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Internet e il diritto alla riservatezza dei dati personali contenuti in atti parlamentari

di Lorenzo Delli Priscoli Abstract: The Internet essentially is a medium for communications that allows data exchanges between computer across the world. The cross-border nature of the internet has a profound impact on privacy (publication is potentially to the whole world). The purpose of Italian Parliament is the creation of a system capable of protecting the interests of sensitive data owners without burdening sensitive data users with excessive obligations. The conditions for processing must take account of the nature of the personal data in question. The conditions that need to be met are more exacting when the information being processed is sensitive personal data, such as information about an individual’s health.  Internet è un mezzo di comunicazione che consente scambi di dati in tutto il mondo. La sua natura transnazionale ha un forte impatto sulla riservatezza, proprio per la capacità di internet di raggiungere potenzialmente qualsiasi computer del mondo. L’obiettivo del Parlamento italiano è quello di creare un sistema che protegga l’interesse alla riservatezza dei dati personali senza gravare di oneri eccessivi coloro che li trattano, tenendo presente che le esigenze di riservatezza risultano tanto più stringenti quanto più il dato sensibile è un dato personale, come nel caso di quelli riguardanti le condizioni di salute. Sommario:

  1. La delibera della Camera dei Deputati in tema di riservatezza degli atti parlamentari e il problema.
  2. Il quadro normativo.
  3. L’autodichia e il principio di pubblicità dei lavori della Camera.
  4. La tutela della riservatezza e il diritto all’oblio in internet.
  5. Alcune esperienze straniere.
  6. Il bilanciamento tra valori costituzionali e il nucleo essenziale dei diritti fondamentali.

 

1. La delibera della Camera dei Deputati in tema di riservatezza degli atti parlamentari e il problema. 

L’Ufficio di Presidenza della Camera dei Deputati, ha approvato, alla fine del 2013, una specifica disciplina in materia di diritto all’oblio [1]: Deliberazione dell’Ufficio di Presidenza n. 46 del 1° ottobre 2013, testo coordinato con le modifiche apportate dalla deliberazione n. 53 del 4 dicembre 2013: Procedura in ordine a richieste concernenti dati personali contenuti in atti parlamentari.

  • Alle istanze dei cittadini che, invocando il cosiddetto “diritto all’oblio” con riferimento a loro dati personali contenuti in atti parlamentari pubblicati sul sito Internet della Camera dei deputati, chiedono di procedere alla deindicizzazione dei predetti atti, si dà seguito – ove ne ricorrano i presupposti di cui ai punti successivi – escludendo dall’indicizzazione da parte dei motori di ricerca esterni – secondo le modalità tecniche adottabili in ciascun caso – il documento informatico contenente l’atto parlamentare in questione, ferme restando la piena reperibilità dell’atto medesimo sul sito istituzionale attraverso il motore di ricerca interno al sito stesso e l’intangibilità dell’atto parlamentare. 
  • Sono accolte le istanze aventi ad oggetto i dati personali di cui al punto 4 della presente deliberazione contenuti in atti parlamentari pubblicati nelle legislature precedenti e comunque da non meno di tre anni rispetto alla data in cui l’istanza è formulata, salvo che l’Ufficio di Presidenza deliberi diversamente, in modo motivato, in relazione allo specifico interesse da tutelare. 
  • Le istanze possono riguardare qualsiasi atto parlamentare, ad eccezione degli atti delle Commissioni parlamentari di inchiesta, alla luce della specifica previsione contenuta nel Codice per la protezione dei dati personali [art. 8, comma 3, lettera c)], che esclude espressamente l’esercizio dei diritti in tema di dati personali di cui all’articolo 7 del medesimo Codice nel caso di trattamenti effettuati dalle suddette Commissioni, salvo nei casi in cui vengano in rilievo esigenze di sicurezza della persona e comunque d’intesa con il Senato. Per gli atti parlamentari relativi ad altri organi bicamerali si procede d’intesa con il Senato. 
  • Ferma restando la valutazione circa l’eventuale perdurante esistenza di un interesse generale alla massima diffusione dell’atto, a prescindere dal decorso del tempo, sono prese in esame le istanze aventi oggetto dati sensibili o giudiziari o riferite a minori ovvero concernenti ricostruzioni di fatti successivamente rivelatesi non vere sulla base di documentazione ufficiale fornita dagli istanti. 
  • Con riferimento alle istanze, aventi ad oggetto atti di sindacato ispettivo, si procede alla deindicizzazione anche della relativa risposta fornita dal Governo ove abbia ad oggetto anch’essa dati sensibili o giudiziari o sia riferita a minori, ovvero contenga ricostruzioni di fatti successivamente rivelatesi non vere sulla base di documentazione ufficiale fornita dagli istanti. 
  • Sulle istanze presentate alla Presidenza della Camera dei deputati l’esame istruttorio è svolto, sulla base dei criteri di cui ai punti precedenti, da un Gruppo di lavoro i cui componenti sono nominati dal Presidente della Camera tra i membri dell’Ufficio di Presidenza assicurando la rappresentanza di ciascun Gruppo parlamentare. Il Gruppo di lavoro riferisce all’Ufficio di Presidenza sulle singole istanze e sulle eventuali integrazioni o modifiche ai criteri di cui ai punti precedenti ritenuti necessari. Il Gruppo di lavoro, in riferimento a ciascuna istanza, può sottoporre all’Ufficio di Presidenza l’opportunità di acquisire sul punto il parere del Garante per la protezione dei dati personali. Sulla questione delibera l’Ufficio di Presidenza. 

  Al termine dell’istruttoria da parte del Gruppo di lavoro di cui al punto 6, l’Ufficio di Presidenza delibera sulle proposte da questo formulate su ciascuna istanza esaminata; valuta le eventuali proposte di modifica o integrazione formulate dal Gruppo di lavoro ai criteri di cui ai punti precedenti e definisce le modalità attraverso le quali esaminare le successive istanze che dovessero essere. L’occasione per la redazione di tale “procedura in ordine a richieste concernenti dati personali contenuti in atti parlamentari” si è creata a seguito di un ricorso accolto dal Tribunale civile di Roma, che, con sentenza del 19 gennaio 2012, n. 1213, visto l’art. 152, co. 10, del d. lgs. n. 196 del 2003 (c. d. Codice della privacy), ha condannato la Camera dei Deputati a “rendere tecnicamente non possibile per il tramite dei comuni motori di ricerca la diretta individuazione della pagina web” relativa ad una interrogazione parlamentare a risposta scritta e a due interpellanze presentate da un deputato nel 2008 e riguardanti lo stato di salute [1] del ricorrente durante un suo periodo di permanenza in carcere. Il Tribunale ha più specificamente accolto la richiesta in via subordinata del ricorrente, il quale infatti in via principale aveva chiesto la rimozione integrale della pagina web (quindi anche dal sito della Camera). Con il provvedimento adottato dal Tribunale, invece, è ancora ugualmente possibile individuare la pagina web relativa allo stato di salute del ricorrente e accedervi, ma tale individuazione è ora molto più difficile, perché non potrà più avvenire casualmente, ossia semplicemente digitando su un motore di ricerca (si pensi ad esempio a Google) il suo nome, ma occorrerà recarsi sul sito della Camera dei Deputati, e solo allora digitare il nome del ricorrente o il numero delle interrogazioni parlamentari. In altre parole, dopo il provvedimento del giudice, un qualsiasi utente di internet potrà venire a conoscenza dello stato di salute del ricorrente solo se egli sia già in qualche modo a conoscenza di quello che vuole cercare, o perché sa che il ricorrente è stato oggetto di una interrogazione parlamentare o perché sa che vi è una determinata interrogazione parlamentare avente ad oggetto lo stato di salute di un carcerato. Dunque, la “curiosità” dell’utente di internet riguardante le vicende (anche) personali di una determinata persona, che oggigiorno – soprattutto quando questa stessa persona per qualsiasi motivo abbia acquisito anche un minimo di notorietà – può essere spesso agevolmente soddisfatta in pochi secondi digitando appunto il nome della persona su un comune motore di ricerca, è stata così, con tale provvedimento, “frenata” e “filtrata” dal necessario passaggio da un determinato sito (quello della Camera dei Deputati) che non può essere individuato da quegli stessi motori di ricerca avendo a disposizione soltanto la conoscenza del nome della persona della quale si vogliono acquisire informazioni. La Camera dei Deputati aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in ragione del sistema di autodichia parlamentare rinvenibile nell’art. 64, co. 1, Cost.; nel merito si era invece difesa affermando che interrogazioni e interpellanze parlamentari sono espressione del potere del Parlamento di rappresentanza dei cittadini (art. 67 Cost.) e di controllo sull’esecutivo (art. 94 Cost.): per conseguire questi fini, tali atti non possono che essere pubblici e quindi consultabili agevolmente anche su internet. Il Tribunale di Roma ha ritenuto infondata l’eccezione di difetto di giurisdizione, affermando che tra le materie riservate dall’art. 12 del regolamento della Camera [2] non possa farsi rientrare l’attività di trattamento dei dati personali di terzi, in quanto tale attività implica la lesione del diritto costituzionalmente tutelato alla riservatezza e all’oblio, da porre necessariamente in bilanciamento con il principio di pubblicità delle sedute della Camera di cui all’art. 64 Cost., che non verrebbe seriamente pregiudicato dall’omissione, nella pubblicazione degli atti parlamentari, dei dati idonei ad identificare i soggetti la cui identità non sia oggetto di un interesse pubblico alla conoscenza. Nel merito, ha rilevato il Tribunale che all’art. 22 del codice della privacy da un lato non vi è alcun divieto per gli organismi pubblici di trattare i dati personali, dall’altro però vi è l’obbligo di trattarli esclusivamente nei casi in cui ciò sia indispensabile per lo svolgimento delle loro attività istituzionali. Ne consegue da un lato la legittimità della pubblicazione sul sito internet della Camera degli atti parlamentari in oggetto, dall’altro però l’esigenza di evitare la rilevazione dall’esterno, ossia da parte dei motori di ricerca operanti su internet, dei dati personali del ricorrente, comunque attuali e non contestualizzati, idonei a ledere il diritto all’immagine dell’interessato. Contro tale provvedimento la Camera dei deputati aveva proposto ricorso per Cassazione che, per la sua delicatezza, era stato assegnato alle sezioni unite: prima della trattazione del ricorso però la Camera ha rinunciato al ricorso, avendo adottato le delibere di cui si è dato conto che sostanzialmente aderiscono alla soluzione del problema offerta dal Tribunale di Roma.

2. Il quadro normativo. 

La parola “riservatezza” o l’espressione “diritto all’oblio” non sono presenti nella nostra Costituzione: tali diritti tuttavia vengono ricondotti tradizionalmente agli artt. 2 e 15 Cost.: in particolare, l’art. 2 Cost. è considerata una norma “aperta” alla tutela di posizioni giuridiche soggettive nuove, che possono venirsi a creare con il decorso del tempo ed il conseguente e progressivo cambiamento della realtà sociale in cui l’uomo vive. Si noti peraltro la presenza dell’avverbio “riservatamente” all’interno dell’art. 111 Cost. in tema di giusto processo (modifica costituzionale avvenuta con l. cost. n. 2 del 1999), che ha la funzione di disciplinare le modalità secondo le quali il pubblico ministero deve informare l’indagato delle indagini in corso a suo carico. Tale comunicazione deve appunto essere effettuata “riservatamente”. In materia di protezione dei dati personali, il d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c. d. codice della privacy), impone “un elevato livello di protezione dei dati personali” di chiunque e tale protezione è considerata facente parte integrante del diritto dell’uomo alla riservatezza (artt. 1 e 2): a conferma di ciò il relativo danno è risarcito (art. 15) da un lato mediante il riferimento alla responsabilità extracontrattuale aggravata di cui all’art. 2050 cod. civ. (esercizio di attività pericolosa, che obbliga il danneggiante, per andare esente da responsabilità, a provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno), e dall’altro anche nella sua componente non patrimoniale (cfr. art. 2059 cod. civ. e Cass. n. 26972 del 2008), il che ne sembra evidenziare la natura di diritto fondamentale. Il codice è altresì ispirato al principio di necessità nel trattamento dei dati (art. 3), secondo cui occorre ridurne al minimo l’utilizzazione, in modo da escluderne il trattamento quando le finalità perseguite nei singoli casi possono essere realizzate mediante dati anonimi od opportune modalità che permettano di identificare l’interessato solo in caso di necessità: inoltre devono essere trattati in maniera non eccedente rispetto alle finalità per le quali sono trattati e conservati per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati trattati (art. 11 e 22, co. 3): questi principi valgono anche quando i dati personali vengano trattati su internet (art. 133). Secondo l’art. 16 del Trattato di Roma del 25 marzo 1957 sul funzionamento dell’Unione europea Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano: si deve ricordare che le norme dell’Unione europea, secondo una ormai più che consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale (a partire dalla sentenza n. 170 del 1984), prevalgono su quelle del nostro ordinamento con la sola eccezione dei principi fondamentali dell’ordinamento[3] (e mai la Corte costituzionale ha considerato il principio di pubblicità degli atti del Parlamento o quello dell’autodichia un principio fondamentale). Devono altresì considerarsi gli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza, secondo cui “ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata” e “ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano”: le norme della Carta di Nizza, al contrario di quelle della CEDU, fanno parte a pieno titolo delle norme dell’Unione europea, in virtù dell’art. 6, par. 1, del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 sull’Unione europea. L’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo stabilisce poi che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata” e “Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Si deve ricordare che le norme della CEDU, secondo una ormai più che consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale (a partire delle sentenze nn. 348 e 349 del 2007), prevalgono sugli atti aventi forza di legge ma soccombono rispetto a tutte le norme aventi carattere costituzionale (quindi non solo i principi fondamentali), nonché alle norme dell’Unione europea. Inoltre, secondo l’art. 12 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, firmata all’ONU il 10 dicembre 1948, pur non essendo un trattato e pur non essendo stata ratificata dall’Italia, è il documento fondamentale costitutivo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Many international lawyers, in addition, believe that the Declaration forms part of customary international law and is a powerful tool in applying diplomatic and moral pressure to governments that violate any of its articles. La Dichiarazione fa parte del diritto internazionale consuetudinario ed è un potente strumento di pressione diplomatica e morale ai governi che violano uno dei suoi articoli. The 1968 United Nations International Conference on Human Rights advised that it “constitutes an obligation for the members of the international community” to all persons. La dichiarazione continua ad essere ampiamente citata da governi, accademici, avvocati, Corti costituzionali (in particolare la nostra Corte costituzionale la cita spesso come argomento rafforzativo delle sue decisioni) e singoli esseri umani che si appellano ai suoi principi per la tutela dei loro diritti umani. Ancora, la direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, afferma all’art. 6 che gli Stati membri dispongono che i dati personali devono essere adeguati, pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali vengono rilevati e/o per le quali vengono successivamente trattati, mentre il successivo art. 7 stabilisce che gli Stati membri dispongono che il trattamento di dati personali può essere effettuato soltanto quando è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il responsabile del trattamento; infine l’art. 8 prevede che gli Stati membri vietano il trattamento di dati personali relativi alla salute ma tale norma non si applica qualora il trattamento sia effettuato, con garanzie adeguate, da una fondazione, un’associazione o qualsiasi altro organismo che non persegua scopi di lucro e rivesta carattere politico, filosofico, religioso o sindacale, nell’ambito del suo scopo lecito e a condizione che riguardi unicamente i suoi membri o le persone che abbiano contatti regolari con la fondazione, l’associazione o l’organismo a motivo del suo oggetto e che i dati non vengano comunicati a terzi senza il consenso delle persone interessate. Tali norme sono state trascritte in maniera pressoché identica nel Regolamento (CE) n. 45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2000 concernente la tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni e degli organismi comunitari. Deve infine darsi atto della proposta di regolamento europeo per la protezione dei dati personali del 25 gennaio 2012. La Commissione europea ha nel 2012 elaborato una proposta di Regolamento che già dalla metà del 2014 dovrebbe sostituire quanto stabilito dalla direttiva 95/46/CE, aumentando il livello di protezione dei dati personali e anche il livello di cogenza delle norme, visto che ad una direttiva verrebbe a sostituirsi un regolamento, come tale immediatamente esecutivo e senza margini discrezionalità[4]. In particolare, l’art. 5 ribadisce, ma con maggiore cogenza e precisione, i principi in materia di trattamento dei dati personali, che corrispondono a quelli di cui all’articolo 6 della direttiva 95/46/CE: tra i nuovi elementi aggiunti si trovano il principio di trasparenza, una migliore precisazione del principio di minimizzazione dei dati e l’introduzione di una responsabilità generale del responsabile del trattamento. Stabilisce infatti l’artt. 5 che i dati personali devono essere limitati al minimo necessario rispetto alle finalità perseguite e conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati; l’art. 17 stabilisce poi che l’interessato ha il diritto di ottenere dal responsabile del trattamento la cancellazione di dati personali che lo riguardano e la rinuncia a un’ulteriore diffusione di tali dati, in particolare in relazione ai dati personali resi pubblici quando l’interessato era un minore, se i dati non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati. 

3. L’autodichia e il principio di pubblicità dei lavori della Camera. 

Il termine autodichia, non presente nella Costituzione italiana, designa il potere di alcuni organi costituzionali (Presidenza della Repubblica, Senato, Camera e Corte costituzionale) di esercitare la funzione decisoria relativamente a particolari tipologie di controversie attinenti all’esercizio delle proprie funzioni, ossia una capacità di “auto giurisdizione”, la capacità di decidere direttamente, attraverso articolazioni organizzative interne, ogni controversia attinente all’esercizio delle proprie funzioni, tra cui quelle inerenti al rapporto di impiego con i propri dipendenti, senza che organismi giurisdizionali esterni siano abilitati ad esercitare qualsivoglia tipologia di sindacato o controllo. La ratio che giustifica l’autodichia è quella della impossibilità di intromissione nell’indipendenza guarentigiata e quindi nell’organizzazione interna delle Camere. Alla base dell’autodichia si trova dunque la rivendicazione da parte dei supremi organi costituzionali del potere di disciplinare tutta l’attività svolgentesi nella sua “sfera interna” [5]. Il fondamento costituzionale dell’autodichia, ammesso che esso esista, è incerto e discusso. Secondo alcuni esso si fonda sulla potestà, prevista dall’art. 66 Cost., di ciascuna camera di giudicare dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità [6]. In ogni caso l’azione della Giunta può essere considerata come un’attività di mero accertamento amministrativo, un esercizio di potere giurisdizionale o un’attività squisitamente politica. La giurisprudenza della Cassazione in materia di autodichia è oscillante, e potremmo, sia pure con una inevitabile semplificazione, suddividerla in tre filoni. Il primo filone, cui appartiene l’ultima sentenza in tema (n. 14100 del 2013, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 del regolamento della Camera che attribuisce alla Camera stessa l’autodichia) [7], guarda all’autodichia decisamente con sfavore, o in toto (in virtù degli artt. 3, 24, 102, 111, 113 Cost.), nel senso che viene messa in discussione anche per quanto riguarda la giurisdizione sui dipendenti delle Camere (e dunque, implicitamente, viene riconosciuta solo per quanto espressamente previsto dall’art. 66 Cost.) o nel senso di escludere una interpretazione estensiva di quanto previsto dai regolamenti delle Camere in quanto essi avrebbero natura di norme eccezionali proprio perché posti in deroga ai citati principi costituzionali (ritenendosi così ad esempio che la giurisdizione domestica delle Camere non possa allargarsi ai dipendenti dei gruppi parlamentari): in questo senso è ad esempio Cass., S.U., 6 maggio 2013, n. 14100, secondo cui l’autonomia spettante al Parlamento non è affatto comprensiva del potere di stabilire norme contrarie alla Costituzione. Esiste poi un secondo filone di sentenze “a favore” dell’autodichia, sulla base della presenza in tal senso di specifiche norme regolamentari delle Camere, la cui legittimità è stata sancita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 154 del 1985; si fa inoltre riferimento ad un “fondamento costituzionale indiretto” dell’autodichia, e alla sua ragion d’essere nell’esigenza di tutelare la sovranità, l’autonomia e l’indipendenza del Parlamento [8]. Secondo la citata sentenza n. 154 del 1985, infatti, lautodichia della Camera dei deputati in tema di controversie che attengono ai rapporti di lavoro dei dipendenti, nonché alle procedure concorsuali per l’assunzione di nuovo personale, trovando la sua base istitutiva in una specifica norma primaria (l’art. 12 del Regolamento della Camera dei deputati 18 febbraio 1971, deliberato ai sensi dell’art. 64 Cost. e rimasto sostanzialmente identico nel nuovo testo del 16 febbraio 1998), non è suscettibile di disapplicazione da parte del giudice ordinario e si sottrae altresì al sindacato di legittimità costituzionale in ragione dell’indipendenza garantita alle Camere del Parlamento da ogni altro potere; né tale sistema ha subito effetti innovativi ad opera del nuovo testo dell’art. 111 Cost., introdotto dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, che – pur senza estromettere la autodichia dall’area della giurisdizione – non ha comunque scalfito le garanzie di indipendenza del Parlamento, mantenendo pur sempre alcune aree di esenzione o di delimitazione del sindacato di legittimità proprio della Corte di cassazione.  Quanto alla giurisprudenza costituzionale, nella sentenza n. 74 del 2013, in tema di necessità dell’autorizzazione della Camera dei Deputati per l’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche nei confronti di parlamentari, si afferma che “l’art. 6 della legge n. 140 del 2003 (si tratta dello spinoso problema delle intercettazioni telefoniche di Parlamentari c. d. indirette o casuali) [8], al pari delle altre disposizioni sulle immunità e prerogative a tutela della funzione parlamentare, deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione – principio che è «alle origini della formazione dello Stato di diritto» – e deve, quindi, «essere interpretato nel senso più aderente al testo normativo». Da tale sentenza si evince dunque che il principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione è la regola, mentre le deroghe a tale principio costituiscono eccezioni, e come tali sono di stretta interpretazione e non sono suscettibili di interpretazione in via analogica. Il principio dell’autodichia, quindi, che costituisce una deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione, sembra dunque necessariamente doversi interpretare in maniera restrittiva. Sempre la Corte costituzionale, nella sentenza n. 85 del 2013 (c. d. sentenza ILVA), la Corte costituzionale ha affermato, con riferimento alla funzione giurisdizionale, che non può essere consentito al legislatore di «risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie e di vanificare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, violando i princìpi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi», citando altresì una sentenza della CEDU secondo cui «il principio dello stato di diritto e la nozione di giusto processo custoditi nell’art. 6 precludono, tranne che per impellenti ragioni di interesse pubblico, l’interferenza dell’assemblea legislativa nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia» (Corte EDU, sez. II, sentenza 14 dicembre 2012, Arras contro Italia) Non può non rilevarsi che l’affermazione riguardante la non interferenza del Parlamento nell’attività giurisdizionale sembrerebbe sottolineare la non più attuale rispondenza dell’autodichia all’equilibrio tra i vari poteri dello Stato. Nella sentenza 6 maggio 1985, n. 154 la Corte costituzionale aveva affermato che, quanto al dubbio sulla compatibilità dell’autodichia delle Camere con i principi costituzionali in tema di giurisdizione, non può non convenirsi col giudice a quo, anche sulla base di principi contenuti in convenzioni internazionali, che indipendenza ed imparzialità dell’organo che decide, garanzia di difesa, tempo ragionevole, in quanto coessenziali al concetto stesso di una effettiva tutela, sono indefettibili nella definizione di qualsiasi controversia.  Con questa celebre sentenza la Corte costituzionale, in ragione della centralità del Parlamento nell’ordinamento repubblicano e dell’assenza dei regolamenti parlamentari dall’elenco di norme impugnabili ex art. 134 Cost. davanti alla Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione riguardante una norma regolamentare che prevedeva la giurisdizione domestica delle Camere, sembrerebbe avere indirettamente riconosciuto la legittimità dell’autodichia. Tuttavia ciò non è del tutto esatto in quanto si tratta solo di una pronuncia di inammissibilità a causa della insindacabilità dei regolamenti parlamentari ed anzi la Corte afferma espressamente che “quanto al dubbio sulla compatibilità dell’autodichia delle Camere con i principi costituzionali in tema di giurisdizione, non può non convenirsi col giudice a quo, anche sulla base di principi contenuti in convenzioni internazionali, che indipendenza ed imparzialità dell’organo che decide, garanzia di difesa, tempo ragionevole, in quanto coessenziali al concetto stesso di una effettiva tutela, sono indefettibili nella definizione di qualsiasi controversia”.  Tuttavia, nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, seconda sezione, 28 aprile 2009 n. 14 – Savino ed altri c. Italia, la Corte EDU afferma esplicitamente che l’autonomia normativa del Parlamento italiano persegue il fine di preservare il potere legislativo da ogni ingerenza esterna, ivi compreso da parte dell’Esecutivo, cosa che non può essere ritenuta contraria alla lettera o allo spirito dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. La sentenza Savino della CEDU rileva dunque l’illegittimità dell’autodichia “solo” sotto il profilo della mancanza di terzietà del giudice, che è “al contempo produttore di norme, amministratore e giudice” [9], non anche della autodichia in sé e per sé. Rileva peraltro Scoca [10] che è certamente vero che secondo la CEDU il rispetto dell’art. 6, par. 1, della Convenzione può essere assicurata anche da Tribunali diversi da quelli comuni, ma nell’ordinamento italiano non esiste una nozione di “Tribunale in senso materiale” come elaborata dalla CEDU, anche perché non esistono le ragioni per le quali la nozione è stata elaborata dalla CEDU stessa, la quale si trova di fronte ad ordinamenti statuali fortemente differenziati e ritiene, del tutto comprensibilmente, che non sia suo compito imporre agli Stati un determinato modello costituzionale. Critico è anche Cicconetti, il quale non ritiene sufficiente che, perché possa predicarsi l’autonomia e l’indipendenza di un organo giudicante, che questo sia composto da uomini diversi da quelli che hanno adottato il provvedimento impugnato [11], in quanto il condizionamento dei parlamentari giudicanti deriva da un dato oggettivo: l’appartenenza, sia pure a diverso titolo, dei soggetti giudicanti all’istituzione che adotta i provvedimenti suscettibili d’impugnazione da parte di dipendenti o di terzi. La Corte di Strasburgo non chiarisce le ragioni per le quali un giudice in causa propria possa ritenersi compatibile con le garanzie dell’art. 6 § 1 CEDU, e neppure chiarisce perché in controversie con i dipendenti possa derogarsi alla giurisdizione dei giudici comuni: la Corte europea si esime dal valutare il rispetto del principio di proporzionalità da parte dell’autodichia (le pur validissime esigenze di attribuire la massima indipendenza del Parlamento, che sono alla base dell’istituto dell’autodichia, consentono di derogare al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione, riaffermato da ultimo con la citata sentenza n. 74 del 2013), criterio che l’avrebbe obbligata a ricercare un punto di equilibrio fra autonomia della Camera (e, più in generale, degli organi costituzionali) e tutela giurisdizionale dei diritti, affrontando così anche la questione dell’ampiezza nell’ambito di applicazione della prerogativa parlamentare. La grandissima parte della dottrina si mostra da sempre estremamente critica e dura nei confronti dell’autodichia e ha da tempo sollevato dubbi sulla sua compatibilità con gli articoli 3, 24, co. 1, 101, co. 1, 108, co. 2, 113 Cost. [12]. Le critiche mosse dalla dottrina all’autodichia possono essere così riassunte: − l’art. 24 Cost. afferma che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”, per cui le limitazioni a siffatta regola generale dovrebbero per lo meno essere espressamente previste dalla Costituzione, così come del resto avviene con l’art. 66 Cost., secondo cui “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità” [13]; − l’autodichia non è un necessario corollario del principio della divisione dei poteri il quale non può interpretarsi nel senso di dover assicurare l’impenetrabilità tra i vari organi e le rispettive funzioni primarie, ma è anzi attuato attraverso forme di reciproco controllo: si pensi, per il Parlamento, al potere del Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere, chiedere una nuova deliberazione (art. 74 Cost.) e a quello della Corte costituzionale di giudicare sulla legittimità costituzionale (art. 134 Cost.): del resto, anche proprio nell’ottica di una rigida e formale divisione dei poteri, poiché la funzione del Parlamento è quella di fare le leggi, non spetterebbe ad esso la ben distinta funzione di giudicare sui ricorsi relativi ai propri dipendenti [14]; − si tratterebbe di una anacronistica intangibilità ormai priva di senso, non essendovi oggi bisogno di affermare la supremazia assoluta del Parlamento come invece accadeva negli anni immediatamente successivi alla caduta della monarchia[15]; − si creerebbero non necessari privilegi a scapito del principio di serietà ed effettività della tutela giurisdizionale dei dipendenti della Camera, che realizzerebbe una situazione di disparità di trattamento fra cittadini che crea un vulnus al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. [16]; − rappresenterebbe una forzatura postulare l’assoluta indipendenza degli organi costituzionali anche per quegli atti, come quelli relativi al personale, non rientranti concettualmente e sostanzialmente nella funzione primaria di tali organi [17]; − si tratterebbe di un “privilegio” del quale gli organi costituzionali possono fare a meno senza alcun pericolo per la loro indipendenza o autonomia guarentigiata[18].

4. La tutela della riservatezza e il diritto all’oblio in internet. 

La rappresentazione di chi siamo (la nostra reputazione) dipende da sempre non soltanto da ciò che diciamo e che lasciamo conoscere di noi, vale a dire dai dati che mettiamo in circolazione, ma anche e soprattutto dall’appropriazione e dalla gestione dei nostri dati da parte di altri; ed il mezzo e il luogo ove ciò avviene più facilmente e diffusamente è senz’altro oggi internet [19]. Dopo la seconda guerra mondiale, il diritto alla privacy venne riconosciuto in due importanti fonti internazionali. La prima è la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea delle Nazioni Unite a New York, il cui art. 12 statuisce che “nessun individuo può essere sottoposto ad interferenze nella sua vita privata”. La seconda è l’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950, la quale riconosce “il diritto di ogni persona al rispetto della sua vita privata e familiare”. Successivamente, il 28 gennaio 1981 è stata firmata a Strasburgo la Convenzione sul rispetto delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati a carattere personale, resa esecutiva in Italia con l. 21 febbraio 1989, n. 98. Internet, oltre che un mezzo di comunicazione che permette di scambiare e comunicare dati istantaneamente e in ogni parte del mondo [20] è anche considerato “un ambiente, un mondo virtuale dove si svolge una parte rilevante della vita delle persone” [21]. La natura transnazionale di internet ne determina quindi un grande potenziale dannoso: una informazione riguardante un dato personale di una persona, se posto su internet, diventa immediatamente accessibile a tutto il mondo. L’attuale sfida di internet è quella di conciliare, bilanciare, opposti interessi, quello alla protezione dei dati personali e quello a permettere la diffusione di fatti e notizie senza eccessive limitazioni [22]: da un lato infatti internet offre la possibilità di un enorme sviluppo del diritto costituzionalmente riconosciuto (art. 21 Cost.) di manifestare il proprio pensiero [23] (un cui evidente corollario è la possibilità di diffondere adeguatamente le proprie idee ad un pubblico sufficientemente vasto) e dall’altro però pone dei seri problemi di tutela della privacy [24]. In effetti, qualsiasi dato personale può da un soggetto che ne effettua il trattamento essere memorizzata nella rete internet. Mentre però un trattamento all’interno di un archivio si caratterizza per essere ordinato secondo criteri determinati, con informazioni intercorrelate volte ad agevolarne l’accesso e a consentirne la consultazione, la rete internet costituisce invece un luogo ove le informazioni non sono archiviate ma solo memorizzate. Esso è dotato di una memoria illimitata e senza tempo, emblematico essendo al riguardo il comune riferimento al “mare di internet”, all’”oceano di memoria” in cui gli internauti “navigano”. Nella rete internet le informazioni non sono in realtà organizzate e strutturate, ma risultano isolate, poste tutte al medesimo livello (“appiattite”), senza una valutazione del relativo peso, e prive di contestualizzazione, prive di collegamento con altre informazioni pubblicate. Il motore di ricerca è infatti un mero intermediario telematico, che offre un sistema automatico di reperimento di dati e informazioni attraverso parole chiave, un mero database che indicizza i testi sulla rete e offre agli utenti un accesso per la relativa consultazione. Esso è un mero fornitore del servizio di fruizione della rete, limitandosi a rendere accessibili sul sito web i dati dei c. d. siti sorgente, assolvendo ad un’attività di mero trasporto delle informazioni. In particolare Google è notoriamente un motore di ricerca, che si limita a offrire ospitalità sui propri server a siti internet gestiti dai relativi titolari in piena autonomia, i quali negli stessi immettono e memorizzano le informazioni oggetto di trattamento. Al riguardo il motore di ricerca non svolge dunque un ruolo attivo (avendo peraltro il potere-dovere di impedirne la indicizzazione ed il posizionamento una volta venuto a conoscenza del contenuto illecito delle medesime contenute nei siti sorgente). Il trascorrere del tempo assume d’altro canto rilievo con riferimento sia agli archivi del soggetto che accede alla rete internet sia alla memoria di quest’ultima. Decisivo si appalesa al riguardo l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, sia essa di cronaca o storica. A fronte dell’esigenza di garantire e mantenere la memoria dell’informazione si pone infatti il diritto all’oblio del soggetto cui l’informazione si riferisce. Se del dato è consentita la conservazione per finalità anche diversa da quella che ne ha originariamente giustificato il trattamento, con passaggio da un archivio ad un altro, nonché ammessa la memorizzazione (anche) nella rete di internet (es., pubblicazione on line degli archivi storici dei giornali), per altro verso al soggetto cui esso pertiene spetta un diritto di controllo a tutela della proiezione dinamica dei propri dati e della propria immagine sociale, che può tradursi, anche quando trattasi di notizia vera nella pretesa alla contestualizzazione e aggiornamento della notizia, e se del caso, avuto riguardo alla finalità della conservazione nell’archivio e all’interesse che la sottende, financo alla relativa cancellazione. Ai fini della lecita e corretta utilizzazione dei dati è dunque necessario che sussista una stretta correlazione temporale tra l’identificabilità del titolare dei dati e la finalità del relativo trattamento, che condiziona la persistente identificabilità del soggetto titolare dei dati ma è a sua volta normativamente astretta dai rigorosi limiti temporali per i quali è giustificata (“per un periodo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati”: d. lgs. n. 196 del 2003, art. 11, co. 1). Al riguardo, con riferimento alla rete internet non si pone allora un problema di pubblicazione o di ripubblicazione dell’informazione, quanto bensì di permanenza della medesima nella memoria della rete internet e, a monte, nell’archivio del titolare del sito sorgente. Se il passaggio dei dati all’archivio storico è senz’altro ammissibile, ai fini della liceità e correttezza del relativo trattamento e della relativa diffusione a mezzo della rete internet è indefettibilmente necessario che l’informazione e il dato trattato risultino debitamente integrati e aggiornati. Anche in tal caso i dati debbono risultare “esatti” e “aggiornati”, in relazione alla finalità del loro trattamento. A fortiori in caso di relativo inserimento in un archivio storico che come nella specie venga memorizzato pure nella rete di internet la notizia non può continuare a risultare isolatamente trattata e non contestualizzata in relazione ai successivi sviluppi della medesima. Ciò al fine di tutelare e rispettare la proiezione sociale dell’identità personale del soggetto, che costituisce invero proprio o essenzialmente lo scopo che fonda l’interesse pubblico, a sua volta a base della finalità del trattamento, alla persistente conoscenza della notizia. Se pertanto l’interesse pubblico alla persistente conoscenza di un fatto avvenuto in epoca (di molto) anteriore trova giustificazione nell’attività svolta dal soggetto titolare dei dati, e tale vicenda ha registrato una successiva evoluzione, dalla informazione in ordine a quest’ultima non può invero prescindersi, giacché altrimenti la notizia, originariamente compieta e vera, diviene non aggiornata, risultando quindi parziale e non esatta, e pertanto sostanzialmente non vera. Se vera, esatta ed aggiornata essa era al momento del relativo trattamento quale notizia di cronaca, e come tale ha costituito oggetto di trattamento, il suo successivo spostamento in altro archivio di diverso scopo (nel caso, archivio storico) con memorizzazione anche nella rete internet deve essere allora realizzato con modalità tali da consentire alla medesima di continuare a mantenere i suindicati caratteri di verità ed esattezza, e conseguentemente di liceità e correttezza, mediante il relativo aggiornamento e contestualizzazione. Solo in tal modo essa risulta infatti non violativa sia del diritto all’identità personale o morale del titolare, nella sua proiezione sociale, del dato oggetto di informazione e di trattamento, sia dello stesso diritto del cittadino utente a ricevere una completa e corretta informazione. Anche laddove come nella specie non si ponga una questione di tutela contro la diffamazione o di protezione dell’immagine o dell’onore, sussiste allora in ogni caso l’esigenza di salvaguardare il diritto del soggetto al riconoscimento e godimento della propria attuale identità personale o morale. Ha così affermato Cass., 22 maggio 2012, n. 5525, che l’editore di un quotidiano che memorizzi nel proprio archivio storico della rete internet le notizie di cronaca, mettendole così a disposizione di un numero potenzialmente illimitato di persone, è tenuto ad evitare che, attraverso la diffusione di fatti anche remoti, possa essere leso il diritto all’oblio delle persone che vi furono coinvolte. Pertanto, quando vengano diffuse sul web notizie di cronaca giudiziaria, concernenti provvedimenti limitativi della libertà personale, l’editore è tenuto garantire contestualmente agli utenti un’informazione aggiornata sullo sviluppo della vicenda, a nulla rilevando che essa possa essere reperita “aliunde”. Analogamente la Cassazione (Cass. 26 giugno 2013, n. 16111) ha affermato il principio secondo cui il diritto del soggetto a pretendere che proprie, passate vicende personali non siano pubblicamente rievocate (nella specie, il c.d. diritto all’oblio era invocato in relazione ad un’antica militanza in bande terroristiche) trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto (nella specie, il ritrovamento di un arsenale di armi nella zona di residenza dell’ex terrorista) trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità, diversamente risolvendosi il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza. Atteso che il trattamento dei dati personali può avere ad oggetto anche dati pubblici o pubblicati (Cass., 25 giugno 2004, n. 11864), il diritto all’oblio salvaguarda in realtà la proiezione sociale dell’identità personale, l’esigenza del soggetto di essere tutelato dalla divulgazione di informazioni (potenzialmente) lesive in ragione della perdita (stante il lasso di tempo intercorso dall’accadimento del fatto che costituisce l’oggetto) di attualità delle stesse, sicché il relativo trattamento viene a risultare non più giustificato ed anzi suscettibile di ostacolare il soggetto nell’esplicazione e nel godimento della propria personalità. Il soggetto cui l’informazione oggetto di trattamento si riferisce ha in particolare diritto al rispetto della propria identità personale o morale, a non vedere cioè “travisato o alterato all’esterno il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale” (Cass., 22 giugno 1985, n. 7769), e pertanto alla verità della propria immagine nel momento storico attuale. Rispetto all’interesse del soggetto a non vedere ulteriormente divulgate notizie di cronaca che lo riguardano si pone peraltro l’ipotesi che sussista o subentri l’interesse pubblico alla relativa conoscenza o divulgazione per particolari esigenze di carattere storico, didattico, culturale o più in generale deponenti per il persistente interesse sociale riguardo ad esse. Un fatto di cronaca può, a tale stregua, assumere rilevanza quale fatto storico, il che può giustificare la permanenza del dato mediante la conservazione in archivi altri e diversi (es., archivio storico) da quello in cui esso è stato originariamente collocato. Nella recente giurisprudenza costituzionale in tema di riservatezza l’attenzione è soprattutto focalizzata sul delicato tentativo di bilanciare tale diritto con altri di pari dignità costituzionale. Così, nella sentenza n. 278 del 2013, a proposito dall’art. 177, comma 2, del codice della privacy, «nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica», si afferma che la scelta per l’anonimato legittimamente impedisce l’insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, e pertanto non appare ragionevole che quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”: potendosi quella scelta riguardare, sul piano di quest’ultima, come opzione eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta. Sempre la Consulta, nel celebre conflitto di attribuzione che ha visto opposti la Procura di Palermo al Presidente della Repubblica in merito all’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche in cui era parte quest’ultimo (sentenza n. 1 del 2013), la Corte costituzionale, nel risolvere il conflitto a favore del Presidente della Repubblica in ragione delle superiori esigenze di riservatezza che fanno capo a quest’ultimo, ha affermato che la “garanzia della riservatezza” è un “principio generale valevole per tutti i cittadini, ai sensi dell’art. 15 Cost.” e che sussiste un “generale interesse alla segretezza delle comunicazioni (quali la libertà di religione, il diritto di difesa, la tutela della riservatezza su dati sensibili ed altro)”. Dunque è esplicitamente affermato che il diritto alla riservatezza riguarda tutti i cittadini, che ha fondamento costituzionale nell’art. 15 Cost. ed che una sua estrinsecazione consiste nella tutela della riservatezza sui dati sensibili. La sentenza n. 1 del 2013 della Corte costituzionale riconduce dunque esplicitamente al diritto alla riservatezza la tutela della riservatezza sui dati sensibili. Secondo la Corte costituzionale infatti, il diritto alla riservatezza è un diritto inviolabile dell’uomo, riconducibile agli artt. 2 e 15 Cost. È da notare che il termine riservatezza è assente dall’art. 15 Cost.; tuttavia, come già ricordato, a seguito della riforma del giusto processo, la legge costituzionale n. 2 del 1999 ha introdotto un nuovo art. 111 Cost., il cui co. 3 stabilisce che “nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico”, a dimostrazione che con il tempo è sempre maggiormente avvertita l’esigenza sociale di una tutela contro l’altrui curiosità (sulla circostanza che con il tempo sai più pressante l’esigenza di dare al diritto fondamentale alla riservatezza una tutela più intensa si veda la qui di seguito riportata sentenza n. 173 del 2009). Con la sentenza n. 287 del 2010, la Corte costituzionale, a proposito della possibilità di eliminare dal casellario giudiziale le iscrizioni che si riferiscono ai provvedimenti giudiziari di condanna per contravvenzioni per le quali sia stata inflitta la pena dell’ammenda, ha affermato che il bilanciamento fra le due opposte tutele – quella del “diritto all’oblio” di chi si sia reso responsabile in tempi passati di modeste infrazioni alla legge penale e per un periodo congruo non abbia commesso altri reati, e quella contrapposta di precludere un’indebita reiterazione dei benefici – porti alla prevalenza della prima. Inoltre, con la sentenza n. 173 del 2009, in tema di distruzione delle intercettazioni telefoniche acquisite illegalmente, ha ritenuto la Corte costituzionale che la finalità di assicurare il diritto inviolabile alla riservatezza della corrispondenza e di ogni altro mezzo di comunicazione, tutelato dagli artt. 2 e 15 Cost., cui deve aggiungersi uguale diritto fondamentale riguardante la vita privata dei cittadini nei suoi molteplici aspetti, non giustifichi una eccessiva compressione dei diritti di difesa e di azione e del principio del giusto processo….. la pressante esigenza di dare al diritto fondamentale alla riservatezza una tutela più intensa, rispetto a quella, rivelatasi insufficiente, del recente passato, induce a ritenere non irragionevoli particolari modalità di trattamento del materiale probatorio, che riescano a contemperare tutti i diritti e principi fondamentali coinvolti in questa delicata materia. Ha altresì affermato la sentenza n. 165 del 2008, a proposito dell’obbligo posto in capo al proprietario del veicolo di comunicare i dati personali e della patente del conducente, non identificato al momento della commessa violazione che, “in tema di violazione del diritto alla riservatezza dei dati personali la giurisprudenza costituzionale in materia, pur nel quadro di una progressiva valorizzazione di tale diritto, ha sempre sottolineato la necessità di bilanciarne la tutela con la salvaguardia di altri interessi costituzionalmente rilevanti. Significative, in tale prospettiva, sono le pronunce di questa Corte, ancorché risalenti, intervenute sul punto, le quali sottolineano la necessità che la «sfera di riservatezza» sia «rispettata nei limiti in cui lo consenta la tutela degli interessi della collettività nel campo della sicurezza, dell’economia e della finanza pubblica» (sentenza n. 121 del 1963), ovvero precisano come non possa affatto escludersi che, «nella vita privata e familiare», possa «aversi ingerenza della pubblica autorità», a condizione che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca «una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, la sicurezza pubblica, il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine e la prevenzione delle infrazioni penali, la protezione dei diritti e delle libertà altrui» (sentenza n. 104 del 1969)”. A proposito della necessità per il pubblico ministero, per accedere a fini d’indagine a dati concernenti il traffico telefonico, di ottenere, nei ventiquattro mesi successivi alle relative comunicazioni, un preventivo provvedimento giudiziale di autorizzazione o di acquisizione dei dati medesimi, ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 372 del 2006 che “il legislatore ha operato un bilanciamento tra il principio costituzionale della tutela della riservatezza dei dati relativi alle comunicazioni telefoniche, riconducibile all’art. 15 Cost. (sentenza n. 81 del 1993), e l’interesse della collettività, anch’esso costituzionalmente protetto, alla repressione degli illeciti penali. Il sindacato di legittimità di questa Corte deve limitarsi alla verifica che la norma impugnata non abbia imposto limitazioni manifestamente irragionevoli dell’uno o dell’altro”. Le esigenze di bilanciamento della riservatezza con altri valori emergono immediatamente anche dalla lettura della giurisprudenza della Corte di Giustizia: nella sentenza della Grande Sezione, 29 giugno 2010, C-28/08, la Corte di Giustizia dell’Unione europea afferma la necessità di bilanciare il principio della maggiore trasparenza possibile del processo decisionale delle pubbliche autorità, nonché delle informazioni sulle quali le loro decisioni si basano, con quello volto a garantire la tutela delle libertà e dei diritti fondamentali delle persone fisiche, in particolare della loro vita privata, nel trattamento di dati personali. Emerge inoltre dal secondo ‘considerando’del regolamento n. 45/2001, il legislatore dell’Unione ha inteso istituire un sistema di protezione «completo» e ha ritenuto necessario, come recita il dodicesimo ‘considerando’di detto regolamento, «garantire su tutto il territorio comunitario un’applicazione coerente ed omogenea delle norme relative alla tutela delle libertà e dei diritti fondamentali delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali»; secondo il dodicesimo ‘considerando’poi, i diritti conferiti alle persone interessate per proteggere il trattamento dei loro dati personali costituiscono regole di tutela delle libertà e dei diritti fondamentali. Nell’intenzione del legislatore dell’Unione, la normativa dell’Unione relativa al trattamento di dati personali è posta a tutela delle libertà e dei diritti fondamentali. Conseguentemente, l’interpretazione particolare e restrittiva data dal Tribunale all’art. 4, n. 1, lett. b), del regolamento n. 1049/2001 non corrisponde all’equilibrio che il legislatore dell’Unione intendeva stabilire tra i due regolamenti in questione. Nella sentenza della Grande Sezione, 9 marzo 2010, C-518/07, la Corte, nell’affrontare il tema della necessaria indipendenza delle Autorità indipendenti dei singoli stati membri deputate al controllo sul trattamento dei dati personali, ne indica altresì il compito, che è quello di “stabilire un giusto equilibrio fra la protezione del diritto alla vita privata e la libera circolazione dei dati personali”; ancora, nella sentenza della Terza Sezione, 7 maggio 2009, C-553/07, la Corte afferma il dovere di bilanciare l’interesse alla riservatezza con quello alla conservazione dei dati stessi nell’interesse della pubblica amministrazione; infine nella sentenza della Grande Sezione, 16 dicembre 2008, C-73/07, a proposito della direttiva 95/46/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (cfr. par. 4. 10) la Corte afferma la necessità di bilanciare il diritto alla riservatezza con quello alla libertà di espressione. Si afferma in particolare in quest’ultima pronuncia che per ottenere un equilibrato contemperamento dei due diritti fondamentali, la tutela del diritto fondamentale alla vita privata richiede che le deroghe e le limitazioni alla tutela dei dati previste ai summenzionati capi della direttiva debbano operare entro i limiti dello stretto necessario. L’art. 145 del d. lgs. n. 196 del 2003 riconosce il potere d’intervento, oltre che dell’autorità giudiziaria, anche dell’autorità amministrativa avente funzione di vigilanza. Secondo un Autore tale norma attribuirebbe la possibilità di intervenire sia all’Autorità di garanzia per le comunicazioni sia al Garante per la protezione dei dati personali e, qualora l’illecito dovesse determinare una illecita distorsione della concorrenza, anche all’Autorità garante della concorrenza e del mercato [25]. Il Garante della Privacy non solo emana provvedimenti amministrativi diretti o a dirimere controversie concrete o a dettare norme aventi il carattere della generalità e astrattezza che coinvolgono il diritto alla riservatezza, ma in tale materia esprime anche pareri e rivolge istanze al legislatore [26]. Nel provvedimento del 4 luglio 2013 n. 341, in relazione alla pubblicazione nell’archivio storico on line del quotidiano “La Repubblica”- consultabile anche attraverso i comuni motori di ricerca esterni al sito del medesimo digitando semplicemente il nome e cognome del ricorrente – di un articolo dal titolo “XX”, riguardante la notizia del suo arresto avvenuta nel ZZ, epoca in cui il ricorrente era calciatore professionista di serie B, ha chiesto, reiterando parte delle richieste avanzate ai sensi degli artt. 7 e 8 del Codice in materia di protezione dei dati personali, in via principale, la cancellazione o il blocco dei dati personali che lo riguardano trattati in violazione di legge, e, in via subordinata, la trasformazione in forma anonima e l’aggiornamento dei dati contenuti nell’articolo stesso alla luce dell’evoluzione giudiziaria della vicenda in senso favorevole all’interessato; il ricorrente ha chiesto inoltre l’adozione, in ogni caso, delle misure tecniche idonee a garantire l’inaccessibilità dell’articolo stesso tramite i motori di ricerca esterni al sito; il Garante ha rilevato che, al fine di contemperare i diritti della persona (in particolare il diritto alla riservatezza) con la libertà di manifestazione del pensiero – e con essa anche l’esercizio della libera ricerca storica e del diritto allo studio e all’informazione – la disciplina in materia di protezione dei dati personali prevede specifiche garanzie e cautele nel caso di trattamenti effettuati per tali finalità, confermando la loro liceità, anche laddove essi si svolgano senza il consenso degli interessati, purché avvengano nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità delle persone alle quali si riferiscono i dati trattati (cfr. artt. 136 e ss. e art. 102, comma 2, lett. a), del Codice, nonché artt. 1, comma 1, e 3, comma 1, codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi storici, pubblicato in G. U. 5 aprile 2001, n. 80). A seguito del ricorso l’editore resistente ha provveduto ad adottare le misure tecniche necessarie ad interdire l’indicizzazione dell’articolo oggetto del medesimo dai motori di ricerca esterni al sito internet del quotidiano, profilo questo in ordine al quale ha dichiarato non luogo a provvedere sul ricorso.

5. Alcune esperienze straniere. 

Il diritto alla privacy gode di ampia tradizione nel mondo anglosassone. Il diritto alla riservatezza infatti è stato riconosciuto in Occidente, relativamente piuttosto di recente, verso la fine del XIX secolo, proprio in Inghilterra, quando nel 1881, sulla Harvard law review, venne pubblicato un articolo a firma di L. D. Warren e S. B. Brandeis, che per primi affermarono l’esistenza di un right to privacy [27]. Nel Regno Unito il Data protection act del 1998 costituisce attuazione della direttiva 46/95/CE sulla protezione dei dati personali e ne ripropone quindi fedelmente tutti i principi [28]. In particolare, anche la disciplina britannica prevede che i dati personali devono essere trattati in maniera non eccessiva rispetto al proposito [29]. La Suprema Corte inglese, nel caso The Rugby Football Union v. Consolidated Information Services Limited (Formerly Viagogo Limited), 2012, UKSC 55, ha affermato il principio della necessità proportionality test – or ‘ultimate balancing test’– a proposito del bilanciamento tra il diritto alla proprietà intellettuale e quello alla protezione dei dati personali, ossia un principio del tutto analogo a quello affermato da CGUE con la sentenza della Grande Sezione, 29 gennaio 2008, C-275/06 e cita spesso le norme del regolamento n. 45/2001 CE. Sempre la Suprema Corte, nel caso Public Relations Consultants Association Limited v The Newspaper Licensing Agency Limited and others, 2013, UKSC 18, ha investito la Corte di Giustizia UE della questione del se l’utilizzare delle pagine di uno sito web richieda la necessità del permesso del copyright, ossia del proprietario del sito: “the EU has traditionally afforded, as a matter of policy, a high level of protection for intellectual property rights, and the widespread use of these technologies was likely to facilitate piracy. On the other, it is clear that there was concern that the over-rigid application of copyright law devised for physical media of transmission or storage would retard the commercial development of the internet and other form of electronic media technology”. La fedeltà ai principi dell’Unione europea è sottolineata anche in dottrina, ove si afferma che la legge inglese ha incorporato l’art. 8 della CEDU [30]. Deve altresì segnalarsi il recente Defamation Act del 2013, il quale pone delle regole non dissimili da quelle che la nostra giurisprudenza civile ha elaborato per la diffamazione ed è quindi tutto incentrato sul bilanciamento tra la tutela della reputazione della persona e l’interesse alla notizia. Anche negli Stati Uniti la cultura della privacy è assai radicata e gode di grande tradizione: riferisce un Autore che la più classica definizione di privacy risale al 1890 quando il giudice americano Cooley la definì “the right to be let alone” [31]. La privacy non è citata espressamente dalla Costituzione americana, ma viene fatta discendere dall’Amendment 4[32] (Searches and seizures), secondo cui “The right of the people to be secure in their persons, houses, papers, and effects, against unreasonable searches and seizures, shall not be violated, and no Warrants shall issue, but upon probable cause, supported by Oath or affirmation, and particularly describing the place to be searched, and the persons or things to be seized”. Il diritto alla privacy è peraltro espressamente citato nella Costituzione di alcuni Stati americani: secondo l’art. 1 di quella della California “All people are by nature free and independent and have inalienable rights. Among these are enjoying and defending life and liberty, acquiring, possessing, and protecting property, and pursuing and obtaining safety, happiness, and privacy”; secondo l’art. 2, section 10, di quella del Montana invece “The right of individual privacy is essential to the well-being of a free society and shall not be infringed without the showing of a compelling state interest”. Nel caso United States v. Heckenkamp [33] la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato il principio della “reasonable expectation of privacy” ed ha ritenuto giustificata una ricerca di files all’interno di un computer in quanto vi era il ragionevole sospetto che quel computer fosse stato utilizzzato per ottenere un accesso abusivo ad un sistema informatico. Infatti, colui che aveva posto in essere la condotta illecita non poteva ragionevolmente attendersi che la propria privacy non fosse violata da coloro i quali cercavano di individuare l’autore dell’accesso abusivo. Nel caso United States v. Jones [34], la Supreme Court ha ribadito il principio della “reasonable expectation of privacy” ed ha ritenuto invalide, perché contrarie al 4° emendamento della Costituzione, le prove raccolte, in un indagine relativa a reati concernenti la droga, mediante un rivelatore di posizione satellitare GPS applicato ad un’autovettura dalla polizia senza autorizzazione giudiziaria, mentre l’autovettura si trovava posteggiata nel garage davanti la sua casa, ma ha ritenuto utilizzabili le prove raccolte quando l’auto si trovava sulla pubblica via, per l’inesistenza, in quest’ultimo caso, di una ragionevole aspettativa di privacy da parte dell’indagato. Nel caso Florida v. Jardines [35] la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato il principio della “reasonable expectation of privacy” ed ha ritenuto invalide, perché contrarie al 4° emendamento della Costituzione, le prove raccolte dalla polizia mediante un cane che annusava la droga davanti alla porta di casa dell’indagato, senza avere un’autorizzazione dell’autorità giudiziaria. In Francia non vi è una apposita norma della Costituzione che preveda il respect de la vie privée; tuttavia il Conseil Constitutionnel lo riconduce all’art. 2 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino del 1789 (che in Francia è equiparata alla Costituzione), secondo cui Le but de toute association politique est la conservation des droits naturels et imprescriptibles de l’Homme. Ces droits sont la liberté, la propriété, la sûreté et la résistance à l’oppression. Infatti, nella decisione del Consiglio costituzionale n° 2009-580 DC del 10 giugno 2009, relative à la loi favorisant la diffusion et la protection de la création sur internet, in cui si afferma la necessità di bilanciare le esigenze della proprietà intellettuale con quelle del rispetto alla vita privata, si afferma che Considérant, en premier lieu, qu’aux termes de l’article 2 de la Déclaration de 1789: “Le but de toute association politique est la conservation des droits naturels et imprescriptibles de l’homme. Ces droits sont la liberté, la propriété, la sûreté et la résistance à l’oppression”; que la liberté proclamée par cet article implique le respect de la vie privée. Nella Décision n° 94-352 DC del 18 gennaio 1995, il Consiglio costituzionale, a proposito di impianti di video sorveglianza per ragioni di ordine pubblico e rispetto della privacy, afferma la necessità di bilanciare i due aspetti: Considérant que les auteurs des saisines font grief à cet article, qui fixe un régime d’autorisation et d’utilisation des installations de systèmes de vidéosurveillance, de méconnaître l’exercice de plusieurs libertés et droits fondamentaux constitutionnellement protégés; qu’au nombre de ceux-ci figureraient, selon eux, la liberté individuelle dont l’autorité judiciaire doit assurer la garantie en vertu de l’article 66 de la Constitution, la liberté d’aller et venir sans surveillance arbitraire et généralisée et le droit au respect de la vie privée qui impliquerait un droit à l’anonymat; qu’à cette fin ils font valoir, outre la méconnaissance de principes de nécessité et de proportionnalité propres aux mesures de police, que n’auraient pas été instituées des garanties suffisantes quant à l’exercice des libertés publiques, en ce qui concerne les autorités compétentes et les circonstances requises pour délivrer les autorisations, l’usage des images et leur enregistrement ainsi que l’exercice des contrôles et recours dont doivent disposer les personnes filmées; analogamente, nella Décision n° 98-403 DC du 29 juillet 1998, il Consiglio costituzionale ha affermato la necessità di bilanciare il rispetto della vita privata con la necessità di procedere ad ispezioni per poter scoprire l’esistenza di abitazioni vuote da offrire a coloro che non hanno una abitazione: “En ce qui concerne le grief tiré des atteintes portées au droit à la vie privée et à l’inviolabilité du domicile: considérant, en premier lieu, qu’il résulte tant des termes de la loi que de son objet que la consultation des fichiers des organismes chargés de la distribution de l’eau, du gaz, de l’électricité et du téléphone, ainsi que des fichiers tenus par les professionnels de l’immobilier, est limitée aux renseignements nécessaires à la recherche des locaux vacants depuis plus de dix-huit mois et à l’identification du titulaire du droit d’usage sur ces locaux; que les agents habilités à consulter ces fichiers seront assermentés et astreints aux règles concernant le secret professionnel; que, compte tenu de ces garanties, la disposition critiquée ne met en cause aucun principe ni aucune règle de valeur constitutionnelle; qu’il en va de même de la communication au représentant de l’État par les agents des services fiscaux, lesquels sont également astreints au secret professionnel, des informations nominatives dont ils disposent sur la vacance…”. Al contrario della Costituzione francese, l’art. 9 del code civil dispone invece espressamente che Chacun a droit au respect de sa vie privée. La violazione della privacy (purché dolosa) è sanzionata anche penalmente: Article 226-1 del code penal stabilisce che: “Est puni d’un an d’emprisonnement et de 45000 euros d’amende le fait, au moyen d’un procédé quelconque, volontairement de porter atteinte à l’intimité de la vie privée d’autrui”.

6. Il bilanciamento tra valori costituzionali e il nucleo essenziale dei diritti fondamentali. 

Dalla gran mole di documentazione succintamente esaminata sembra emergere un dato fondamentale: l’esigenza di bilanciamento tra valori aventi pari dignità costituzionale quando essi si pongano irrimediabilmente in conflitto fra di loro. Così, la sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2013, pronunciata, come sopra ricordato, a proposito del noto caso riguardante l’ILVA di Taranto, ha affermato che occorre realizzare un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.). La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Analogamente, Cass., 8 agosto 2013, n. 18980, ha affermato che, in tema di trattamento dei dati personali, costituisce diffusione di un dato sensibile quella relativa all’assenza dal lavoro di un dipendente per malattia, in quanto tale informazione, pur non facendo riferimento a specifiche patologie, è comunque suscettibile di rivelare lo stato di salute dell’interessato, e ha conseguentemente ritenuto illecita la pubblicazione, da parte di un’amministrazione comunale, nell’albo pretorio nonché sul sito internet istituzionale, dei dati personali di un proprio dipendente, assente “per malattia”. In effetti, il diritto alla riservatezza, che tutela il soggetto dalla curiosità pubblica (in ciò distinguendosi dal diritto al segreto, il quale protegge dalla curiosità privata) essendo volto a tutelare l’esigenza che quand’anche rispondenti a verità i fatti della vita privata non vengano divulgati, sin dall’emanazione della L. n. 675 del 1996 (poi abrogata e sostituita dal D. Lgs. n. 196 del 2003) ha visto ampliarsi il proprio contenuto venendo a compendiarsi anche del diritto alla protezione dei dati personali. Con il D. Lgs. n. 196 del 2003, il legislatore ha introdotto un sistema informato al prioritario rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e della dignità della persona, e in particolare della riservatezza e del diritto alla protezione dei dati personali nonché dell’identità personale o morale del soggetto (D. Lgs. n. 196 del 2003, art. 2). In tale quadro, imprescindibile rilievo assume il bilanciamento tra contrapposti diritti e libertà fondamentali, dovendo al riguardo tenersi conto del rango di diritto fondamentale assunto dal diritto alla protezione dei dati personali, tutelato agli artt. 21 e 2 Cost., nonché all’art. 8 Carta dei diritti fondamentali dell’U. E., quale diritto a mantenere il controllo sulle proprie informazioni che, spettando a “chiunque” (d. lgs. n. 196 del 2003, art. 1) e ad “ogni persona” (art. 8 Carta), nei diversi contesti ed ambienti di vita, “concorre a delineare l’assetto di una società rispettosa dell’altro e della sua dignità in condizioni di eguaglianza” (così Cass., 4 gennaio 2011, n. 186). Al di là delle specifiche fonti normative, sembra che sia in ogni caso il principio di correttezza (quale generale principio di solidarietà sociale – che trova applicazione anche in tema di responsabilità extracontrattuale (cfr. in questo senso Cass., 22 maggio 2012, n. 5525) – in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso, nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui – nei limiti dell’apprezzabile sacrificio, a fondare in termini generali l’esigenza del bilanciamento in concreto degli interessi, e, conseguentemente, il diritto dell’interessato ad opporsi al trattamento, quand’anche lecito, dei propri dati. Se l’interesse pubblico sotteso al diritto all’informazione (art. 21 Cost.) costituisce un limite al diritto fondamentale alla riservatezza (artt. 21 e 2 Cost.), al soggetto cui i dati pertengono è correlativamente attribuito il diritto all’oblio, e cioè a che non vengano ulteriormente divulgate notizie che per il trascorrere del tempo risultino ormai dimenticate o ignote alla generalità dei consociati. Secondo un Autore (Cicconetti), a proposito della tutela giurisdizionale dei dipendenti degli organi costituzionali, dovendosi ricorrere ad un bilanciamento tra diversi valori (da un lato il principio di autodichia parlamentare alla stregua dell’art. 64 Cost. e dall’altro il diritto alla difesa in giudizio e il diritto ad una tutela giurisdizionale piena ed effettiva). poiché questi ultimi diritti sono stati qualificati dalla Corte costituzionale come diritti fondamentali (sentenze n. 18 del 1992, n. 232 del 1989, n. 315 del 1992, n. 148 del 1996, n. 26 del 1999, n. 29 del 2003), immodificabili dalle stesse leggi di revisione costituzionali ed in grado d’impedire l’ingresso nell’ordinamento italiano del diritto comunitario con esso contrastante (i cosiddetti contro limiti) e poiché tale qualificazione non è stato attribuito al principio di autodichia dagli artt. 64 e 66 Cost., il risultato del suddetto bilanciamento dovrebbe condurre ad una prevalenza dei principi di cui agli artt. 24, 111 e 113 rispetto all’art. 64 Cost. e di conseguenza all’illegittimità costituzionale delle norme costituzionali che prevedono il principio dell’autodichia e, a più forte ragione, nei confronti di terzi estranei. Nel caso del diritto alla riservatezza e del diritto all’oblio rispetto al principio di pubblicità degli atti parlamentari, sembra che debba svolgersi un ragionamento diverso: il diritto fondamentale alla riservatezza (artt. 21 e 2 Cost.), in quanto suscettibile di essere bilanciato con altri valori, deve fare i conti con un principio, quello di pubblicità dei lavori parlamentari, che, al contrario di quello di autodichia, ha un sicuro fondamento costituzionale nell’art. 64 Cost., e pertanto merita di essere tutelato, pur entrando sicuramente in conflitto con il diritto della persona alla riservatezza e all’oblio. Occorre pertanto cercare – secondo l’insegnamento della Corte costituzionale – un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali (sentenza n. 85 del 2013), in quanto tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. La Costituzione italiana infatti, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori della riservatezza e della pubblicità degli atti parlamentari significa infatti soltanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale. I diritti fondamentali sono quindi suscettibili di essere bilanciati con altri valori, ma solo se questo sacrificio sia dettato da esigenze particolarmente meritevoli di tutela – ossia dalla necessità di contemperare tali diritti con altri – e purché non sia mai intaccato il nucleo irrinunciabile, lo “zoccolo duro” dei diritti fondamentali. Seguendo questa impostazione, può ad esempio comprendersi quanto affermato dalla Corte costituzionale in tema di diritto alla salute: esso, nel suo aspetto di pretesa all’erogazione di prestazioni, “non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone”, per altro verso però “le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana” (sentenze nn. 432 del 2005, 252 del 2001). Nel nostro caso questo punto di equilibrio sembra essere stato ragionevolmente individuato dalla giurisprudenza prima e dal regolamento della Camera poi nella possibilità per chiunque di individuare la pagina web relativa a dati personali di un soggetto citato in un atto parlamentare e accedervi, ma tale individuazione non può avvenire casualmente, ossia semplicemente digitando su un motore di ricerca il nome di questa persona, ma occorrerà necessariamente recarsi sul sito della Camera dei Deputati, il che presuppone che un qualsiasi utente di internet potrà venire a conoscenza di questi dati solo se egli sia già in qualche modo a conoscenza di quello che vuole cercare. Note: [*] Il presente contributo è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista. [1] Si legge in particolare che da una perizia psichiatrica era emerso un grave stato psichico del ricorrente, con la diagnosi di disturbo bipolare caratterizzato da fasi depressive, spesso con idee suicide e stati di eccitamento con possibili sintomi psicotici. [2] Regolamento della Camera dei Deputati, art. 12, co. 3. L’Ufficio di Presidenza adotta i regolamenti e le altre norme concernenti: […] d) lo stato giuridico, il trattamento economico e di quiescenza e la disciplina dei dipendenti della Camera, ivi compresi i doveri relativi al segreto d’ufficio; […] f) i ricorsi nelle materie di cui alla lettera d), nonché i ricorsi e qualsiasi impugnativa, anche presentata da soggetti estranei alla Camera, avverso gli altri atti di amministrazione della Camera medesima. [3] Corte cost., sent. 8 giugno 1984, n. 170; ord 28 dicembre 2006, n. 254. [4] S. Ricciardi, Il nuovo regolamento europeo per la protezione dei dati personali: il caso Microsoft, Contr. Impr. /Europa, 2013, 3, la quale rileva una maggiore attenzione al problema della tutela della privacy su internet e in particolare il fatto che il nuovo Regolamento, che dovrebbe essere adottato nel 2014, stabilisce il principio del diritto all’oblio da internet dopo il passaggio di un certo numero di anni. [5] P. Pisicchio, Aspetti dell’autodichia parlamentare, Bari, 2010, 9-23; 79-96. [6] D. Scicolone, L’autodichia e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Stato attuale ed ipotesi evolutive degli organi di giurisdizione domestica della Corte costituzionale, in Riv. amm. Rep it., 2010, 127. Tale opinione non è peraltro pacifica in dottrina: cfr. F. G. Scoca, Il contributo della giurisprudenza costituzionale sulla fisionomia e sulla fisiologia della giurisprudenza amministrativa, in Dir. proc. amm., 2012, 371, secondo cui “l’autodichia… non ha nulla a che fare con la previsione dell’art. 66 Cost.”. Critico nei confronti dell’art. 66 Cost. è P. Pisicchio, Aspetti dell’autodichia parlamentare, Bari, 2010, 15, secondo cui è dubbia la necessaria terzietà di organi destinati a giudicare della fondamentale questione relativa alla composizione delle Camere se questi sono ontologicamente sottoposti al condizionamento delle maggioranze parlamentari; tale inconveniente si è negli ultimi anni accentuato in virtù dell’adozione del principio maggioritario, cosicché, secondo l’Autore da ultimo citato, a partire dalla XII Legislatura si può dire che la Giunta delle elezioni di Camera e Senato facit de albo nigrum. La genesi dell’art. 66 Cost. fu particolarmente sofferta: ad esempio nella seduta del 19 settembre 1946 Costantino Mortati espresse la preoccupazione che l’attività di verifica in regime di autodichia potesse risentire di valutazioni squisitamente politiche piegate alle ragioni delle maggioranze a detrimento del criterio giuridico, che rappresentava la motivazione sufficiente a sostenere una qualche forma di giurisdizionalizzazione del ruolo di verifica dei titoli di ammissione al Parlamento. Nella seduta del 10 ottobre 1947 poi Mortati mise in guardia i costituenti dai pericoli di una politicizzazione dell’organi di verifica dei poteri in un contesto culturale, com’era quello italiano del dopoguerra, in cui non vi era ancora un saldo costume che conduce allo spontaneo rispetto delle regole. Anche G. Ambrosini era critico nei confronti dell’autodichia, sostenendo che la sovranità delle Camere dovesse intendersi versata nella funzione legislativa e di controllo sull’esecutivo e non già nell’autonomia valutativa dei titoli di ammissione dei popri membri. Dello stesso tenore era A. Bozzi, che sottolineò la natura squisitamente giurisdizionale del controllo sui procedimenti elettorali, e per ciò stesso da tenere immune da ogni contaminazione politica, G. Leone, che mise in luce la natura ambiguamente bivalente della Giunta delle Elezioni, la cui competenza ha caratteristiche giurisdizionali anche se esercitate con una disciplina di tipo diverso, e P. Bulloni, che formulò una proposta di piena giurisdizionalizzazione della Giunta delle Elezioni, facendo sì che l’organo si atteggiasse come vero e proprio giudice chiamato ad emettere sentenze definitive. Ma queste obiezioni e proposte non trovarono l’accordo della maggioranza, che preferirono rimanere nel solco della tradizione dello Statuto Albertino, all’interno del quale l’autodichia significava tutelare il Parlamento dalle ingerenze della monarchia. Disse il Presidente U. Terracini: “Nel Parlamento italiano si è affermato un principio che, se non è codificato, ha non di meno un suo grande valore: il Parlamento si considera come una zona extra-territoriale; la Camera ha un’amministrazione sua e persino un suo piccolo Governo interno… La Camera ha una sovranità che non tollera, neppure nelle cose di minore importanza una qualsiasi intromissione … ogni intromissione, sia pure della magistratura, è da evitarsi”. La magistratura in effetti durante la guerra aveva sofferto di una carenza di autonomia rispetto all’esecutivo mentre i partiti politici avevano contribuito in maniera decisiva alla Resistenza. [7] Cfr. Cass. S. U, 24 novembre 2008, n. 27863; Cass. S. U., 19 febbraio 2004, n. 3335. [8] Cfr. Cass. S. U, 17 marzo 2010 n. 6529; Cass. Sez. U, 10 giugno 2004, n. 11019. [9] Così N. Occhiocupo, La Corte europea dei diritti dell’uomo dà il suo imprimatur all’autodichia della Camera dei deputati e degli altri organi costituzionali dello Stato italiano, in Dir. Unione europea, 2010, 402. [10] F. G. Scoca, Autodichia e stato di diritto, in Dir. proc. amm., 2011, 66. [11] Cfr. S. M. Cicconetti, Corte europea dei diritti dell’uomo e autodichia parlamentare, in Giur. it., 2010, 1278. [12] Cfr. F. G. Scoca, Il contributo della giurisprudenza costituzionale sulla fisionomia e sulla fisiologia della giurisprudenza amministrativa, in Dir. proc. amm., 2012, 371, secondo cui “l’autodichia contraddice frontalmente il principio dell’unità della giurisdizione e lascia sussistere organi, aventi poteri giurisdizionali, con non sono affatto contemplati nella Costituzione”; C. Delle Donne, Le alte Corti e le c. d. giurisdizioni domestiche: il recente paradosso dell’”autodichia” del Quirinale, in Riv. dir. proc., 2012, 692; M. C. Vanz, L’autodichia della Presidenza della Repubblica sulle cause dei dipendenti del Segretariato generale: un revirement poco convincente, in Riv. dir. proc., 2011, 399-406, nota critica a Cass., S. U., 17 marzo 2010, n. 6529; N. Occhiocupo, La Corte europea dei diritti dell’uomo dà il suo imprimatur all’autodichia della Camera dei deputati e degli altri organi costituzionali dello Stato italiano, in Dir. Unione europea, 2010, 397.; P. Pisicchio, Aspetti dell’autodichia parlamentare, Bari, 2010, 76, secondo cui l’autodichia delle Camere, rispondendo ad una ragione maggioritaria, potrebbe assumere determinazioni contrastanti con il principio della sovranità popolare di cui agli artt. 56 e 57 Cost. attraverso l’assunzione di deliberazioni volte ad annullare l’elezione dei membri dell’opposizione. Favorevole all’autodichia è invece A. C. Sorrentino, L’autodichia degli organi parlamentari, in Giur. merito, 2008, 544; assume poi una posizione “neutra” G. Malinconico, Attività e prassi degli organi giurisdizionali d’autodichia della Camera dei deputati, in Riv. ammin., 2011, 273, il quale, dopo aver riconosciuto la validità e la solidità delle argomentazioni contrarie alla autodichia, ne ricorda la funzione storica di preservare l’autonomia del Parlamento rispetto al potere esecutivo: la strumentalità dell’autodichia alla tutela della forma di governo parlamentare giustificherebbe l’assenza di una norma specifica che preveda l’autodichia all’interno della Costituzione. [13] D. Scicolone, L’autodichia e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Stato attuale ed ipotesi evolutive degli organi di giurisdizione domestica della Corte costituzionale, in Riv. amm. Rep it., 2010, 125. [14] N. Occhiocupo, La Corte europea dei diritti dell’uomo dà il suo imprimatur all’autodichia della Camera dei deputati e degli altri organi costituzionali dello Stato italiano, in Dir. Unione europea, 2010, 397. [15] S. Conforti, Brevi considerazioni sul principio dell’autodichia, in Giur. it., 2005, 1886. [16] S. Monzani, Il rinnovato sistema di giustizia domestica della Presidena della Repubblica e l’esercizio del potere di autodichia, in Foro. amm., 2010, 1408. [17] M. R. Morelli, Sul problema di costituzionalità della autodichia delle camere nelle controversie di impiego dei propri dipendenti, in Giust. civ., 1978, 109. [18] F. G. Scoca, Autodichia e stato di diritto, in Dir. proc. amm., 2011, 68, secondo cui si tratterebbe di un privilegio in quanto consente a tali organi di essere giudici delle proprie cause, contro il noto brocardo nemo iudex in causa propria. Privilegio inutile, perché non è affatto essenziale per assicurare effettività alla posizione di autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali; privilegio odioso, come tutti i privilegi, e ancor più perché attribuito agli organi che dovrebbero garantire l’osservanza dello Stato di diritto; si esprime in termini di “ragioni di prestigio non rilevanti nell’attuale ambiente storico culturale” Cass. 11 luglio 1977, n. 356, (ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale di una norma del regolamento del Senato, l’art. 12, che prevede l’autodichia, questione dichiarata inammissibile dalla sentenza n. 154 del 1985), in Giust. civ., 1978, 107, con nota adesiva di M. R. Morelli, Sul problema di costituzionalità della autodichia delle camere nelle controversie di impiego dei propri dipendenti. [19] A. M. Gambino, A. Stazi, Diritto dell’informatica e della comunicazione, Torino, 2009, 32 ss.; M. Durante, Il futuro del web, la privacy, Milano, 2011, 41. [20] J. Hörnle, Cross-border internet dispute resolution, Cambridge, 2009, 19. [21] M. Romani, La globalizzazione telematica, Giuffré, 2009, 5, il quale aggiunge che nel mondo di internet sono sorte una serie di norme che vengono osservate spontaneamente da chi ne fa uso e che danno luogo a una lex informatica, secondo un meccanismo quindi simile per certi versi a quello che ha dato vita alla lex mercatoria. [22] E. Athanasekou, UK report on information tecnology, Bruylant, Bruxelles, 2000, 82. [23] J. Mc Donald QC, The internet, Oxford, 2003, 584, secondo cui “in country such as United States, where there is a developed freedom of information culture, the Internet has been regarded by pro-disclosure pressure groups as the delivery system of choice for information to which the public has a right of access”. [24] G. Smith, Internet law and regulation, Cambridge, 2002, 367, secondo cui “the use of the internet for handling information may raise data protections issues”; L. Edwards, Law & the internet, 1998, Hart Publishing, Oxford, 183, secondo cui “in recent years, defamation or libel on the internet has become one of the hot topics of Internet law”; R. Uerpmann Wittzack, Principles of international internet law, in Germany law, 2010, 1253, secondo cui “States have to strike a fair balance between privacy on the one hand and internet freedom on the other hand”; M. Tushnet, Handbook of constitutional law, Routledge, 2013, 493, secondo cui “the challenges posed by new technologies can lead courts to recognize new constitutional rights”; nello stesso senso R. Borruso, L’informatica del diritto, Milano, Giuffré, 2007, 361; A. Papa, Espressione e diffusione del pensiero in internet, Giappichelli, Torino, 2009, 141; T. Ballarino, Internet nel mondo della legge, Cedam, Padova, 1998, 9. [25] A. Maietta, Il sistema delle responsabilità nelle comunicazioni via internet, i0n E. Bassoli (a cura di), Come difendersi dalla violazione dei dati su internet, Santarcangelo di Romagna, Maggioli editori, 2012, 520. [26] Cfr. ad es. la lettera del 5 luglio 2013 indirizzata al Presidente della Commissione affari costituzionali, nella quale si avanzano perplessità in relazione all’art. 10 del D. L. 21 giugno 2013, n. 69, (convertito in legge 9 agosto 2013, n. 98) con il quale si intendeva rendere libero l’accesso ad Internet tramite rete wi-fi: la norma obbligava i gestori a “garantire la tracciabilità del collegamento (MAC address)” e stabilisce che la “registrazione della traccia delle sessioni” ove non associata all’identità dell’utilizzatore “non costituisce trattamento di dati personali e non richiede adempimenti giuridici” (commi 1, secondo periodo e 2, primo periodo): le disposizioni in commento, nell’escludere che un trattamento di dati costituisca un trattamento di dati personali, rischiano secondo il Garante di incidere negativamente sulla tutela dei diritti fondamentali e di confliggere con la definizione stessa di dato personale contenuta nel Codice in materia di protezione dei dati personali. In tale quadro, l’Autorità, consapevole dell’importanza dell’esigenza di contemperare la liberalizzazione dell’accesso a Internet con la tutela della sicurezza pubblica e il contrasto della criminalità, ritiene che tali ultimi aspetti, con le connesse implicazioni per la protezione dei dati personali, potrebbero trovare un più meditato approfondimento in una sede diversa e più idonea di quella consentita dai ristretti tempi di approvazione di un provvedimento d’urgenza. [27] Lo riferisce E. Falletti, Comunicazione, corrispondenza e riservatezza on line, in G. Cassano, I. P. Ichino (a cura di), Diritto dell’internet e delle nuove tecnologie telematiche, Cedam, Padova, 2008, 41; L. D. Warren e S. B. Brandeis, The Right to Privacy, in Harvard law review, 1890, n. 5, 1. [28] Così I. J. LLoyd, Information tecnology law, Oxford University press, 2008, 86, il quale però ritiene altresì che i principi espressi dal Data Protection Act del 1998, in quanto fedeli alla direttiva europea, risultano nebulosi. Analogamente, ma con riguardo alla giurisprudenza della CEDU, si esprime un altro Autore inglese (E. Claes, Facing the limits of the law, Oxford, 1998, 319), secondo cui in materia di tutela della privacy la CEDU non sta certo giocando un ruolo da pioniere. [29] G. Smith, Internet law and regulation, 3° ed., Cambridge, 2002, 367. [30] E. Athanasekou, UK report on information tecnology, Bruylant, Bruxelles, 2002, 16, secondo cui l’art. 8 della CEDU, “which protects one’s private and family life, home and correspondence, is now part of the UK law”. [31] I. J. LLoyd, Information tecnology law, Oxford University press, 2008, 6. [32] Emendamento ratificato il 15 dicembre 1791 alla Costituzione del 1789 (e facente parte del Bill of rights). Il Bill of rights consiste dei primi dieci emendamenti alla Costituzione, tutti approvati nei primissimi anni di storia della nuova federazione, e condivide il tema della limitazione del potere del governo federale. L’obiezione più diffusa era che un forte governo centrale avrebbe tiranneggiato i cittadini se lasciato senza vincoli. [33] Corte Suprema degli Stati Uniti, n. 05-10322, 05-10323, del 5 aprile 2007. [34] Corte Suprema degli Stati Uniti, n. 10-1259, del 23 gennaio 2012. [35] Corte Suprema degli Stati Uniti, No. 11–564, del 26 marzo 2013. [36] S. M. Cicconetti, Corte europea dei diritti dell’uomo e autodichia parlamentare, in Giur. it., 2010, 1274. Scarica il contributo [Pdf] Scarica il quaderno Anno III – Numero 4 – Ottobre/Dicembre 2013 [pdf]

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