronunce della Suprema Corte ci spingono a ricondurre le diverse voci del decalogo offerto dall’art. 10, secondo comma, al primario rispetto del decoro e della dignità professionali [80], riferimenti irrinunciabili anche in ipotesi di ricorso al mezzo pubblicitario, che se non conforme sarà sottoponibile a sanzione [81].

Note

[*] Il presente lavoro è svolto nell’ambito della ricerca “La regolamentazione giuridica delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) quale strumento di potenziamento delle società inclusive, innovative e sicure” finanziata dal Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Europea di Roma e dal MIUR (PRIN 2010-2011). Saggio destinato alla pubblicazione su Diritto dell’informazione e dell’informatica. [1] Ampliamente, sul tema, si veda, Parigi, Cos’è il marketing legale, in Diritto e Giustizia, 10 gennaio, 2009, p. 2; Stumpo, Marketing e qualità per gli studi legali, Torino, 2006. [2] Analogamente, Perfetti, Ordinamento e deontologia forensi, Milano, 2011, p. 196, il quale osserva come: «L’adempimento dell’obbligo di diligenza stabilito dall’art. 8 del codice deontologico forense è sicuramente facilitato da una informatizazzione dello studio che consenta in ogni momento il richiamo di date, scadenze, impegni. L’adempimento dell’obbligo di informazione nei confronti del cliente stabilito dall’art. 40 del medesimo codice è altrettanto sicuramente reso più semplice dalla gestione computerizzata delle notizie rilevanti relative al dossier; e così ancora per quanto attiene agli obblighi in materia di antiriciclaggio, o la tenuta di un efficiente archivio clienti anche ai fini della privacy» o ancora l’art. 25 che impone all’avvocato di consentire ai propri collaboratori di migliorare nella preparazione professionale. [3] Perfetti, Ordinamento e deontologia forensi, op. cit., p. 197. [4] In questo modo il cliente dovrebbe essere in grado di selezionare il professionista maggiormente adatto a prestare il servizio richiesto, se del caso anche procedendo ad un (autonomo) raffronto delle diverse offerte professionali. Tuttavia, tale obiettivo resta raggiungibile solo se tale funzione informativa sia svolta in maniera veritiera, altrimenti finirebbe per integrare facilmente condotte riconducibili all’accaparramento di clientela. [5] Cerri, Pubblicità e professione forense, in Rassegna forense, 2009, p. 223, osserva come secondo l’indagine 2007 della Commissione sulla Concorrenza dell’O.C.S.E., avente ad oggetto le restrizioni alla concorrenza nel settore legale [DAF/COMP/( 2007)39], a far maggior ricorso alla pubblicità sarebbero i legali con minore qualità. [6] Critici, rispetto alla possibilità di alterare per via pubblicitaria il regime concorrenziale fra avvocati, Colavitti, La pubblicità degli avvocati tra “diritto vivente” della giurisprudenza disciplinare e disciplina della concorrenza, in Rassegna forense, 2004, p. 706 ss.; Id., Pubblicità degli avvocati e principio di proporzionalità, in Rassegna forense, 2005, p. 1340, nota a Cass., sez. un., 23 marzo 2005, n. 6213, il quale insiste proprio sull’esigenza di trovare un bilanciamento tra diritto della concorrenza e pubblico interesse. Si veda anche, Danovi, Il punto sulla pubblicità degli avvocati, in Previdenza forense, 2006, p. 214. [7] Hazard-Dondi, Etiche della professione legale, Bologna, 2005, p. 203. [8] La prima decisione della Corte Suprema Federale risale al 1963, NAACP v. R.Y. Button, con la quale venne dichiarata l’incostituzionalità di uno statute dello Stato della Virginia che vietava qualsiasi forma di propaganda legata alla professione legale. Si veda, più approfonditamente, Berlinguer, La pubblicità dell’avvocato negli Stati Uniti: recenti sviluppi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, p. 1057, nota 1. [9] Corte Suprema Federale, 27 giugno 1977, in Foro It., 1978, V, c. 273 ss. [10] L’avv. Bates, titolare di una Legal Clinic – cioè di una associazione di avvocati che forniscono principalmente assistenza legale standardizzata per servizi quali divorzio o separazione consensuale, adozione consensuale, cambio di nome) – aveva pubblicato su un giornale locale, l’Arizona Republic un annuncio del seguente tenore: “Do you need a lawyer? Legal services at very reasonlable fees”, con a seguire le indicazioni dei prezzi per le varie attività previste. Il comitato di disciplina del Bar di Phoenix sospendeva l’avv. Bates dall’esercizio della professione, per violazione della norma disciplinare (disciplinary rule) che proibiva all’avvocato di fare pubblicità attraverso giornali, riviste, radio o televisione. L’avv. Bates ricorreva dapprima alla Corte Suprema dell’Arizona, che respingeva il ricorso, e poi alla Corte Suprema federale, la quale lo accoglieva. Si veda Berlinguer, La pubblicità dell’avvocato negli Stati Uniti: recenti sviluppi, op. cit., pp. 1058-1060; Morgan, Legal Ethics, Gilberts Law Summaries, 2005, p. 145; Danovi, Il Codice deontologico forense, Milano, 2006, pp. 313-314. [11] La Corte, distinguendo tra pubblicità informativa, tesa ad informare dell’esistenza di un servizio, e pubblicità promozionale, rivolta a promuoverne la qualità, ammise espressamente il ricorso alla seconda, qualificando l’informazione sul prezzo di un servizio come un’esigenza inderogabile, in un ottica di libero mercato, tanto per chi offre quanto per chi richiede il servizio. Ne consegue che chiunque ha la possibilità di pubblicizzare la propria attività professionale a scopo commerciale, a condizione che le notizie diffuse siano vere, fondate e non atte a produrre equivoci. [12] Come osserva Berlinguer, La pubblicità dell’avvocato negli Stati Uniti: recenti sviluppi, op. cit., p. 1060, l’orientamento della Corte «pur rimanendo sostanzialmente inalterato viene scandito, affinato, esplicitato attraverso varie pronunce riguardanti la pubblicità diretta, quella indiretta, la sollecitazione della clientela…in cui la Corte rigetta ogni generico divieto alla pubblicità ed afferma con sempre maggior forza la necessità di regolamentare la materia in modo preciso e dettagliato»; si vedano anche i numerosi richiami alle pronunce della Corte federale presenti in nota. [13] Model Code of Professional Responsibility, adottato dall’American Bar Association (ABA) nel 1969. [14] Model Rules of Professional Conduct, adottate dall’ABA nel 1983. [15] Giova evidenziare come le indicazioni offerte dell’ABA debbono essere recepite dalle diverse Bar Association operanti nei singoli Stati federali, essendo queste ultime ad avere potestà regolamentare sul territorio, in forza di legge delega o decreto giudiziario. [16] Intendendosi la giurisdizione separate di Inghilterra e Galles, e non anche quelle di Scozia e Irlanda del Nord. Come noto, infatti, il Regno Unito si distingue in tre giurisdizioni, ognuna delle quali ha un proprio sistema giuridico e riconosce distinte categorie di professionisti operanti in ambito legale (barrister e solicitor, in Irlanda del Nord, Inghilterra e Galles, advocate and solicitor, in Scozia). A sua volta, ogni categoria adotta un proprio codice di condotta, che si occupa di determinare le regole che disciplinano il ricorso alla pubblicità ad opera dei propri membri. [17] Tappe principali di questo percorso sono rappresentate dall’Administration of Justice Act del 1985, che sottrasse ai solicitors il monopolio sulle conveyancing — ad essi riservato fin dal 1804 — ed in risposta al quale la England and Wales Law Society annunciò la rimozione di tutte le tradizionali restrizioni per i solicitors in materia di pubblicità, con l’unica temporanea eccezione del ricorso al mezzo televisivo, anch’esso consentito a partire dal Solicitors Publicity Code del 1987. Si veda ampliamente, Hill, Publicity Rules of the Legal Professions within the United Kingdom, in Arizona Journal of International and Comparative Law, 2003, p. 323, sp. p. 335 ss; vedi anche Nitti, La professione forense in Inghilterra, in Berlinguer (a cura di), La professione forense: modelli a confronto, Milano, 2008, pp. 124-127. Attualmente in Inghilterra la pubblicità professionale è consentita sia ai barrister,  secondo la sect. 710 del Code of Conduct che rinvia alle regole del British Code of Advertising and Sales Promotion, sia ai solicitors, in forza del Chapter 8 del Solicitor’s Code of Conduct del 2011. [18] Corte Costituzionale Tedesca, 14 luglio 1987, in Neue Juristische Wochenschrift, 1998, p. 191 ss. La Corte riconoscendo il diritto costituzionalmente garantito dell’avvocato a farsi pubblicità ha radicalmente modificato l’approccio al tema, poiché, ora sono gli eventuali limiti posti dal legislatore al suo esercizio a dover essere oggetto del vaglio di legittimità, per comprendere se rispettano il dettato costituzionale. Si veda Sangiovanni, I limiti alla pubblicità dell’avvocato nell’ordinamento tedesco, in Rassegna Forense, 2010, I, p. 824. [19] Il § 43-b della Bundesrechtsanwaltsordnung consente il ricorso alla pubblicità, purché essa informi sull’attività professionale in modo oggettivo e non sia finalizzata al conferimento di un incarico specifico; si veda, Rohleder, In tema di pubblicità: sviluppi delta normativa in Germania, in Rassegna Forense, 2001,127 ss; Sangiovanni, I limiti alla pubblicità dell’avvocato nell’ordinamento tedesco, op. cit., p. 821 ss; Id., La professione forense in Germania, in Berlinguer (a cura di), La professione forense: modelli a confronto, Milano, 2008, pp. 81-83. [20] Loi No. 90-1259 del 31 dicembre 1990, Portant reforme de certaines professions judiciares et juridiques; si veda Sokol, Reforming the French Legal Profession, INT’L LAW, 26 (1992), p. 1025, sp. 1029-30 . [21] Come facilmente intuibile il Reglement Interieur di maggior impatto fu quello adottato dal barreaux de Paris nel 1992, il quale prevedeva la possibilità per l’avvocato di richiedere un espressa autorizzazione dell’attività pubblicitaria al consiglio dell’ordine di appartenenza, prima della sua pubblicazione e/o divulgazione. A titolo esemplificativo, il Barreau de Paris autorizzò nel 1999 lo studio legale Thieffry & Associates, a pubblicare un inserto pubblicitario, contenente l’indicazione del nome, indirizzo e sito web dello studio, su due importanti giornali nazionali quali Le Monde e Les Echos; cfr. Hill, Publicity Rules of the Legal Professions, op. cit., p. 353. [22] Décision a caractère normatif n. 1999-001, adottato dal Consiglio Nazionale forense francese nel marzo 1999. [23] Restano comunque diffusi i divieti in ambito pubblicitario, non potendo il professionista ricorrere alla sollecitazione al pubblico, alle comunicazioni a distanza e alla pubblicità comparativa, oltre che alla possibilità di menzionare i propri clienti. I successivi art. 10.2 e seguenti, peraltro,  offrono una dettagliatissima disciplina delle modalità attraverso cui le forme di pubblicità ammesse potranno realizzarsi, incluso l’art. 10.11 che si occupa espressamente della pubblicità via internet. Si veda, Toriello, La professione forense in Francia, in Berlinguer (a cura di), La professione forense: modelli a confronto, Milano, 2008, pp. 69-70. Sul punto si veda anche Tucci, L’esercizio della professione forense in forma associata nell’ordinamento francese, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2005, p. 101 ss. [24] Laddove, giova ricordare che la nozione di servizio comprende, ai sensi dell’art. 50 del Trattato CE, le attività commerciali, industriali, artigiane e professionali. [25] Direttiva 98/5/CE, recepita in Italia con il d.lgs. 96/2001, su cui si veda DanoviLa libertà di stabilimento e la società di avvocati, in Rassegna Forense, 2001, 2, p. 319 ss; più di recente, e in senso critico, Vitale, L’esercizio stabile in Europa della professione forense. Quali possibili effetti discriminatori?, in Riv. it. Dir. Pubblico Comunitario, 2007, p. 1289 ss [26] Il riferimento è innanzitutto alle Direttive 88/48/CEE e 92/51/CEE, recepite in Italia rispettivamente con il d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 115 e il d.lgs. 2 maggio 1994, n. 319, su cui si veda Fisichella, Il riconoscimento dei titoli professionali in Europa, Bari, 1996. Oggi la materia è disciplinata dalla direttiva 2005/36/CE su cui si veda Berlinguer, Il punto (e la linea) su servizi legali e diritto comunitario, in Contratto e impresa. Europa, 2007, p. 934 ss. [27] La c.d. Direttiva Bolkstein, 2006/123/CE, sulla liberalizzazione dei servizi del mercato interno, che all’art. 24, comma 2°, prevede che il messaggio relativo ai servizi professionali debba essere conforme alle regole professionali, cioè all’indipendenza, all’integrità e alla dignità della professione. Si veda Colavitti, La direttiva Bolkestein e la liberalizzazione dei servizi professionali, in Rassegna Forense, 2009, I, p. 481 ss, sp. 512-513. Peraltro già nel 1977, con la Direttiva 77/249/CEE il Consiglio aveva adottato un testo normativo teso a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione dei servizi da parte degli avvocati. [28] Così l’art. 2.6.1. del Code of conduct for the european lawyers, anche nella versione come da ultimo modificata nella sessione plenaria di Oporto del 19 maggio 2006 ed attualmente in vigore. Tale norma, in cui il riferimento alla pubblicità o alla mera informazione appare indistinto, si segnala anche per l’elencazione, non tassativa, dei mezzi consentiti, in cui appaiono menzionati il ricorso alla stampa, alla radio e alla televisione, che viceversa sono considerati strumenti illeciti di informazione per il codice deontologico italiano. Si veda sul tema, Perfetti, Il codice deontologico forense italiano ed il suo omologo europeo, in Studium iuris, 2008, p. 976 ss. [29] Sul punto, Cerri, Pubblicità e professione forense, op. cit., p. 224 osserva come «la nozione di pubblico interesse è più ampia della necessità di correggere i difetti del mercato, con la conseguente considerazione che le autorità che vigilano sulla concorrenza non sono sempre le preferibili, a valutare quale sia il pubblico interesse». [30] In tal senso, l’art. 10, d. lgs. 9 aprile 2003, n. 70 — di attuazione della direttiva 2000/31/CE — relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico, su cui si veda Tosi,  Prestatori di servizi della società dell’informazione, in La Rivista del Consiglio. Ordine degli Avvocati di Milano , 2004, p. 85 ss. [31] Per Danovi, Il Codice deontologico forense, op. cit., p. 317, un ulteriore richiamo può essere operato con riferimento all’art. 10 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, che espressamente declina la libertà di espressione come diritto di ogni individuo che «comprende la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o comunicare informazioni e idee senza che vi possa essere ingerenza delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere». [32] L’originaria versione dell’art. 17, introdotto nel 1997 e rubricato “Divieto di pubblicità“, recitava: «È vietata qualsiasi forma di pubblicità dell’attività professionale. I. È consentita l’indicazione, nei rapporti con i terzi (carta da lettera, rubriche professionali e telefoniche, repertori, banche dati forensi, anche a diffusione internazionale) di propri particolari rami di attività. II. È consentita l’informazione agli assistiti e ai colleghi sulla organizzazione dell’ufficio e sulla attività professionale svolta. III. È consentita l’indicazione del nome di un avvocato defunto, che abbia fatto parte dello studio, purché il professionista a suo tempo lo abbia espressamente previsto o abbia disposto per testamento in tal senso, ovvero vi sia consenso unanime dei suoi eredi. IV. In ogni caso l’attività di informazione consentita deve essere attuata in modo veritiero e nel rispetto dei doveri di dignità e decoro». A seguito della riforma del 1999, l’art. 17, comma 1, offriva la seguente disposizione: “È consentito all’avvocato dare informazioni sulla propria attività professionale, secondo correttezza e verità, nel rispetto della dignità e del decoro della professione e degli obblighi di segretezza e di riservatezza. [33] Prima della formulazione del codice non era mai sorto dubbio sul divieto per gli avvocati di fare ricorso alla pubblicità, laddove «il ripudio dei mezzi pubblicitari di ogni genere costituisce tradizione e vanto dell’avvocatura italiana che nel corso di decenni ha sempre confermato il rifiuto di forme di emulazione diverse da una dignitosa gara di meriti dimostrata attraverso le opere e lo studio», cfr. CNF, 23 aprile 1991, n. 56. Si veda anche Danovi, L’avvocato tra pubblicità ed informazione in  Foro It., 1994, IV, c. 26 ss. [34] Nella successiva novella del 26 ottobre 2002, rimasta invariata la rubrica dell’art. 17, fu inserita una dettagliata disciplina sulle attività e sui contenuti consentiti e vietati: dal punto di vista sostanziale, fu ampliato il diritto di dare informazioni, che in precedenza era limitato soltanto ai clienti e ai colleghi; dal punto di vista formale, si precisò il modo in cui l’informazione poteva essere fornita – dovendo essere corretta e veritiera, nel rispetto della dignità e del decoro della professione degli obblighi di segretezza e riservatezza – e i mezzi attraverso cui veicolarla. Su di essa, si veda Cappelli, Guida alla conoscenza dell’ordinamento e della deontologia forensi, Milano, 2005, p. 71 ss.; Colavitti, La pubblicità degli avvocati tra «diritto vivente» della giurisprudenza disciplinare e disciplina della concorrenza, in Rassegna Forense, 2004, p. 703 ss. Quanto al testo normativo, giova evidenziare come, dopo aver ribadito che:  «È consentito all’avvocato dare informazioni sulla propria attività professionale, secondo correttezza e verità, nel rispetto della dignità e del decoro della professione e degli obblighi di segretezza e riservatezza.», introduce il primo riferimento esplicito all’utilizzazione della rete internet e del sito web per l’offerta di consulenza da ritenersi consentita «…nel rispetto dei seguenti obblighi: indicazione dei dati anagrafici, Partita Iva e Consiglio dell’Ordine di appartenenza; impegno espressamente dichiarato al rispetto del codice deontologico, con la riproduzione del testo, ovvero con la precisazione dei modi o mezzi per consentirne il reperimento o la consultazione; indicazione della persona responsabile; specificazione degli estremi della eventuale polizza assicurativa, con copertura riferita anche alle prestazioni on-line e indicazione dei massimali; indicazione delle vigenti tariffe professionali per la determinazione dei corrispettivi». [35] Le modifiche approvate dal Consiglio Nazionale Forense il 27 gennaio 2006 furono, come noto,  sollecitate dalla decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) del 16 novembre 2005, che invitava gli ordini professionali a valorizzare la pubblicità quale strumento indispensabile per il superamento delle asimmetrie informative degli utenti, con riferimento ad elementi di fatto quali prezzi, caratteristiche e risultati dell’attività professionale. [36] Le modifiche approvate dal Consiglio Nazionale Forense il 18 gennaio 2007 furono una diretta conseguenze dall’entrata in vigore dell’art. 2, 1° co., lett. b) della legge 248/2006 (cd. legge Bersani) che ha abrogato «(…) le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono (…) il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall’ordine», imponendo ai codici deontologici il dovere di uniformarsi entro il 1 gennaio 2007, pena la nullità della norme in contrasto (art. 2, 3° co.). Si veda Sacchettini, Il Codice professionale si allinea al Dl Bersani ma resta lo stop sulla pubblicità comparativa, in Guida al Diritto, 2008, 1, pp. 106 – 109. [37] Secondo la definizione offerta dall’art. 2 del d.l. 25 gennaio 1992, n. 74, per pubblicità si deve intendere «qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di una attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti e obblighi su di essi oppure la prestazione di opere o di servizi». [38]  Inciso aggiunto all’art. 17, 2° comma, dalla delibera del 14 dicembre 2006. [39]  Sul punto, Cass., 6 maggio 2013, n. 1034, ha recentemente individuato un’ipotesi di pubblicità occulta degli avvocati, nell’intervista realizzata a mezzo stampa tesa a dissimulare un vero e proprio spot pubblicitario in favore di un professionista. Secondo la Suprema Corte tale pubblicità risulta svolta “con modalità lesive della dignità e del decoro della professione”, poiché l’intervista, lungi dal contenere riferimenti alle problematiche tecnico giuridiche sui rapporti commerciali e societari chiamati in causa dal titolo (Joint ventures e partnership all’estero), si dilunga, invece, sulla struttura, le competenze e le attività dello studio professionale, arricchita da numerosi contributi fotografici. [40]  Ex art. 5 del D.Lgs. 2 agosto 2007, n. 145, rubricato “Trasparenza della pubblicità”: «La pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale». [41]  Come ribadito dall’art. 17, comma 5, secondo cui «è proibita, in ogni caso, la pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa». Sul tenore del divieto si veda Danovi, Il Codice deontologico forense, op. cit., p. 319. [42]  Vale a dire, la carta da lettera, i biglietti da visita e le brochure informative; le targhe poste all’ingresso dell’immobile e presso la porta di accesso allo studio; gli annuari professionali, le rubriche telefoniche, le riviste e le pubblicazioni in materie giuridiche; i siti web con domini propri e direttamente riconducibili all’avvocato. La norma, così congegnata, era da leggere in combinato disposto con l’art. 17, 4° co., CDF  — laddove si prevede che «Quanto alla forma e alle modalità l’informazione deve rispettare la dignità e il decoro della professione» — con lo scopo di delimitarne la portata. Cfr., Ordinamento e deontologia forensi, op. cit., p. 184. [43]  Non solo il testo originario dell’articolo consentiva di utilizzare «esclusivamente» i mezzi indicati ma dal testo dell’art. 17 spariva, rispetto alla versione dettata nel 2002, l’ elencazione dei comportamenti vietati. [44] Critiche furono espresse anche da Danovi, Il Codice deontologico forense, op. cit., p. 330, che osservava come tale formulazione si limitasse «a ripercorrere gli schemi precedenti, ponendo addirittura limitazioni non giustificate». [45]  Si è già detto come, nella esperienza americana si sia rapidamente passati dal Model Code, in cui era previsto un elenco tassativo di 26 generi di informazione che un avvocato poteva legittimamente diffondere al pubblico (e tutto ciò che non era consentito era vietato), nelle alle Model Rules, secondo cui tutto ciò che non è vietato deve ritenersi consentito, e si proibiscono soltanto le comunicazioni false o ingannevoli. [46]  In Germania, la Corte costituzionale, 12 dicembre 2007, in Neue Juristische Wochenschrift, 2008, p. 838 ss., ha evidenziato come l’avvocato sia libero di scegliere i mezzi più appropriati per effettuare la propria attività pubblicitaria. La sentenza riveste particolare interesse per diversi motivi, tra cui, l’espressa menzione che la Corte riserva alla possibilità per l’avvocato di avvalersi di internet, quale moderno strumento per farsi conoscere nei confronti del pubblico. [47] Come correttamente osservato da Perfetti, Ordinamento e deontologia forensi, op. cit., p. 184, tale cambio di prospettiva, ha prodotto anche una diversa valorizzazione della norma dell’art. 17, 4° co., che, attraverso il richiamo al rispetto della «dignità e il decoro della professione» svolge ora il ruolo di clausola generale, a cui i diversi Consigli dell’Ordine devono guardare per stabilire quali mezzi e/o modalità di divulgazione delle informazioni possono ritenersi legittimi. [48] Una minima e ulteriore e modifica, approvata dal Consiglio nazionale forense con delibera del 12 giugno 2008, è intervenuta sul comma 2 dell’articolo, stabilendo che la previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine,  necessaria per l’utilizzazione di siti web con domini propri e direttamente riconducibili a sé, debba essere «tempestiva». [49] Il riferimento è alla denominazione dello studio con l’indicazione dei professionisti che lo compongono qualora l’esercizio della professione sia svolto in forma associata o societaria; il Consiglio dell’ordine presso cui è iscritto ogni componente dello studio; la sede principale di quest’ultimo, le eventuali sedi secondarie ed i recapiti, con indirizzi, numeri di telefono, fax, e-mail, sito web (se attivato); infine, il titolo professionale che permette all’avvocato straniero l’esercizio in Italia, o all’avvocato italiano quello all’estero. [50] Scelta che si pone, peraltro, in coincidenza con le disposizioni contenute nella Direttiva Servizi 2006/123/CE che all’art. 22 fa carico agli Stati membri di prevedere che anche gli iscritti in albi professionali facciano conoscere al pubblico notizie essenziali sul fornitore del servizio. Si veda Colavitti, La direttiva Bolkestein e la liberalizzazione dei servizi professionali, in Rassegna Forense, 2009, I, p. 481 ss, sp. 516. [51] Si contemplano: i titoli accademici; i diplomi di specializzazione conseguiti presso gli istituti universitari; l’abilitazione a esercitare avanti alle giurisdizioni superiori; i settori di esercizio dell’attività professionale e, nell’ambito di questi, eventuali materie di attività prevalente; le lingue conosciute; il logo dello studio; gli estremi della polizza assicurativa per la responsabilità professionale; l’eventuale certificazione di qualità dello studio (purché abbia depositato presso il Consiglio dell’Ordine il giustificativo della certificazione in corso di validità e l’indicazione completa del certificatore e del campo di applicazione della certificazione). [52]  Danovi, Il Codice deontologico forense, op. cit., p. 332 [53] Poto, Note sui rapporti tra internet e deontologia forense, in Diritto e formazione, 2006, p. 116, osserva come «l’adozione di internet e degli strumenti telematici ha dato vita al primo, e finora unico, esempio di ricorso generalizzato a strumenti di comunicazione di massa da parte della categoria forense». [54] Già il Consiglio dell’Ordine di Milano si era espresso, con un parere del 20 febbraio 1997, per l’ammissibilità della presenza in rete di uno studio professionale e, con successivo parere del 2  ottobre 2000, aveva stabilito alcune regole di comportamento da seguire in rete: in particolare, il divieto d’indicare i nomi dei clienti, neppure in caso di loro consenso, e il divieto di attribuirsi specializzazioni, diverse da quelle derivanti da titoli di studio o di carriera accademica. [55] È evidente che sul sito di un avvocato o comunque a costui riferibile, non potrà essere tollerato l’inserimento di un collegamento ipertestuale ad un sito web avente contenuti pornografici, offensivi, razzisti. [56] È diffusa l’opinione secondo cui la consulenza legale on-line offrirebbe la possibilità di raggiungere un più ampio numero di clienti, ridurre i costi di struttura e godere di un orario di lavoro più flessibile, oltre che snellire e razionalizzare le procedure lavorative. [57] Poto, Note sui rapporti tra internet e deontologia forense, op. cit., p. 119, osserva come il riferimento alla consulenza on line sia inteso in senso molto lato, laddove, il significato esatto dovrebbe essere «di comunicazione “dal vivo”, di due interlocutori che si parlano nella contestualità di una identica dimensione temporale; mentre per lo più, con consulenza on line si intende, più banalmente, alludere all’uso della posta elettronica o alla messa a disposizione di informazioni per via telematica». [58] Nella misura in cui «L’avvocato, prima di accettare l’incarico, deve accertare l’identità del cliente e dell’eventuale suo rappresentante», non sembra sufficiente che a tal uopo il cliente si firmi con un nome e un cognome utilizzando un account mail non protetto. Si veda anche, più avanti, il richiamo alla Communication electronique et Internet del Consiglio degli ordini forensi dell’Unione europea (CCBE). [59] Anche al fine di prevenire ogni possibile equivoco presso i terzi e scongiurare successive rivendicazioni per pareri poco accurati. [60] Secondo l’art. 1 delle “Condizioni Generali” del servizio Groupon «…Emittenti del voucher e debitori della fornitura dei servizi o delle merci specificati sui voucher sono esclusivamente i partner ivi indicati, che erogano tali prestazioni in base alle loro condizioni generali di vendita. La stessa Groupon non è debitrice dell’erogazione dei servizi o la consegna delle merci indicate, bensì deve solamente far sì che il voucher garantisca al cliente finale il diritto all’erogazione della prestazione da parte del partner». [61] Ci si riferisce, in particolare, all’offerta di uno studio di infortunistica, operante a Pistoia, che tramite Groupon,  proponeva ai clienti l’acquisto di un voucher che dava diritto ad «una trattazione di un procedimento stragiudiziale senza ricorrere alle vie legali a 39 euro invece di 500 oppure due procedimenti a 69 euro invece di mille». [62] Corte costituzionale tedesca, 29 febbraio 2008, in Wettbewerb in Recht und Praxis, 2008, p. 492 ss. [63] Vedi nota 45. [64] Più approfonditamente si veda, Sangiovanni, I limiti alla pubblicità dell’avvocato nell’ordinamento tedesco, op. cit., p. 828-829. [65]  Il riferimento è, in particolare al parere del Comitato Consultivo per l’Etica Giudiziaria presso la Corte Suprema dello Stato della Florida, del 17 novembre 2009, n. 20, pubblicato su Diritto dell’informazione e dell’informatica, 2010, p. 498 ss., con traduzione e commento di Sammarco-Guidobadi, L’amicizia tra giudice e avvocato nei social network. Come chiarito dagli autori, il Comitato Consultivo per l’Etica Giudiziaria, organo di consultazione istituito a supporto delle Corti Statali, è incaricato di rendere pareri in merito alla più corretta interpretazione ed applicazione del Codice di Condotta Giudiziaria adottato dallo Stato della Florida, in relazione  a circostanze specifiche che hanno a che fare con giudici e con candidati alla carica di giudice. Nel summenzionato parere, che non ha un valore vincolante né per la parte richiedente, né per la Commissione Disciplinare, né per la magistratura in generale, allorquando un giudice identifichi tra i suoi amici, sulla sua pagina personale di un social network, un avvocato abilitato a patrocinare dinanzi a lui, di modo che tutti coloro che accedano al suo profilo personale possano liberamente fruire dell’informazione, egli pone in essere uno condotta deontologicamente scorretta e illegittima, in quanto idonea a far sorgere nei soggetti terzi dubbi ragionevoli circa la sua imparzialità nell’esercizio delle funzioni, a causa della plausibili esistenza di un rapporto privilegiato con un potenziale interlocutore  portatore di interessi di parte nell’ambito dei procedimenti a lui devoluti. [66] Anche all’utilizzatore più indolente e pigro, sarà capitato di ricevere richieste di “amicizia” o per “entrare a far parte della rete professionale” di persona incontrate per la prima volta, poche ore prima. [67] Si pensi ad una comunicazione effettuata per posta elettronica, che ha una specifica invasività nella sfera privata accompagnata ad una evidente debolezza dei sistemi di protezione della riservatezza, e che pone l’avvocato di fronte all’esigenza di assicurarne, comunque, la segretezza e la riservatezza previste dall’art. 9 c.d.f., obbligandolo a non utilizzare trasmissioni non protette (ossia, non cifrate) senza espresso consenso del cliente, previamente reso edotto della natura confidenziale delle informazioni scambiate con il proprio legale. [68] L’avvocato è tenuto ad un uso consapevole e responsabile delle nuove tecnologie, che dovrebbero indurlo a sviluppare una strategia di sicurezza per la salvaguardia dei dati trattati, difendendoli da intercettazioni deliberate, attività di pirateria informatica, virus e gli altri software insidiosi. [69] Consultabile su http://www.ccbe.eu/fileadmin/user_upload/NTCdocument/e_ com_frpdf2_1183721758.pdf [70] Si vedano le ultime due sezioni che dedicano amplissimo spazio alle modalità di archiviazione dei documenti e delle e-mail ed alla gestione delle informazioni aggiuntive e “nascoste” presenti nei file e documenti elettronici. [71] Si veda http://www.ccbe.eu/fileadmin/user_upload/NTCdocument/ FR_CCBE_ Lignes_ dir__2_1231836053.pdf . Il testo si presenta diviso in una serie di sezioni tematiche, per ognuna delle quali vengono enunciati dei principi di condotta e formulati dei consigli da intendersi come best practies. [72] La Sezione II del documento in commento, rubricata “Correspondance entre l’avocat et son client” recita al § 1.: « A cette fin, il est recommandé aux avocats de faire usage des moyens de signature électronique raisonnablement à leur disposition pour garantir l’intégrité et l’imputabilité de leurs communications électroniques. Bien que les communications électroniques soient protégées techniquement et légalement contre les interceptions par des tiers, leur confidentialité peut être mise en péril de diverses manières. Les avocats se doivent dès lors d’apprécier les risques encourus par leur correspondance électronique, en particulier lors de l’utilisation de services de messagerie électronique, de messagerie instantanée ou d’appareils mobiles, et de prendre les dispositions appropriées, telles que le recours à des techniques de cryptage en fonction des cas, et à informer correctement leurs clients et correspondants des risques encourus par la correspondance électronique. Les avocats ne devraient en aucun cas s’abstenir de faire usage des moyens de cryptage raisonnablement à leur disposition chaque fois que leur client ou correspondant en fait la demande.» [73] Giova evidenziare come il documento accoglie il criterio della territorialità dell’ordinamento deontologico (già dettato dall’art. 4 del c.d.f.), con la raccomandazione di concordare le norme applicabili se il cliente risieda in un paese al di fuori dell’Unione europea. Sul tema, si veda Vaglio, Deontologia, internet e principio di territorialità, in Rassegna forense, 2005, p. 99 ss. [74] Si veda la sezione V, rubricata “Principes d’optimalisation de l’utilisation des communications électroniques”, paragrafo 1. Sul tema, come noto, il già richiamato canone I dell’art. 36, c.d.f., su cui si rinvia alla nota 58. [75] Oltre al citato art. 17, comma 5, si veda anche l’art. 17-bis ultimo comma, ove si afferma che «Il sito non può contenere riferimenti commerciali e/o pubblicitari mediante l’indicazione diretta o tramite banner o pop-up di alcun tipo». [76] Pubblicata in G.U. n.15 del 18 gennaio 2013 e in vigore dal 2 febbraio 2013, necessita ad oggi di numerosi provvedimenti attuativi che rendano pienamente operative le norme introdotte. [77] Vale richiamare in questa sede l’osservazione operata da Sangiovanni, I limiti alla pubblicità dell’avvocato nell’ordinamento tedesco, op. cit., p. 821, a proposito del § 43-b della legge professionale tedesca, disposizione-cardine in materia di pubblicità dell’avvocato, che recita «la pubblicità è consentita all’avvocato solo nella misura in cui essa informa sull’attività professionale in modo oggettivo, sia nella forma sia nel contenuto, e non è indirizzata al conferimento di un incarico in un caso singolo». Come sottolinea l’Auotre, l’utilizzo dell’espressione “pubblicità” (Werbung)  non è irrilevante poiché essa «non va confusa con l’attività meramente informativa. La pubblicità è sì informazione, ma finalizzata a ottenere incarichi professionali». [78] Sull’ampliamento dei poteri degli ordini operato attraverso la riforma, si veda il commento critico al testo del d.d.l. di riforma (riferibile anche all’articolato del testo di legge definitivo) di Scarselli, Il controllo in Cassazione del disciplinare forense (con postilla sul d.d.l. di riforma della professione), nota a Cass. 26 ottobre-18 novembre 2010, n. 23287, in Foro it., 2011,__ c. 452 e 453. [79] Quanto al divieto di pubblicità ingannevole e comparativa — che il codice deontologico e legge forense non distinguono ne definiscono, limitandosi a vietarle —  giova richiamare, oltre alle norme del codice del consumo (artt. da 19 a 32) atte a tutelare «i soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale, o professionale, i consumatori ed in genere gli interessi del pubblico», le norme del d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145 (di attuazione all’art. 14 della Direttiva 2005/29/CE, che modifica la Direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole) che ha invece lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa. Quest’ultima disciplina, infatti, non legittima il ricorso alla pubblicità comparativa anche per gli avvocati, che senza dubbio vanno annoverati tra i professionisti, poiché tra le condizioni essenziali che essa pone, la prima e più importante è proprio il confronto oggettivo di «una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili, rappresentative» (art. 4, 1° co., lett. e). Essendo l’esercizio della professione forense e dei servizi legali opere e prodotti dell’intelletto resta immutata, ed immutabile, l’oggettiva constatazione di non comparabilità di due distinte prestazioni, per quanto simili o affini possano sembrare. [80] Si veda Cass., Sez. Un., 13 gennaio 2006, n. 486, in in Foro it., 2006, I, c. 1421; Cass., Sez. Un., 23 marzo 2005, n. 6213, in Rassegna forense, 2005, p. 1340, con nota di Colavitti, Pubblicità degli avvocati e principio di proporzionalità, cit.; Cass., Sez. Un., 10 dicembre 2003, n. 18838, in Giur. it, 2004, p. 2315. [81] Si veda Cass., Sez. Un., 18 novembre 2010, n. 23287, notissimo caso, su cui la Corte di legittimità ha avuto modo di intervenire emettendo decisione confermativa di quella assunta dal C.N.F. — che a sua volta confermava la pronuncia del C.d.O. di Brescia — di irrogare sanzione disciplinare ai sensi dell’art. 38, 1° co., c.d.f. in confronto di due professionisti, i quali erano ricorsi all’uso dell’acronimo A.L.T. (Assistenza Legale per Tutti), al fine di rendere pubblicità all’apertura di un ufficio “su strada”, contrassegnato dall’insegna A.L.T. e dall’indicazione, all’ingresso, della gratuità della prima consulenza. Scarica il contributo [Pdf] Scarica il quaderno Anno III – Numero 3 – Luglio/Settembre 2013 [pdf]

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