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Gli enti non-profit nello Stato, nella Società Civile e nel Mercato. Dal liberismo al liberalismo sociale

di Vincenzo Lino Sommario:

  1. Introduzione.
  2. Stato, Mercato e Società Civile: il ruolo degli enti non-profit. Dal liberalismo economico al liberalismo del Terzo Settore.
  3. Nozione di ente non-profit in senso ampio. Alcune riflessioni sulla riforma degli enti del libro I del codice civile.
  4. Conclusioni.

1. Introduzione

Il fenomeno del non-profit suscita l’interesse di molti per molteplici ragioni. In primo luogo, dal punto di vista politico, si ritiene possa concorrere e, talvolta, supplire a talune funzioni tipicamente statuali in materia di welfare, in ragione della sentita inadeguatezza delle politiche sociali al soddisfacimento dei bisogni della collettività. Sul piano economico, il Terzo Settore, in forte crescita anche in termini occupazionali, rappresenta il “grimaldello” per la costruzione di un umanesimo della economia, il cui fine è l’uomo e non il profitto. Nell’evidenziare talune ragioni per le quali è richiesta da più parti un intervento riformatore del legislatore nel Terzo Settore, il presente lavoro mira a sottolineare il ruolo strategico degli enti non lucrativi nella Società Civile, nello Stato e nel Mercato, quali concorrenti e non meri supplenti dello Stato nel perseguimento dei bisogni di interesse generale.

2. Stato, Mercato e Società Civile: il ruolo degli enti non-profit. Dal liberalismo economico al liberalismo del Terzo Settore.  

Storicamente il Terzo Settore è stato concepito dai più come qualcosa di sottordinato allo Stato ed al Mercato; sulla sua identificazione e legittimazione rispetto agli altri due settori citati si è sempre discusso. Si ricordano, a tal riguardo, le impostazioni di Weisbord e di Hansmann nelle cui elaborazioni teoretiche la legittimazione degli enti non-profit discende esclusivamente dal fallimento dello Stato e del Mercato, che non sono in grado di rispondere ai bisogni del cittadino e del consumatore. Non mancano, poi, impostazioni teoriche, secondo cui si nega la esistenza stessa del Terzo Settore, la cui cittadinanza si potrebbe al più ammettere muovendo da una impostazione ermeneutica di tipo negativa, in forza della quale sarebbe Terzo Settore ciò che non rientra nella sfera statuale ed in quella economica.  Per tale impostazione, di tipo statico, il Terzo Settore e gli enti non-profit non vivrebbero momenti di interconnessione né con lo Stato né con il Mercato, ma sarebbero relegati in una area di mera residualità. I bisogni della collettività, infatti, vengono perseguiti direttamente dallo Stato con azioni specifiche in favore della Società Civile e del Mercato; si pensi all’attuazione ed al sistema di finanziamento delle politiche dirette di welfare, nonché alle forme di intervento diretto dello Stato nel mercato per colmare aree di inefficienza e di ingiustizia sociale. L’intervento diretto dello Stato in economia è occasionato dalla circostanza che il Mercato nel conseguimento del proprio punto di equilibrio (Pareto-efficiente) non è in grado di soddisfare i bisogni di tutti. Tali inefficienze si riscontrano, ad esempio, nel caso dei beni pubblici, qualificati nella letteratura economica come non-rivali e non-escludibili. A fronte di ciò, tuttavia, il passaggio da un mercato meramente interno ad un mercato integrato, la cui sfera di azione va ben oltre i singoli confini nazionali dello Stato, in ragione di un crescente processo di globalizzazione, ha segnato ineluttabilmente la fine dell’epoca liberale, per la manifesta inadeguatezza del potere pubblico ad agire oltre i propri limiti territoriali, giustificando l’approdo ad una impostazione liberalista, secondo cui il ruolo del potere pubblico non può che essere quello di fissare le regole del gioco e determinare i relativi controlli, senza alcuna ingerenza diretta. Il progressivo ritirarsi della mano pubblica dal Mercato e la inadeguatezza dei sistemi di welfare, controbilanciati dalla dirompente presenza degli enti non-profit nel sistema paese, impongono una riflessione maggiore sul ruolo degli stessi, quali possibili depositari e attori delle finalità di interesse generale, tradizionalmente perseguite dallo Stato, in maniera esclusiva. Nello stesso senso sarebbe necessario che al liberalismo economico faccia da pendant, sul piano sociale, un liberalismo sociale, in forza del quale sono gli enti non-profit a sostenere lo stato di benessere sociale di un Paese. Non si tratta semplicemente di poter ragionare sulla possibilità di delegare al Terzo Settore le politiche di welfare né di consentire che la solidarietà degli individui si esprima semplicemente come appendice delle citate politiche, quanto piuttosto di legittimare ed incentivare con un appropriato intervento normativo, un settore in forte crescita, che, conformemente ai principi di sussidiarietà orizzontale, va ben oltre la mera solidarietà, anzi si propone come tessuto connettivo di una società in evoluzione, in cui il rapporto tra la comunità civile e lo Stato non è in relazione di mera alterità. Si pensi all’importante ruolo che svolgono le cooperative, ma anche alla azione quotidianamente intrapresa da certi enti benefici in favore dei settori di interesse generale, quali la promozione di diritti di soggetti svantaggiati, di tutela del patrimonio artistico ed ambientale del paese ovvero ancora la erogazione di servizi assistenziali e socio-sanitari. La crisi economica iniziata nel 2007 negli Stati Uniti è divenuta in breve tempo una crisi globale ed ha stimolato la necessità di una nuova e approfondita riflessione sul senso della economia e dei suoi fini, tra l’altro, in considerazione della fluida trasmigrazione degli effetti negativi dalla finanza all’economia reale sino alla società civile. La mancanza di adeguate regole a livello globale, atte ad impedire l’effetto domino della crisi, ha reso chiara l’idea che l’economia non può essere svincolata dal diritto (rectius dalle precise scelte del legislatore nel perseguimento dei propri fini di interesse generale). Per molto tempo, diritto ed economia non hanno comunicato tra loro, anzi, per la verità, il diritto si è limitato a svolgere un ruolo succedaneo di fissazione delle regole solo dopo il verificarsi di accadimenti traumatici nel mercato, che ha dimostrato (si ricordi il caso Parmalat) di essere chiuso in sé e lontano dalle esigenze della società civile. La richiamata crisi, a fronte della parcellizzata e tardiva risposta delle politiche statuali, ha denunziato l’incapacità del mercato a soddisfare autonomamente i bisogni della collettività, nonché dello Stato ad arginare gli effetti di quella crisi, favorendo lo sviluppo di una nuova libera iniziativa economica di tipo solidale all’interno del mercato. Il modello di mercato, improntato esclusivamente sull’utilitarismo di impresa ed su un sistema economico indipendente dalla società civile, non sembra più attuale in ragione di un revirement culturale, tuttora in fieri, che contrappone al “profitto (in sé)” ed all’ ”interesse personale”, valori quali la“cooperazione” e la “sussidiarietà”, in considerazione dei quali i costi umani non possono essere considerati dal mercato come una mera esternalità; i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani, importanti, se si considera il visibile impatto che la crisi globale ha avuto sui fallimenti delle imprese e sul lavoro. Da qui, la sentita e necessaria tendenza a ricorrere ad un nuovo rapporto tra Stato-Mercato-Società Civile onde approcciare ad un sistema in cui il modello economico, nel rispetto della concorrenza, non sia indifferente ai costi sociali ed in cui possa coesistere un dialogo tra la Società Civile e il Mercato. Ciò richiede un nuovo rapporto tra la politica (delle scelte), l’economia (delle azioni) ed il diritto (delle regole), nonché la necessità di rivisitare il ruolo e le responsabilità dell’agente economico for profit, la cui condotta non può non essere socialmente e civilmente responsabile. Al fine di costruire un’economia che assicuri adeguate condizioni di vita e che non contrasti con la dignità umana (art. 41 Cost.),  gli attuali sostenitori di una economia sociale di mercato, anche riprendendo il manifesto della Scuola di Friburgo, auspicano un nuovo rapporto Stato-Mercato, in forza del quale il primo fissi le “regole” del secondo, nel rispetto della libera iniziativa economica e della sua utilità sociale, che, per i cattolici, si traduce nella rilevanza della dimensione antropologica. In particolare, se è stabilito l’ordine, lo Stato deve provvedere al “mantenimento preciso delle regole di gioco della concorrenza di prestazioni”. Le singole <<mosse di gioco>> (nel quadro delle regole del gioco) rimangono però rimesse al libero agire dell’uomo. In questo modo deve essere garantito che i risultati del gioco di mercato corrispondano il più possibile agli scopi ed agli intenti degli individui interessati”.  Difatti, il mercato, lasciato al solo principio di equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Il mercato, nella prospettiva dell’economia civile, lungi dallo scomparire o dall’essere demonizzato, è interpretato come processo dinamico di reciproca conoscenza, un processo catallattico – ossia il processo mediante il quale da nemico si diventa amico e da estraneo si diventa parte di una comunità – rappresentato dall’insieme delle relazioni tra soggetti liberi e responsabili, e non uno spazio da occupare, un luogo da conquistare. Eppure, un sistema Mercato-Stato orientato ad una funzione di utilità sociale non può trascurare la società civile ed i suoi componenti, i quali non sono solo il termine ultimo di riferimento delle loro azioni, come consumatori e cittadini, ma divengono parte attiva del sistema, in una ottica di solidarietà e di sussidiarietà. Il <<benessere>> della collettività non può essere preoccupazione solo dello Stato, ma deve essere cura dei singoli cittadini, sia uti singuli, sia in forma organizzata! Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà (art. 118 u.c. Cost.). Da qui, gli enti non-profit, quali forme collettive organizzate (meta-individuali), non hanno un ruolo residuale rispetto al primo settore (Stato) ed al secondo settore (Mercato), nel senso di supplire meramente ai fallimenti del primo e del secondo nella offerta di beni (alla collettività); essi sono il motore materiale e immateriale dell’organizzazione, l’opportunità per introdurre nel mercato il principio di reciprocità. Ciò significa, secondo Zamagni, che le imprese devono trovare i modi di dialogo argomentativo con i governi e la società civile organizzata secondo quel canone di governance introdotto con la riforma del titolo V della Costituzione, noto come sussidiarietà orizzontale, cui sono chiamati tutti i componenti della comunità, ivi comprese le persone giuridiche, che, pur perseguendo le logiche del profitto in sé, dovranno conformarsi ad un principio di responsabilità sociale. In questa direzione, va, ad esempio, la riconosciuta responsabilità amministrativa degli enti (D. Lgs. 231/2001), in forza della quale l’impresa è chiamata a rispondere in proprio per condotte poste in essere contra legem dai propri esponenti in suo favore.  Un’impresa non è solo tesa al perseguimento del profitto ma è essa stessa organizzazione che si compone di elementi umani e di relazioni. In tale contesto, si discorre più diffusamente di responsabilità sociale di impresa e di etica di impresa, allorché si riconosce che questa non solo agisce nel mercato quale operatore economico, ma la sua azione produce effetti verso la società civile e verso lo Stato (si pensi agli aspetti occupazionali). Essa, peraltro, è il luogo delle relazioni umane organizzate per il perseguimento di uno scopo che non è solo il profitto, ma anche il sostegno alle attività degli enti non-profit, quale trade union tra il mercato e i singoli. Così, nell’Enciclica Centesimus Annus, n 35, si ribadisce l’importanza del profitto e lo scopo della sua funzione, nonché la relazione tra impresa e profitto medesimo, allorché si asserisce che la chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda: quando una azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia il profitto non è l’unico indice delle condizioni dell’azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati ed offesi nella loro dignità (…). Scopo della impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa della impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo a servizio della società intera. Dunque, gli enti non-profit sono funzionali ad un sistema in cui il rapporto tra Stato ed il Mercato è caratterizzato dal progressivo ritirarsi del primo da ogni forma di intervento diretto in economia; come, infatti, il ruolo dello Stato è quello di fissare le regole per un sistema di mercato composto solo da operatori privati, quantunque in certi casi posseduti dalla mano pubblica, allo stesso modo, si potrebbe asserire che le necessità della collettività potranno essere soddisfatte dalla comunità stessa mediante la azione degli enti non-profit. Ad oggi, tuttavia, il rapporto Stato e Terzo Settore non è sviluppato in maniera equivalente al rapporto Stato-Mercato, nel senso che al liberalismo di quest’ultimo non corrisponde il liberalismo (delle regole) nella prima relazione. Lo Stato, infatti, interviene ancora direttamente nel sociale, senza consentire il pieno sviluppo degli enti non lucrativi; ciò è in parte dovuto ad una mancata regolamentazione del settore che possa garantire la più efficiente destinazione dei risultati delle organizzazioni non lucrative verso la collettività. Gli enti non-profit, operando sia “nel” mercato che “con” il mercato, nel senso che essi possono assumere la veste di operatore economico ovvero attivare collaborazioni con le imprese in favore degli scopi perseguiti, contribuiscono a reinvestire le utilità del mercato nella società civile. Il sistema Stato, Mercato e Società Civile è, dunque, un sistema in movimento, in cui, assunta la funzione regolatrice dello Stato, la molteplicità degli scambi tra Società Civile ed Mercato si realizza attraverso la mediazione degli enti non-profit, mediante forme diverse di coinvolgimento tra profit e non-profit, che vanno dalla mera filantropia alla attuazione della responsabilità sociale di impresa, sul presupposto che l’ente non-profit sia da considerarsi come la proiezione della azione dei singoli componenti della società civile  nella comunità e nel mercato. Sulla base delle cose dette, occorre rivisitare il significato del termine ente non-profit, onde chiarire che, nel vasto panorama di riferimento, la riforma del legislatore dovrà spingersi essenzialmente in favore di quelle realtà che perseguono direttamente e indirettamente finalità di interesse generale.

3. Nozione di ente non-profit in senso ampio. Alcune riflessioni sulla riforma degli enti del libro I del codice civile. 

Con il termine “ente non-profit” usualmente ci si riferisce ad una pluralità di operatori (sociali ed economici; istituzionalizzati e non; con e senza personalità giuridica; semplici e complessi; di piccole, medie e grandi dimensioni) che sono accomunati da uno scopo non-lucrativo. Questo, tuttavia, costituisce solo uno degli elementi caratterizzanti l’ente non-profit ed è utile indice per collocarlo sistematicamente in un settore distinto dal Mercato e dallo Stato, il c.d. Terzo Settore. Il tenore letterale della definizione chiarisce solo che l’ente non-profit, quale organizzazione privata, è caratterizzata dalla mancata percezione di guadagni diretti da parte dei componenti del sodalizio; la portata del divieto, poi, risulta più attenuata per chi ritiene che gli enti mutualistici e cooperativi possano rientrare nella definizione; per questi ultimi, infatti, sono ammesse limitate forme di remunerazione del capitale. Giova preliminarmente chiarire che il termine non-profit non coincide necessariamente con lo scopo solidaristico, a vocazione solidale diffusa; non tutti gli enti non lucrativi hanno una vocazione aperta, in grado di servire la collettività quali “supplenti ovvero sostituti” dello Stato, né tanto meno sono necessariamente operatori economici. Così, ad esempio, un circolo ricreativo del burraco, teso eminentemente a garantire la pratica del gioco ai suoi componenti, non assumerà la qualifica di o.n.l.u.s. e, come tale, non potrà godere dei relativi benefici perché ha una vocazione associativa ‘chiusa’ al soddisfacimento degli interessi (non economici, ma egoistici) degli associati, pur avendo finalità non-lucrative ed uno scopo possibile, lecito e meritevole di interesse. Sin dall’ultimo decennio del secolo scorso, all’atto della elaborazione di una classificazione internazionale delle organizzazioni non-profit, Salamon e Anheier individuarono talune caratteristiche comuni agli enti non-profit. Per i due studiosi, gli enti non-profit presentano le seguenti caratteristiche comuni: organizzazione (caratterizzata dall’esistenza dell’ente in sé, dal perseguimento di uno scopo e dalla alterità dei membri rispetto al soggetto di diritto); natura privata (l’ente è un aliquid diverso rispetto allo Stato);  autogoverno (nel senso che il controllo delle attività è rimesso all’ente stesso e non a soggetti esterni); base volontaristica (l’ente coinvolge volontari nell’ambito delle proprie attività e nel management); non-distribuzione degli utili (nel senso della mancata remunerazione del capitale investito e del divieto di distribuzione degli utili stessi alla proprietà, agli amministratori e genericamente ai membri del sodalizio). Eppure già nel medesimo studio si fa riferimento alla possibilità di adottare un approccio elastico alla classificazione degli enti non-profit, che tenga conto non solo delle dimensioni ma anche dello scopo degli enti stessi (si distingue tra public-serving and member-serving), così come si afferma la possibilità di considerare le società cooperative e mutualistiche come enti non lucrativi, quantunque non ne rispecchino fedelmente i tratti tipici sopra richiamati. Le società cooperative, le società mutualistiche e le imprese sociali possono rientrare in una definizione allargata di ente non-profit, muovendo dal più diffuso concetto di economia sociale, secondo cui le ragioni del mercato non si oppongono al progresso della società. Un approccio più ampio alla definizione può, quindi, essere adottato anche nel nostro ordinamento, se si chiarisce la rilevanza del vincolo di non-distribuzione degli utili da parte dei paciscenti del sodalizio anche per gli enti del codice civile diversi dalla società, indipendentemente dall’esercizio o meno della attività commerciale. In questo senso, al fine di comprendere la eterogeneità dei modelli che, nel nostro ordinamento, possono rientrare nella categoria degli enti non-profit, si pone la attenzione sul significato dello scopo non-lucrativo, traendo le mosse a contrario dallo studio dello scopo lucrativo. Il legislatore del 1942 menziona lo scopo lucrativo, nel libro V dedicato al lavoro, allorché all’art. 2247 cod. civ. stabilisce che lo scopo che i paciscenti intendono perseguire con il contratto di società è quello della divisione degli utili (art. 2247 cod. civ.). La dottrina, interrogandosi sul rapporto tra società e scopo “della divisione degli utili”, riferisce che esso è solo uno degli scopi che le società possono perseguire, accanto allo scopo mutualistico (ed allo scopo consortile). In particolare, lo scopo (della divisione degli utili) da parte dei soci-contraenti del patto sociale non è requisito indefettibile della società-istituzione, nel senso che il fine della società-istituzione è neutrale rispetto ad esso. La società, infatti, pur nascendo dalla volontà espressa dai soci nel contratto sociale diviene soggetto distinto da essi (società-istituzione) e tende al proprio mantenimento in vita per il perseguimento dello scopo sociale. In quest’ottica, lo scopo di lucro è inteso in senso soggettivo ed in senso oggettivo. Per scopo di lucro in senso soggettivo si intende la percezione (soggettiva) dell’utile da parte del socio. Tale elemento, se è tipico delle società di persone e delle società di capitali, non ha pari rilevanza nelle società cooperative. In queste ultime, infatti, il legislatore ha previsto sensibili limitazioni alla ripartizioni degli utili (art. 2514 cod. civ.) in considerazione evidentemente del fatto che lo scopo mutualistico consiste nel procurare ai soci un vantaggio patrimoniale diretto che potrà consistere in un risparmio di spesa o in una maggiore remunerazione del lavoro prestato dai soci nella cooperativa. Viceversa, per scopo di lucro oggettivo si ritiene lo scopo economico di un ente che svolge attività di impresa, la cui tendenza è quella (almeno) di far pareggiare i costi con i ricavi. Le definizioni appena citate, così come l’accenno fatto alla distinzione tra scopo della società-contratto e scopo della società-istituzione possono tornare utili al fine di condurre a sistema quelle società che, organizzate con i modelli tipici delle società lucrative in senso stretto (s.p.a.; s.r.l.), perseguono finalità sociali, allontanandosi dallo scopo della divisione degli utili da parte dei soci. La mente corre speditamente alla normativa speciale dettata in tema di società sportive dilettantistiche nonché al recente decreto legislativo n. 155/2006, che ha introdotto l’impresa sociale, il cui riconoscimento nell’ordinamento ha contribuito a rafforzare il pensiero di chi sosteneva la cittadinanza nel nostro ordinamento delle c.d. società senza scopo di lucro, in forza della “neutralità” del modello organizzativo (tipico delle società lucrative) rispetto allo scopo (lucrativo soggettivo). Sul solco del percorso tracciato, la formula coniata di società non lucrativa potrà intendersi nel senso di società senza scopo di lucro soggettivo, essendo ineliminabile, per l’operatore economico in forma collettiva, il perseguimento delle finalità lucrative in senso oggettivo. La locuzione ente non-profit è, dunque, idonea a ricomprendere modelli organizzativi tra loro profondamente diversi (dalle società alle associazioni), taluni con finalità di lucro in senso oggettivo, per il perseguimento di scopi giuridicamente rilevanti, ma non necessariamente altruistici; rientrano, quindi, nell’alveo della nozione operatori economici che perseguono uno scopo di lucro oggettivo e non solo i corpi morali di cui al libro I del codice civile. Alla luce di ciò, data la molteplicità dei tipi presenti nella categoria, assunta la sussistenza di una disciplina specifica per l’impresa sociale (peraltro, anch’essa in corso di modificazione) e delle società cooperative e mutualistiche, si ritiene che l’intervento del legislatore dovrà riformare gli enti nel libro I del codice civile con particolare riferimento al ruolo che essi possono avere sia nella società civile che nel mercato. Per essi, infatti, sarebbe auspicabile che la riforma riguardi esclusivamente gli enti che perseguono finalità di interesse generale e non anche quelli a vocazione chiusa, al fine di poter realizzare il liberalismo del Terzo Settore di cui si è detto in precedenza. In questo contesto sarebbe utile una riorganizzazione del quadro normativo del Terzo Settore, graduando in funzione della dimensione e dello scopo dell’ente una serie di requisiti di legge atti ad assicurare il perseguimento degli interessi generali e la corretta allocazione delle risorse nella collettività. In questo senso, sarebbe auspicabile una riflessione sulla: a)Adozione, per enti non lucrativi di certe dimensioni, di un modello di governance partecipata, ad instar dei modelli cooperativi e mutualistici, così sottraendo ai soli accordi degli associati la determinazione dei sistemi di amministrazione e controllo, al fine di garantire il coinvolgimento dei stakeholders dell’ente, siano essi fornitori, sostenitori, ecc.; b)Adozione dell’obbligo di redazione del bilancio sociale, a prescindere dalla presenza o meno di finanziamenti pubblici nel patrimonio dell’ente, al superamento di certe soglie dimensionali, onde poter assicurare trasparenza e pubblicità della gestione; c)Adozione di una previsione normativa specifica in materia di attività commerciale non prevalente degli enti non lucrativi. A tal proposito, se non si dubita più della possibilità da parte degli enti del libro I cod. civ. di esercitare attività commerciale, si discute sulla applicabilità dello statuto dell’imprenditore commerciale, allorquando la attività sia condotta in maniera non prevalente rispetto alla attività istituzionale; il legislatore fiscale non individua chiaramente il punto oltre il quale la attività si considera prevalente, ma detta una serie di criteri, che, nella incertezza di interpretazione che può scaturire nella fattispecie concreta, rebus sic stantibus, non consentono agevolmente al settore di utilizzare lo strumento in parola quale mezzo di incremento della raccolta di fondi dell’ente. Difatti, l’articolo 149 primo e secondo comma del TUIR si limita a statuire che 1. Indipendentemente dalle previsioni statutarie, l’ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta; 2. Ai fini della qualificazione commerciale dell’ente si tiene conto anche dei seguenti parametri: a) prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale, al netto degli ammortamenti, rispetto alle restanti attività; b) prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali; c) prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative; d) prevalenza delle componenti negative inerenti all’attività commerciale rispetto alle restanti spese. d)Adozione di una normativa chiara in materia di raccolta fondi da parte degli enti, volta da un lato a semplificare il reperimento degli stessi, dall’altro, ad assicurare che le attività di fundraising si compiano nel rispetto dei diritti dei terzi. Oggi, la disciplina del fundraising è rimessa alle best pratices elaborate dagli stessi operatori del settore in maniera autoreferenziale; e)Adozione di un sistema unitario di controlli e vigilanza nel Terzo Settore.

4. Conclusioni.

Il termine ente non-profit accomuna tra loro organizzazioni private, tipicamente caratterizzate dalla mancata divisione degli utili da parte dei componenti del sodalizio; rientrano nella definizione: una eterogeneità di soggetti (dalle associazioni alle società cooperative); una eterogeneità di scopi (dalle finalità meramente mutualistiche a quelle ideali, non economiche, ma non necessariamente altruistiche); enti che esercitano tipicamente una attività economica, ma anche corpi morali che, all’occorrenza, svolgono attività economica. Dalla eccessiva frammentazione del sistema discende dai più l’esigenza di riforma, soprattutto degli enti del libro I del codice civile, tenuto conto che essi partecipano costantemente al progresso della società (si pensi, ad esempio, agli enti privati di ricerca scientifica costituiti in forma associativa). Gli enti non-profit non sono solo enti di carità e di beneficenza, ma svolgono una funzione importante all’interno della società civile e del mercato, contribuendo allo sviluppo umano integrato, orientando, nel rispetto della libera iniziativa economica, il mercato al bene comune, quali mediatori delle esigenze della collettività. Da qui, l’importanza di costruire un sistema a tre Società, Stato e Mercato, in cui i tre settori siano in connessione tra loro, e di fare in modo che la politica (delle scelte), l’economia (delle azioni) ed il diritto (delle regole) non siano tra loro indifferenti, bensì, con un appropriato coordinamento, siano orientate all’uomo, quale motore delle iniziative organizzate della società civile e del mercato, nonché fine ultimo del sistema. Stato, Mercato e Società Civile non sono singole monadi di un sistema statico, piuttosto parte attiva di un sistema in continuo movimento aperto, in cui gli enti non-profit, concepiti quale espressione meta-individuale della persona nella comunità, sono in grado di operare efficacemente sia in ambiti a rilevanza pubblica (es. servizi assistenziali) sia nel mercato, contaminando quest’ultimo dei valori di fair-trade e di responsabilità sociale. Note: [*] Il presente contributo è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista. [1] Nel IX Censimento dell’industria e dei servizi e Censimento delle istituzioni non-profit, ISTAT: Al 31 dicembre 2011 le istituzioni non-profit attive in Italia sono 301.191, con una crescita pari al 28 per cento rispetto al 2001. Esse rappresentano il 6,4 per cento delle unità giuridico-economiche attive in Italia e il 3,4 per cento degli addetti (dipendenti) in esse impiegati. Indipendentemente dalla loro dimensione occupazionale le istituzioni non-profit costituiscono, in alcuni settori, la principale realtà produttiva del Paese. Nel settore delle attività artistiche, s-portive, di intrattenimento e di divertimento il numero di istituzioni non-profit attive (146.997) è superiore a quello delle imprese (61.527) e delle istituzioni pubbliche (252). Significativo l’apporto delle istituzioni non-profit anche nei settori della sanità e dell’assistenza sociale, con 36.010 istituzioni attive a fronte di 474 istituzioni pubbliche e di 246.770 imprese, costituite quasi interamente da lavoratori autonomi e liberi professionisti che svolgono attività mediche e paramediche indipendenti. Le dimensioni del settore sono rilevanti anche in termini di risorse umane impiegate. Le istituzioni che operano grazie all’apporto di volontari sono 243.482, pari all’80,8 per cento delle unità attive (con un incremento del 10,6 per cento rispetto al 2001) per un numero totale di 4 milioni 759 mila volontari. Le istituzioni che dispongono di lavoratori retribuiti a vario titolo sono 41.744 con addetti (pari al 13,9 per cento delle istituzioni attive), 35.977 con lavoratori esterni (pari al 11,9 per cento) e 1.796 con lavoratori temporanei (0,6 per cento). Le risorse umane retribuite sono costituite da 681 mila dipendenti, 271 mila lavoratori esterni (lavoratori con contratto di collaborazione) e più di 5 mila lavoratori temporanei. [2] Il concetto di Terzo Settore (o settore non-profit) deriva dalla considerazione dell’esistenza nel sistema economico e sociale di un primo settore (lo Stato) e di un secondo (il mercato). In tal senso si identifica usualmente il t. s. con quell’insieme di attività produttive che non rientrano né nella sfera dell’impresa capitalistica tradizionale (poiché non ricercano un profitto), né in quella delle ordinarie amministrazioni pubbliche (in quanto si tratta di attività di proprietà privata). (http://www.treccani.it/enciclopedia/terzo-settore_(Enciclopedia-Italiana)/) [3] P. Alcock, A strategic unity:defining the third sector in the UK, Voluntary Sector Review, vol.I, no I, pg 5-24, nel quale si chiarisce la posizione dell’economista statunitense Levitt secondo cui il terso settore costituisce solo un “enormuus residuum, locatend beyond the private and public sectors” nonché la posizione di Grotz (2009) secondo cui “there was an insufficient evidence of an established consensus on the existence of a third sector”. [4] Caritas in veritate, par. 32. [5] L. Spaventa, La grande crisi del nuovo secolo, 2009 Treccani on line. Sin dal 2008, la crisi finanziaria si è trasmessa all’economia reale: prima negli Stati Uniti, poi nelle altre economie industrializzate, infine nel mondo intero. Il rallentamento della crescita è divenuto recessione: nel 2009, per la prima volta dal secondo dopoguerra, si è verificata una riduzione del prodotto mondiale, con una caduta ancora maggiore della produzione industriale e una caduta a due cifre dei volumi del commercio. Secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, fra il 2007 e il 2010 il tasso di disoccupazione nelle maggiori economie avanzate sarà aumentato di quasi quattro punti. Per intensità e diffusione, questa grande recessione è sinora grave come la fase iniziale della grande depressione degli anni Trenta (Eichengreen, O’Rourke2009). L’intervento della politica economica, oggi più tempestivo e deciso, probabilmente impedirà che essa si trasformi in una lunga depressione, ma, anche nella migliore delle ipotesi, la ripresa sarà lenta. [6] Dall’intervento del Direttore Generale della Banca d’Italia, F. Saccomani, al XXII Congresso Nazionale delle Fondazioni di Origine Bancaria e delle Casse di Risparmio Spa, tenutosi a Palermo il 7 giugno 2012, secondo cui “La rapida e continua evoluzione della crisi impone alle Autorità, nazionali ed europee, adattamenti flessibili delle strategie di risposta regolamentare e nell’attività di controllo della stabilità finanziaria” si crede emerga chiaramente come le istituzioni ed il sistema giuridico-economico non risultavano essere pronti né con regole né con strategie ad affrontare tale crisi, ma si sono trovati a dover rincorrere la stessa. [7] Caritas in veritate, par. 32. [8] Quale, dunque, la natura dell’attività dello Stato? Ebbene, la risposta è che lo Stato deve agire sulle forme dell’economia, ma che non deve essere esso stesso a dirigere i processi economici […]. Pertanto, sì alla pianificazione delle forme, no alla pianificazione e al controllo del processo economico. Essenziale è avere chiara la differenza tra forma e processo, e agire di conseguenza W. Eucken, GrundlagenDerNationalokonomie, 1940 in L. Bonini, Economia sociale di mercato, Edizioni Studio Domenicano, 2012 pag. 86. [9] F. Forte – F. Felice, Il liberalismo delle regole, genesi ed eredità della economia sociale di mercato, Rubettino, 2010, pag. 84. [10] Caritas in veritate, part 35. [11] F. Felice, L’ economia civile, Centro Studi e Documentazione Tocqueville-Acton, Quaderni di Teoria – Raccolta n. 5/2007. [12] S. Zamagni,  Impresa responsabile e mercato civile, Il mulino, 2013, pg.17. [13] S. Zamagni,  Impresa responsabile e mercato civile, Il mulino, 2013, pg.17. [14] L’art. 10 d. Lgs. 460/1997 stabilisce che, per  espressa volizione del legislatore, che solo talune attività e taluni enti possono assumere la qualità di onlus. [15] Salamon, Lester M. and Helmut K. Anheier. “The International Classification of Nonprofit Organizations: ICNPO-Revision1, 1996”. Working Papers of the John Hopkins Comparative Nonprofit Sector Project no.19. Baltimore: The John Hopkins Institute for Policy Studies, 1996. [16] G.F.Campobasso, diritto commerciale 2, UTET, 2 ed., pg.21. [17] G.F.Campobasso, diritto commerciale 2, UTET, 2 ed., pg.22. [18] Ai sensi dell’art. 1 del citato decreto “ Possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale, e che hanno i requisiti di cui agli articoli 2, 3 e 4”, così essendo possibile, ad esempio, per una s.p.a. acquisire la qualifica di impresa sociale. [19] Commentario breve al diritto delle Società, Maffei Alberti,  Cedam, seconda ed, 2011, commento art. 2247c.c. : la proliferazione di speciali ipotesi legali di società riconducibili strutturalmente ai tipi previsti dal Titolo V del libro V del c.c., unitamente alla circostanza che l’art. 2232 non prevede la nullità della s.p.a. in caso di esclusione dello scopo di lucro statutariamente prevista, ha portato a ritenere, anche alla luce della neutralità della articolata struttura organizzativa delle società di capitali, generalmente ammissibili società dichiaratamente senza scopo di lucro. L’argomento, tuttavia, è oggetto di discussione, nel senso che esiste per converso copiosa letteratura tesa a considerare lo scopo di lucro quale elemento ineliminabile della impresa. [20] Si parla di modelli organizzativi e non di enti in considerazione del fatto che la ampia genericità della definizione ente non-profit si estenderebbe sino a ricomprendere modelli diversi dagli enti, quale il trust, che può assumere la qualifica di onlus. [21] Caritas in veritate, n. 18, in cui si indica la connotazione essenziale dell’autentico sviluppo, che deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo.  [22] Caritas in veritate, n. 38. [23] Sono attuali le parole del Santo Padre Benedetto XVI, secondo cui l’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante l’estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica (Caritas in veritate, n. 36, 1-5). Scarica il contributo [pdf] Scarica il quaderno Anno IV – Numero 1 – Gennaio/Marzo 2014 [pdf] 

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