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Liberalizzazioni e diritti fondamentali nella diversa prospettiva delle Corti europee e nazionali

di Lorenzo Delli Priscoli e Maria Francesca Russo Abstract: The Italian term “liberalizzazioni” has a significantly different meaning than in English. Indeed, “liberalization” means the process of reducing regulations, whereas in Italy, according to the Constitutional Court, “liberalizzazioni” is the process of rationalizing regulations. Moreover, in English liberalization is often used interchangeably within deregulation, that is the process by which governments remove, reduce, or simplify restrictions and barriers to entry into markets on business and individuals with the intent of encouraging the efficient operation of markets, instituting a competitive  system. The stated rationale for deregulation is that fewer and simpler regulations will lead to a raised level of competitiveness, therefore higher productivity, more efficiency and lower prices overall. However, deregulation is different from liberalization because a liberalized market, while often having less and simpler regulations, can also have regulations in order to increase efficiency and protect fundamental and consumer’s rights, one example being antitrust legislation (to control monopoly power). Therefore, “liberalizzazioni” does not mean deregulation: it is only about reducing unnecessary “red tape”; it is about making it easier for people to start a business, to hire more staff: in other words is “simply” a “smart regulation”, because it selects and protects only fundamental rights. Il concetto di “liberalizzazioni” non è facilmente traducibile in inglese perché, secondo la Corte costituzionale, significa razionalizzazione della regolazione e non semplicemente abolizione di norme o una loro riduzione. Inoltre, il termine inglese “liberalization” è spesso usato promiscuamente con il termine “deregulation”, che sta a significare quel processo di eliminazione di barriere all’entrata sul mercato con l’intento di creare un sistema concorrenziale. Il fondamento logico delle liberalizzazioni sta infatti nel convincimento che una migliore e più snella regolazione possa portare ad un più alto livello di concorrenza, con conseguenze benefiche sulla produttività, l’efficienza e il livello dei prezzi. Tuttavia liberalizzazioni non significa solo pura e semplice abolizione di norme, perché un mercato liberalizzato e semplificato nelle regole può ben coesistere con la protezione dei diritti fondamentali. Pertanto il termine liberalizzazioni non può essere inteso come semplice “deregulation”, se non per il fatto di tendere a eliminare la burocrazia, facilitando ad esempio l’avvio di un’impresa o l’assunzione di personale. In definitiva, il termine “liberalizzazioni” può semmai essere tradotto con l’espressione “smart regulation” (regolazione intelligente), perché seleziona e protegge soltanto i diritti fondamentali. Sommario: 1. CEDU, Carta di Nizza, Costituzione e libertà d’impresa. – 2.  Le diverse filosofie di CEDU e Corte di Giustizia. – 3.  Le liberalizzazioni dal punto di vista giuridico (razionalizzazione della regolazione) e da quello economico (abbattimento delle barriere). – 4. I diritti fondamentali quale argine contro il pericolo di deregulation. – 5.  La liberalizzazione delle professioni intellettuali: le difficoltà di un ragionevole bilanciamento tra i diritti fondamentali e i valori del mercato. 1. CEDU, Carta di Nizza, Costituzione e libertà d’impresa. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, al contrario della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[1] (c.d. Carta di Nizza), non contemplano quale diritto fondamentale la libertà d’impresa. Tale differenza non è casuale, se si considera che la Carta di Nizza è entrata a far parte a pieno titolo del Diritto dell’Unione europea – a differenza della Convenzione EDU[2] – e il diritto dell’Unione europea è tuttora saldamente legato alle sue origini ossia alla protezione dei diritti della concorrenza e del mercato e delle connesse tradizionali libertà di circolazione delle merci, dei servizi, delle persone e dei capitali. Ciò naturalmente non deve far dimenticare che l’Unione europea ha di recente ampliato il suo ambito di competenze alla protezione dei diritti fondamentali, ma questi sono pur sempre tutelati e disciplinati nell’ambito di una persona che si muove in un mercato, ossia nell’ambito dell’esercizio delle sue libertà economiche[3]. La Convenzione EDU e la conseguente giurisprudenza della Corte EDU invece sono nate e si sono sviluppate nell’ottica di una tutela dell’essere umano a prescindere dal suo agire economico e non si pongono tanto problemi di bilanciamento dei diritti fondamentali con altri valori quanto della violazione o meno dei diritti fondamentali stessi. E’ innegabile però che la sempre più frequente e stretta connessione tra valori del mercato e diritti fondamentali[4] – lo si vedrà proprio con l’esempio delle liberalizzazioni – rende sempre più ineludibile il problema di un bilanciamento fra gli stessi. Venendo alla libertà d’impresa nella nostra Costituzione, occorre necessariamente partire dall’art. 41 Cost. (ove pure la libertà d’impresa non è espressamente citata), che è il frutto dell’accordo («compromesso» è la parola che usa Togliatti)[5] tra le tre anime presenti in sede di Assemblea Costituente, quella liberale (si pensi a Luigi Einaudi), di cui è espressione il co. 1 (libertà d’iniziativa economica), quella cattolica (si pensi a Alcìde De Gasperi), di cui è espressione il co. 2 (l’utilità sociale e i c.d. limiti “negativi” alla libertà d’iniziativa economica), quella comunista/socialista (si pensi a Palmiro Togliatti) di cui è espressione il co. 3 (c.d. limiti “positivi” alla libertà d’iniziativa economica). La scelta dei Costituenti è stata nel senso di considerare l’iniziativa economica come libera[6], ma, al contrario di molte libertà civili essa non è qualificata come inviolabile (si vedano invece gli artt. 13, 14, 15 Cost., in tema rispettivamente di libertà personale, domicilio, corrispondenza); sono inoltre apprestati vincoli assai più rigidi e penetranti (cfr. co 2 e 3 dell’art. 41 Cost.) di quelli previsti per le libertà civili; infine la Corte costituzionale non ha mai qualificato l’iniziativa economica come diritto fondamentale. Questi dati hanno fornito il fondamento giustificativo di quelle ricostruzioni che hanno assegnato alla predetta libertà uno status di libertà “dimidiata”, di un rango diverso ed inferiore rispetto alle libertà civili, non configurabile come diritto fondamentale. Fin dall’inizio l’art. 41 Cost., soprattutto per quanto riguarda il limite dell’“utilità sociale” ha avuto numerose critiche, per la sua formulazione pericolosamente generica, troppo ampia, inconoscibile, indeterminata e indeterminabile. 2. Le diverse filosofie di CEDU e Corte di Giustizia La Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) da un lato, tradizionalmente deputata alla tutela del mercato, e Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e Corti Supreme nazionali dall’altro, più propense ad avere particolare cura del rispetto dei diritti fondamentali, hanno avuto senz’altro negli ultimi anni un forte processo di “avvicinamento”. Per quanto riguarda infatti la CGUE, con l’approvazione del Trattato di Lisbona, avvenuta il 1° dicembre 2009, il nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione europea afferma che “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [c.d. Carta di Nizza]… che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati”, e quindi i diritti fondamentali entrano a pieno titolo a far parte dei valori che la CGUE è tenuta a far rispettare. Tuttavia non può dimenticarsi che i diritti fondamentali erano stati in precedenza trascurati (per non dire “dimenticati”) dall’Unione europea, che, quando era ancora semplicemente “Comunità economica europea” rivolgeva i suoi sforzi esclusivamente nella direzione di una integrazione economica, trascurando altri aspetti, quali da un lato un tentativo di creare una reale unione politica e dall’altro uno sforzo di imporre a tutti gli Stati membri il rispetto dei diritti fondamentali. Solo di recente si è acquisita pienamente la consapevolezza che una Unione dell’Europa effettiva si può realizzare esclusivamente attraverso una integrazione e una cooperazione in tutti i campi, ivi compresi i diritti fondamentali, e ciò tra l’altro anche al fine di realizzare una più soddisfacente integrazione economica. Appare infatti chiaro solo da poco il definitivo superamento della concezione iniziale dell’Unione europea, attenta solo ad una integrazione economica e a far valere il principio di libera circolazione delle persone, delle merci, dei sevizi e dei capitali. Per quanto riguarda invece Cassazione e Corte costituzionale, esse hanno negli ultimi anni finalmente pienamente metabolizzato e fatti propri i valori della concorrenza e del mercato (si pensi all’introduzione solo nel 1990 (legge n. 287) di una disciplina antitrust nazionale, dell’inserimento per la prima volta nella Costituzione – all’art. 117, co. 2, Cost. – della parola “concorrenza” a seguito della riforma del titolo V nel 2001; alla sentenza della Cassazione a sezioni unite n. 2207 del 2005 che ha per la prima volta riconosciuto al consumatore il diritto al risarcimento del danno da condotta anticoncorrenziale; alle numerose sentenze della Corte costituzionale – da ultimo la n. 178 del 2014 – che hanno ricondotto le misure legislative di liberalizzazione delle attività economiche (comprese le professioni intellettuali) alla materia «tutela della concorrenza». D’altro canto, le nostre Corti nazionali e la CEDU hanno sempre avuto ben viva e presente la tutela dei diritti fondamentali – anche se essa ha sicuramente avuto negli ultimi tempi un forte impulso (ad opera della Corte costituzionale e anche proprio della CEDU, considerando che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo – ha avuto una “promozione” nella gerarchia delle fonti a partire dalle sentenza nn. 348 e 349 della Consulta) – perché tale tutela è radicata negli anni anni immediatamente successivi agli orrori della seconda guerra mondiale[7] e dunque proprio come reazione alla violazione sistematica dei diritti fondamentali che avvenne in quel periodo. Parimenti, ormai da tempo acquisita alla nostra cultura giuridica è la c.d. teoria dei contro limiti, che risale alla sentenza della Consulta n. 170 del 1984, innumerevoli volte citata e confermata in seguito dalle nostre Corti nazionali e che pone al vertice del nostro ordinamento i diritti fondamentali, i quali prevalgono anche sul diritto dell’Unione europea (anche se magari tale prevalenza – per ragioni di “galateo internazionale”: cfr. sentenza n. 238 del 2014, secondo cui occorre tenere conto della prospettiva di realizzazione dell’obiettivo del mantenimento di buoni rapporti internazionali, ispirati ai principi di pace e giustizia, in vista dei quali l’Italia consente a limitazioni di sovranità: art. 11 Cost. – non viene completamente esplicitata nelle motivazioni, come nel caso della c.d. sentenza Alitalia n. 270 del 2010, che ha sancito la prevalenza del diritto fondamentale al lavoro sulle norme in tema di concorrenza non solo nazionali ma anche dell’Unione europea, che avrebbero impedito la fusione tra Alitalia e Air One, in quanto tale fusione integrava a tutti gli effetti una concentrazione anticoncorrenziale). Tale principio è stato ribadito da ultimo dalla sentenza n. 238 del 2014, cit., secondo la quale i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione ed operano quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea. Non può pertanto dimenticarsi che CGUE da un lato e CEDU e le nostre Corti nazionali dall’altro, nascendo con funzioni e finalità profondamente distinte, tendono tuttora a muoversi secondo prospettive diverse, in ragione della loro storia, tradizione e formazione culturale, per certi versi opposta. Nelle nostre Corti nazionali e nella CEDU è infatti ancora saldamente al centro delle tutele l’uomo, la persona umana, mentre nella filosofia della CGUE riveste tuttora posizione preminente il corretto funzionamento del mercato, anche se nella raggiunta consapevolezza che esso altro non è che un luogo ove agiscono persone umane. Il rapporto tra tutela della concorrenza e dei diritti fondamentali e la diversità “culturali” tra CGUE da un lato e CEDU e Corti nazionali dall’altro non sempre tuttavia costituiscono un problema, e anzi talvolta marciano di pari passo e hanno permesso una reciproca e proficua crescita nei rispettivi ambiti di tutela. Così, ad esempio, in un caso riguardante specificamente l’Italia, la CGUE ha evidenziato lo stretto collegamento tra il corretto funzionamento del mercato e dei meccanismi concorrenziali da un lato e la possibilità per i cittadini di usufruire di libertà fondamentali quali quella al pluralismo dell’informazione dall’altro (CGUE, 31 gennaio 2008, Causa C-380/05). Si è in particolare affermato che il principio della libera prestazione di servizi è leso da un sistema, come quello italiano, che non consente al titolare di una concessione televisiva di trasmettere e quindi prestare di un servizio a causa della mancata assegnazione delle frequenze da parte delle autorità amministrative nazionali. Conclude la CGUE sostenendo che un sistema che limita il numero degli operatori presenti sul mercato e consolida la posizione degli operatori già attivi nel settore delle trasmissioni televisive, senza applicare criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati per la concessione delle autorizzazioni, è un ostacolo alla libera prestazione dei servizi. Coerentemente la Corte costituzionale, con la sentenza n. 206 del 2009, ha evidenziato che principio fondamentale del sistema radiotelevisivo è il pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, l’apertura alle diverse opinioni, riconducibili all’art. 21 Cost. Una sentenza della Cassazione su un tema apparentemente banale mostra poi ancora una volta la stretta connessione tra diritti fondamentali della persona e diritti economici e il reciproco vantaggio che si può trarre da una tutela congiunta dei due aspetti: ha stabilito la Suprema Corte (sentenza n. 14602 del 2007) che ai fini dello svolgimento dell’attività di propaganda a scopi commerciali in locali nei quali il consumatore si trovi temporaneamente per ragioni di studio, cura o svago, l’incaricato può accedere a tali luoghi ma è necessario che sia munito del prescritto tesserino di riconoscimento, ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 114 del 1998. In mancanza, dell’illecito rispondono tanto l’impresa per conto della quale l’incaricato agisce quanto quest’ultimo. La vendita porta  a porta mostra come sia un tutt’uno il diritto economico a non fare scelte di acquisto non adeguatamente ponderate e il diritto alla propria privacy, a non essere disturbati. Le regole a tutela del mercato e quelle poste a presidio dei diritti fondamentali dunque spesso coincidono, si intersecano di continuo e talvolta riescono a coesistere pacificamente; non si tratta dunque di due compartimenti stagni, di due dimensioni separate e incomunicabili. L’esistenza del mercato è compatibile con i diritti fondamentali, così come il consumatore è nello stesso momento una persona. In effetti la Costituzione italiana mette sì al vertice del sistema l’essere umano, ma inteso non come entità scissa dalla concretezza e storicità delle sue condizioni di vita, bensì colta e compresa nel suo radicamento sociale, nella pluralità e varietà dei suoi bisogni e interessi, nella molteplicità e varietà delle sue manifestazioni attive fra le quali il mercato ricopre un ruolo ed un’importanza fondamentali, tanto da potersi considerare una di quelle «formazioni sociali» in cui, secondo l’art. 2 Cost., si svolge la personalità dell’uomo. 3. Le liberalizzazioni dal punto di vista giuridico (razionalizzazione della regolazione) e da quello economico (abbattimento delle barriere) La sentenza n. 200 del 2012 della Corte costituzionale, confermata dalla sentenza n. 178 del 2014, ha affermato che «la liberalizzazione, intesa come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale». Da un punto di vista economico invece, con il termine «liberalizzazione» si intende la possibilità di svolgere attività economiche prima non accessibili a causa dell’esistenza di “barriere all’entrata” sul corrispondente mercato. Per barriera all’entrata su di un determinato mercato – cercando di offrirne una definizione, cosa tutt’altro che semplice – può intendersi qualsiasi ostacolo, di carattere economico, amministrativo o tecnico, che impedisca o renda significativamente più difficoltoso alle altre imprese l’ingresso sul mercato su cui agisca l’impresa che della barriera stessa usufruisce, oppure qualsiasi fattore (la qualità del prodotto, un marchio celebre, un brevetto, il know-how) che, pur non ostacolando l’ingresso di altre imprese sul mercato, sia in grado di differenziare in maniera significativa il prodotto dell’impresa che disponga della barriera (tanto da attribuire all’impresa una posizione di monopolio). In altre parole, per barriera può intendersi qualsiasi ostacolo che impedisca o renda significativamente più difficoltosa la produzione o la vendita di beni merceologicamente simili a quelli dell’impresa protetta dalla barriera o la vendita di beni negli stessi luoghi nei quali agisce l’impresa che gode della barriera. L’impresa che disponga della barriera ha dunque la possibilità di usufruire di una determinata zona, geograficamente e/o merceologicamente delimitata in maniera più o meno netta dalla barriera, entro cui il gioco della concorrenza non esiste oppure è fortemente limitato. In questa zona l’impresa che detenga una posizione dominante potrà svolgere efficacemente un’azione restrittiva della concorrenza, riuscendo a conseguire sovrapprofitti di carattere monopolistico; fuori di questa zona si ristabiliscono invece le condizioni di concorrenza e ogni comportamento, pure astrattamente anticoncorrenziale risulterà essere del tutto improduttivo. Liberalizzare significa dunque abbattere le barriere che impediscono alle imprese di entrare sul mercato sul quale agiscono una o più imprese che della “non liberalizzazione” approfittano: esse infatti godono di una posizione dominante, che perderanno con l’avvenuta liberalizzazione. Il concetto di posizione dominante è a sua volta decisivo nelle leggi poste a tutela della concorrenza: per stabilire se un qualunque comportamento posto in essere da una o più imprese possa definirsi abusivo e assumere così giuridica rilevanza ai sensi della legge n. 287 del 1990 (c.d. legge antitrust) e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, è sempre condizione necessaria la verifica dell’esistenza di una posizione dominante, la quale, come detto, dipende dal possesso, in capo all’impresa o alle imprese, di una barriera – posta a protezione del mercato in cui esse agiscono – che le difenda dagli “attacchi” delle imprese potenzialmente concorrenti. Si tratta di un procedimento complesso perché vi è innanzitutto un provvedimento legislativo che elimina la barriera o le barriere; il più delle volte inoltre trasforma il vecchio monopolista (o, ma più raramente, i vecchi oligopolisti) da ente pubblico o da azienda pubblica in società per azioni: da qui la possibilità per le imprese private di entrare nel relativo mercato e la possibilità per i privati di acquistare le azioni della novella società. È per questo che il processo di liberalizzazione è strettamente legato al processo di privatizzazione; con il termine «regolazione» si intende invece ogni specie di ingerenza pubblica nell’economia. La posizione dominante può essere definita come una situazione che, pur non coincidendo necessariamente con il monopolio, ad esso si avvicina, in modo da consentire a chi la detiene di tenere un comportamento significativamente indipendente nei confronti delle imprese concorrenti e dei consumatori[8]: non è dunque necessario che un’impresa abbia eliminato ogni possibilità di concorrenza. In altre parole la posizione dominante è quella situazione che permette all’impresa o alle imprese che la detengano di abusarne, provocando così una limitazione della concorrenza all’interno del mercato in cui operino. Quelli che la Corte costituzionale chiama “inutili oneri regolamentari” sono dunque quelle che, dal punto di vista degli economisti, abbiamo definito “barriere all’entrata sul mercato” (peraltro oramai questa espressione è da tempo utilizzata anche nel linguaggio giuridico: cfr. ad esempio Corte cost. n. 274 del 2012) e che invece, da un punto di vista della legge antitrust, possono tradursi – qualora la loro presenza impedisca il regolare dispiegarsi della concorrenza sull’intero territorio nazionale o in una sua parte significativa – in una posizione dominante. Sempre nella sentenza n. 200 del 2012, afferma ancora la Corte costituzionale che con la normativa censurata il legislatore ha inteso stabilire alcuni principi in materia economica orientati allo sviluppo della concorrenza, mantenendosi all’interno della cornice delineata dai principi costituzionali. Così, dopo l’affermazione di principio secondo cui in ambito economico «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», segue l’indicazione che il legislatore statale o regionale può e deve mantenere forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra l’altro – oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena osservanza dei principi costituzionali legati alla tutela della salute, dell’ambiente, del patrimonio culturale e della finanza pubblica – in particolare la tutela della sicurezza, della libertà, della dignità umana, a presidio dell’utilità sociale di ogni attività economica, come l’art. 41 Cost. richiede. La disposizione impugnata afferma il principio generale della liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale. Complessivamente considerata, essa non rivela elementi di incoerenza con il quadro costituzionale, in quanto il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale[9]. La sentenza si inserisce dunque in maniera perfettamente coerente nella lettura data dalla Corte costituzionale all’art. 41 Cost.: il bilanciamento di valori tra utilità sociale e iniziativa economica privata va effettuato solo nel caso in cui esistano effettivamente delle ragioni di utilità sociale (ossia come detto valori del rango di lavoro, salute, ambiente: cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 56 del 2015, secondo cui «non è configurabile una lesione della libertà d’iniziativa economica allorché l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all’utilità sociale, oltre, ovviamente, alla protezione di valori primari attinenti alla persona umana, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, Cost., purché, per un verso, l’individuazione dell’utilità sociale non appaia arbitraria e, per altro verso, gli interventi del legislatore non la perseguano mediante misure palesemente incongrue») che si contrappongano al diritto di iniziativa economica, perché altrimenti vale il principio secondo il quale quest’ultimo diritto non incontra limitazioni di sorta. Le liberalizzazioni pertanto, costituendo a pieno titolo uno strumento fondamentale per garantire l’effettivo svolgimento di questo diritto, non possono incontrare limiti diversi da quelli costituiti dall’utilità sociale. La Corte costituzionale con la già citata sentenza n. 200 del 2012, la quale da un lato ha dichiarato legittimo il co. 1 dell’art. 3 del d.l. n. 138 del 2011 – che sancisce il principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge – perché tale principio è perfettamente coerente con l’art. 41 Cost. unitariamente considerato, ma dall’altro ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del successivo co. 3, il quale disponeva l’automatica «soppressione» di tutte le normative incompatibili con il principio della liberalizzazione delle attività economiche di cui al citato co. 1. La soppressione generalizzata delle normative statali in contrasto con il principio di cui sopra è apparsa infatti alla Consulta eccessivamente indeterminata, incompatibile con un principio così ampio e generale, risultando così tal soppressione irragionevole perché impraticabile in concreto, in quanto avrebbe posto l’interprete e gli operatori economici in una condizione di obiettiva incertezza, che anziché favorire la tutela della concorrenza, avrebbe finito per ostacolarla. Con il risultato che ad oggi – a fronte ad una affermazione di principio che è del tutto inutile perché meramente ripetitiva rispetto ad una corretta lettura dell’art. 41 Cost. – non vi sono stati, se non in minima parte, dei provvedimenti legislativi – che non possono essere improvvisati e generici ma richiedono una delicata opera di bilanciamento e ponderazione e quindi uno studio caso per caso della compatibilità di ogni singola norma vigente con i principi di cui all’art. 41 Cost. – che abbiano contribuito a sfoltire le tanti leggi che oggi sono di ostacolo ad una piena ed effettiva attuazione dell’art. 41 Cost. Rispetto alla definizione “giuridica” di liberalizzazioni, quella “economica” da essa si distingue per la circostanza di non tener conto di eventuali interessi concorrenti con quello all’abbattimento indiscriminato delle barriere, quali l’interesse alla tutela dei diritti fondamentali. Pertanto, la barriere all’entrata costituita da un ostacolo di ordine amministrativo può, nella prospettiva giuridica delle liberalizzazioni, costituire o un imprescindibile presidio dei diritti fondamentali (si pensi ad es. all’obbligo di seguire un corso di igiene e conservazione dei cibi per poter aprire un esercizio commerciale) oppure un inutile onere burocratico (si pensi ad es. alla possibilità per un maestro di sci di essere iscritto ad un solo albo provinciale dei maestri). La prospettiva economica dunque considera le liberalizzazioni come semplice deregulation, ossia come abbattimento puro e semplice di tutte le barriere, la prospettiva giuridica invece distingue tra barriera e barriera, valutandone alcune come positive ed altre come negative. La strada da percorrere verso un effettivo abbattimento di tutte le barriere “negative” all’accesso al mercato è dunque ancora lunga, e forse è soltanto iniziata; non può però negarsi che si assiste oggi da un lato ad una valorizzazione del co. 1 dell’art. 41 Cost. per quanto riguarda la necessità di effettuare le liberalizzazioni e di sciogliere le imprese dai lacci burocratici e amministrativi, lacci che il più delle volte nulla hanno a che fare con i valori tutelati dal co. 2 dell’art. 41, e dall’altro, e non contraddittoriamente, ad una esaltazione anche del co. 2 dell’art. 41 Cost., in qualità di concetto valvola in grado di dare voce ai diritti fondamentali che si contrappongono all’iniziativa economica privata. Ma soprattutto quello che oggi più viene valorizzato è l’esigenza che queste diverse istanze debbano trovare una loro composizione equilibrata, un armonico contemperamento, allo scopo di porre in essere un bilanciamento ragionevole e solidale fra i vari interessi in gioco, in coerenza con quell’economia sociale di mercato individuata dall’art. 3, co. 3, del Trattato sull’Unione europea del 7 febbraio 1992 (secondo cui l’Unione europea si basa «su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva»), con il vincolo dell’intangibilità del nucleo essenziale dei diritti fondamentali, sempre più minacciati dalla ormai endemica carenza di risorse che possono essere destinate alla tutela di valori quali il lavoro, l’ambiente, la salute, sintetizzati nella formula «utilità sociale». Dalla lettura congiunta degli artt. 41 e 43 Cost. si evince che la libertà di iniziativa economica coesiste con la possibilità di riservare ai pubblici poteri taluni ambiti di attività economica: infatti, la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41, sussiste negli ambiti nei quali non opera la riserva pubblica, ammessa dall’art. 43: le attività economiche sono normalmente aperte alla libera iniziativa, mentre la riserva pubblica dà origine ad un regime speciale, che richiede una base legale e una specifica giustificazione. Il regime di pubblico servizio è informato da criteri che non attengono al buon andamento del mercato, giacché risponde piuttosto ad esigenze che non potrebbero essere soddisfatte dal libero mercato. La riserva di attività nei confronti dei poteri pubblici può dirsi costituzionalmente legittima solo ove involga servizi pubblici essenziali, ossia volti al soddisfacimento di bisogni essenziali per la collettività, per lo più a fronte di un corrispettivo che, normalmente, non corrisponde a quello che sarebbe chiesto dal mercato. Inoltre, per effetto dell’influenza del diritto europeo sul nostro ordinamento interno, si è affermata l’idea che il ruolo dello Stato deve essere quello del regolatore (non già dell’imprenditore) che si limita a identificare deficienze del sistema e provvede a colmarle. Le norme che hanno disposto delle liberalizzazioni hanno ad oggetto soprattutto imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale (si è visto ad esempio il caso del gas). Tali norme sono pertanto dirette a conciliare da un lato la necessità (connotata da forti implicazioni pubblicistiche: si pensi soltanto all’utilità sociale) di assicurare comunque la prestazione di servizi ritenuti essenziali, anche in ipotesi in cui ciò non sia conveniente per l’impresa in termini di economicità[10] (si pensi ad esempio al servizio telefonico in alcune aree montuose particolarmente accidentate, al servizio di traghetto nei mesi invernali verso isole a forte vocazione turistica estiva e in genere ai trasporti e al ruolo regolatore e di controllo delle varie Authorities di settore) e dall’altro il rispetto, per quanto possibile, delle norme a tutela della concorrenza per quanto riguarda l’accesso al mercato in questione sia di potenziali imprese concorrenti (esiste cioè realmente la necessità di mantenere un regime di monopolio legale – come si riteneva ad esempio nel 1942 al momento dell’emanazione del codice civile – per le ferrovie?) sia dei consumatori (l’impresa che agisca in condizioni di monopolio legale non deve negare l’erogazione del servizio o prestarlo a condizioni particolarmente onerose). Vengono dunque in considerazione a questo proposito, oltre ai già citati artt. 41 e 43 Cost., gli artt. 2597 e 1679 c.c., l’art. 8 della l. n. 287 del 1990 e gli artt. 106 e 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Afferma l’art. 2597 c.c. che chi esercita un’impresa in condizioni di monopolio legale ha l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa osservando parità di trattamento.  Sottolinea altresì Alpa che nella Relazione al Re del Libro V del codice civile (n. 238), a proposito dell’art. 2597 c.c., che sancisce l’obbligo da parte di tutte le imprese che si trovino in condizioni di monopolio legale di contrattare con chiunque si afferma parità di trattamento, aggiungendosi che un tale principio si impone a difesa del consumatore come necessario temperamento della soppressione della concorrenza, tenuto conto che il regime di monopolio legale va estendendosi molto al di là di quei particolari settori (come i trasporti ferroviari) nei quali tradizionalmente si soleva considerare tale fenomeno. Secondo la Corte costituzionale tale norma va altresì interpretata alla luce dell’art. 41, co. 2, Cost., come disposizione intesa alla tutela del consumatore nei confronti dell’esercizio abusivo del proprio potere da parte del soggetto monopolista (sentenza n. 241 del 1990). Inoltre, secondo l’art. 8 della l. n. 287 del 1990, le norme a tutela della concorrenza non si applicano alle imprese che, per disposizioni di legge, esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale, solo per quanto strettamente connesso all’adempimento degli specifici compiti loro affidati. Quindi, il fatto che l’impresa eserciti la gestione di servizi di interesse generale non basta ai fini dell’esenzione dall’osservanza delle leggi antitrust, e tale norma è stata interpretata dalla Cassazione con severità nei confronti delle imprese[11]. Coerentemente, l’art. 106 TFUE stabilisce che le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Tale norma è lo strumento principale attraverso il quale la Commissione europea, soprattutto negli anni 90, ha potuto progressivamente procedere allo smantellamento dei grandi monopoli pubblici statali presenti nel mercato unico (CGUE, 8 giugno 2000 n. 258, C-258/98). 4.  I diritti fondamentali quale argine contro il pericolo di deregulation Nell’uso corrente “diritti umani”, “diritti inviolabili” e “diritti fondamentali” sono termini utilizzati in modo promiscuo ed equivalente, e, in prima approssimazione, stanno ad indicare diritti che dovrebbero essere riconosciuti ad ogni individuo in quanto tale (l’art. 2 Cost. attribuisce infatti i diritti inviolabili all’uomo e non al cittadino). Il riconoscimento dei diritti inviolabili è uno degli elementi caratterizzanti lo Stato di diritto; essi trovano la loro tutela nella “rigidità” della Costituzione e nel controllo di costituzionalità delle leggi affidato alla Corte costituzionale; inoltre anche tali diritti hanno bisogno di un passaggio “positivistico” in quanto non sono il frutto di giusnaturalistiche deduzioni razionali e quindi non sono fissati per sempre una volta per tutti. Quando però si vuole passare da affermazioni generiche e di principio a proposizioni più puntuali ci si scontra con delle gravi difficoltà: la collocazione dei diritti fondamentali nella gerarchia delle fonti; la mancata elencazione di essi una volta per tutte da parte della Corte costituzionale; l’inevitabile necessità di dover comunque “bilanciare” tale diritti con altri costituzionalmente riconosciuti e dunque l’ammissione – mai esplicita – che tali diritti sono, nella sostanza “violabili”. E in effetti la Costituzione italiana mette sì al vertice del sistema l’essere umano, ma inteso non come entità scissa dalla concretezza e storicità delle sue condizioni di vita, bensì colta e compresa nel suo radicamento sociale, nella pluralità e varietà dei suoi bisogni e interessi, nella molteplicità e varietà delle sue manifestazioni attive fra le quali il mercato ricopre un ruolo ed un’importanza fondamentali, tanto da potersi considerare una di quelle «formazioni sociali» in cui, secondo l’art. 2 Cost., si svolge la personalità dell’uomo. Nel ventunesimo secolo la Corte costituzionale parla di utilità sociale a proposito di salute, ambiente, lavoro, autonomia contrattuale, proprietà: essa è un concetto che racchiude altresì la tutela di «diritti sociali», «ritenuti di fondamentale importanza sul piano della dignità umana», quali quello all’abitazione (cfr. in questo senso la citata giurisprudenza costituzionale in tema di condono edilizio), il diritto al lavoro (cfr. sentenza 200 del 2012 e  n. 270 del 2010, 50 del 2005: quest’ultima parla di «diritto sociale al lavoro»), il diritto allo studio (sentenza n. 219 del 2002). Si tratta a ben vedere più che di diritti soggettivi, ossia della singola persona, di interessi della collettività considerata nel suo insieme e che per essere concretamente realizzati hanno bisogno di molto denaro, che molto spesso però lo Stato non ha o non si può permettere. Ecco dunque che l’utilità sociale ritorna per ricordare che nel necessario e inevitabilmente “crudele” bilanciamento tra esigenze dei singoli (a pagare meno imposte possibili) e diritti della collettività, questi ultimi non possono passare in secondo piano. L’utilità sociale appare dunque lo strumento che consente una protezione dei diritti fondamentali in una fase per così dire collettiva della loro esistenza, quando cioè sono messi in pericolo non tanto in quanto riferiti a un singolo individuo, ma in un orizzonte più ampio, con riguardo ad una collettività più o meno ampia e definita di persone. Ed in effetti vi sono diritti fondamentali che, senza neppure dover far riferimento all’utilità sociale, vivono in una dimensione individuale e in una collettiva allo stesso tempo. Così, ad esempio, a proposito del diritto fondamentale alla salute di cui all’art. 32 Cost., la sentenza n. 107 del 2012, in tema di vaccinazioni, ha affermato che la salute è al contempo un diritto fondamentale dell’individuo (lato «individuale e soggettivo») e un interesse della intera collettività (lato «sociale e oggettivo»). Emerge poi un continuo passaggio e rinvio dalla sfera individuale a quella collettiva e viceversa, dai diritti fondamentali all’utilità sociale, dai diritti inviolabili della persona, all’interesse della collettività. Il “tramite” tra la sfera individuale e quella collettiva dei diritti, il metro per decidere in merito a come effettuare il necessario bilanciamento di valori, è offerto da due principi fondamentali: quello della solidarietà sociale (oltre agli artt. 41, 42, 43 e 44 Cost., si pensi anche agli artt. della Cost. 2, 3, co. 2, e 53 – progressività dell’imposizione fiscale: cfr. la già citata sentenza n. 107 del 2012 in tema di vaccinazioni e la n. 223 del 2012 sulle retribuzioni dei magistrati) e quello della ragionevolezza (corollario del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.). Venendo poi al rapporto tra le varie fonti che riconoscono i diritti fondamentali, mi sembra che ormai sempre meno senso abbia impostare il problema in termini di rapporto di gerarchia tra le fonti: appare infatti che la distinzione tra diritti costituzionalmente riconosciuti, diritti fondamentali, diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza e quindi facenti parte dell’Unione europea e diritti riconosciuti dalla CEDU sia ormai di fatto se non superata comunque sempre meno decisiva, in virtù di una giurisprudenza costituzionale che in presenza di una pluralità di interessi costituzionalmente riconosciuti tende a ragionare in termini non tanto di gerarchia o di rispettive sfere di competenza, quanto di necessario bilanciamento tra gli interessi stessi, pur nella convinzione che esista un nucleo essenziale o irrinunciabile dei diritti fondamentali insuscettibile di essere compresso e nella consapevolezza che esiste una reciproca integrazione fra le fonti, fra le quali tende a prevalere quella che offre una maggiore tutela del diritto fondamentale. Soprattutto occorre sottolineare che i diritti fondamentali sono sì suscettibili di essere bilanciati con altri valori, ma solo se questo sacrificio sia dettato da esigenze particolarmente meritevoli di tutela – ossia dalla necessità di contemperare tali diritti con altri (tra i quali sicuramente rientrano quelli espressi dal mercato) – e purché non sia mai intaccato il nucleo irrinunciabile (cfr. la sentenza n. 119 del 2012, secondo cui è compito della Corte costituzionale vigilare sul rispetto del nucleo essenziale dei diritti fondamentali, per cui le esigenze di bilancio possono comprimere il diritto fondamentale alla previdenza di cui all’art. 38, il diritto alla salute di cui all’art. 32, ma non il loro nucleo essenziale), lo “zoccolo duro” dei diritti fondamentali. Seguendo questa impostazione, può ad esempio comprendersi quanto affermato dalla Corte costituzionale in tema di diritto alla salute: esso, nel suo aspetto di pretesa all’erogazione di prestazioni (interesse pretensivo), “non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone”, per altro verso però “le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana” (interesse oppositivo). Questi limiti inderogabili costituiscono dunque la migliore garanzia che le liberalizzazioni non si trasformino in una deregulation selvaggia irrispettosa dei diritti fondamentali. 5.  La liberalizzazione delle professioni intellettuali: le difficoltà di un ragionevole bilanciamento tra i diritti fondamentali e i valori del mercato. Nel campo della “liberalizzazione” delle professioni intellettuali il rapporto tra tutela della concorrenza e dei diritti fondamentali alla luce della giurisprudenza della CGUE e delle Corti nazionali appare assai problematico. Già l’atteggiamento della disciplina legislativa italiana è profondamente diverso rispetto a quello dell’Unione europea. In Italia il professionista intellettuale gode di una disciplina ad hoc (artt. 2229 c.c. ss.) – ben distinta da quella dell’imprenditore (artt. 2082 c.c. ss.) – basata sul principio della personalità della prestazione, sulla sua non fallibilità, sull’assenza di un obbligo di iscrizione del registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili, su di una giurisprudenza che addossa l’onere della prova della non diligenza sul cliente. Eppure non vi è una differenza “ontologica” fra l’attività dell’imprenditore in senso stretto e quella del professionista intellettuale: si pensi infatti all’ipotesi in cui la prestazione intellettuale sia fornita mediante un soggetto (ad esempio il proprietario di una clinica privata) che stipendia e organizza l’attività di professionisti intellettuali (ad esempio i medici che lavorano nella clinica): questi rimane pur sempre un imprenditore; ancora, il farmacista titolare di una farmacia riveste allo stesso tempo il ruolo del professionista intellettuale e dell’imprenditore. La ragione di una disciplina nettamente differenziata nel codice civile del 1942 del professionista intellettuale rispetto all’imprenditore deve invece ricercarsi in una condizione di privilegio che la nostra legge concede – sulla base di un’antica tradizione che risale al Medio Evo e alla nascita delle corporazioni – a coloro che esercitano le cosiddette professioni intellettuali. Nell’Unione europea invece il professionista intellettuale è assimilato all’imprenditore, tanto che l’art. 3 del codice del consumo, che recepisce una direttiva comunitaria, unifica le due figure nell’unica definizione di  professionista, che è colui agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale. Nella concezione più pragmatica, di origine anglosassone, dell’unione europea, professionista intellettuale e imprenditore vanno assimilati perché sono entrambi due soggetti che vendono beni o servizi sul mercato a fini di lucro e come tali vanno assoggettati in condizioni di parità, alle stesse regole di concorrenza (di cui il codice del consumo costituisce una espressione). Fatta questa premessa, la parola “liberalizzazione” nel nostro ordinamento va intesa, come si è visto, non come una semplice e brutale abolizione di norme (c.d. “deregulation”) – che significherebbe disconoscere il limite dell’utilità sociale – ma come una razionalizzazione, un miglioramento della disciplina precedente. Le liberalizzazioni nel campo delle professioni intellettuali consentono altresì di permettere l’esercizio di una diritto, quello dell’individuo di esplicare la propria personalità mediante l’esercizio di un’attività lavorativa (cfr. artt. 1, 2, 4 e 35 Cost.), che, a differenza di quello alla libertà del diritto di iniziativa economica – che presuppone l’interferenza dell’attività economica con altri valori costituzionali e che quindi è suscettibile di limitazioni anche significative – non può che essere considerato fondamentale. Tale diritto, nel quadro della nostra Costituzione, non può però che essere bilanciato, con quello della collettività ad avere a che fare con professionisti preparati, principio a sua volta il più delle volte posto a protezione di diritti fondamentali (così, ad esempio, nel caso dell’avvocato a tutela del diritto di difesa, e nel caso del farmacista a tutela del diritto alla salute). Qui di seguito però propongo due esempi – riguardanti proprio il primo l’avvocato e il secondo il farmacista – in cui questo bilanciamento non appare effettuato con equilibrio, probabilmente proprio a causa della diversa formazione culturale della CGUE rispetto alle nostre Corti nazionali. Così, secondo la Cassazione a sezioni unite[12], in base alla normativa comunitaria concernente il reciproco riconoscimento dei titoli abilitanti all’esercizio di una professione, il soggetto munito di un titolo equivalente a quello di avvocato conseguito in un Paese membro dell’Unione europea (nella specie, la Spagna), qualora voglia esercitare la professione in Italia, ha  diritto ad essere iscritto nell’albo ordinario con il titolo di avvocato, senza necessità di sostenere alcuna prova attitudinale, e ciò in ragione del richiamo al principio della libertà di stabilimento e alle sentenze della CGUE 22 dicembre 2010, C-118/09, e 29 gennaio 2009, C-311/06). Pertanto, il soggetto munito di equivalente titolo professionale di altro Paese membro può chiedere l’iscrizione nella Sezione speciale dell’Albo italiano del foro nel quale intende eleggere domicilio professionale in Italia, utilizzando il proprio titolo d’origine (ad es., quello, spagnolo, di «abogado») e, al termine di un periodo triennale di effettiva attività in Italia, può chiedere di essere “integrato” con il titolo di avvocato italiano e l’iscrizione all’Albo ordinario. Attraverso tale procedimento l’interessato è dispensato dal sostenere la “prova attitudinale”, richiesta a coloro che (avvalendosi del meccanismo di cui alle direttive 89/48/Ce e 05/36/Ce) chiedono l’immediato riconoscimento del titolo di origine e l’immediato conseguimento della qualifica di avvocato. In base a tali principi la Cassazione ha riconosciuto l’illegittimità del rifiuto opposto dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Palermo alla domanda di da parte di un italiano abogado in Spagna di iscrizione nella Sezione speciale del locale Albo riservata agli Avvocati comunitari stabiliti. E’ evidente dunque che con questa decisione, la Cassazione, adeguandosi acriticamente a quanto deciso dalla CGUE, non ha ritenuto (o ha dimenticato) che il principio costituzionale, espresso dal comma 5 dell’art. 33 Cost., secondo cui “è prescritto un esame di Stato… per l’abilitazione all’esercizio professionale” è posto a tutela del diritto di difesa del cittadino ex art. 24 Cost.,  e quindi, assumendo dignità di principio fondamentale, dovrebbe prevalere rispetto ai principi di libera concorrenza e libertà di stabilimento dei lavoratori. Venendo all’esempio del farmacista, una pronuncia del 2013 della CGUE (5 dicembre 2013, cause riunite da C-159/12 a C-161/12) per certi versi di segno opposto rispetto a quella riguardante l’avvocato (perché nel caso del farmacista il diritto fondamentale alla salute prevale sulla concorrenza mentre nel caso dell’avvocato la concorrenza aveva la meglio sul diritto di difesa) ma che lascia ugualmente delle perplessità (perché entrambe le fattispecie avrebbero probabilmente essere dovute decidere in maniera opposta alla luce di un più equilibrato e meno frettoloso bilanciamento di interessi) ha riconosciuto la legittimità della disciplina normativa italiana che impone un numero chiuso alle farmacie. Secondo la CGUE, la concorrenza eccessiva porterebbe il rischio di una diminuzione della qualità dei farmaci e una fuga dei farmacisti dalle zone meno redditizie: «la normativa italiana è ritenuta perseguire l’obiettivo di garantire alla popolazione un rifornimento di medicinali sicuro e di qualità, il quale rientra nell’obiettivo più generale di tutela della salute. Orbene, dall’articolo 52, paragrafo 1, TFUE risulta che la tutela della salute può giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento. L’importanza di tale obiettivo è confermata dagli articoli 168, paragrafo 1, TFUE e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in virtù dei quali, in particolare, nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana….. un regime di pianificazione in forza del quale il numero di farmacie presenti sul territorio è limitato… può rivelarsi indispensabile per colmare eventuali lacune nell’accesso alle prestazioni sanitarie e per evitare una duplicazione nell’apertura delle strutture, in modo che sia garantita un’assistenza medica adeguata alle necessità della popolazione, che copra tutto il territorio e tenga conto delle regioni geograficamente isolate o altrimenti svantaggiate…. così, non è escluso che una facoltà del genere porti ad una concentrazione di farmacie nelle località considerate più redditizie e quindi più attraenti, con il rischio per le farmacie situate in tali località di vedere diminuire la propria clientela e, di conseguenza, di essere private di una parte significativa dei loro introiti, tanto più che le farmacie sono soggette ad una serie di obblighi specifici riguardo alle modalità di gestione della loro attività commerciale. Orbene, una tale perdita di reddito potrebbe causare non soltanto una diminuzione della qualità del servizio che le farmacie forniscono al pubblico, ma anche, se necessario, la chiusura definitiva di talune farmacie, conducendo così ad una situazione di penuria di farmacie in determinate parti del territorio e, pertanto, ad un approvvigionamento inadeguato di medicinali quanto a sicurezza e a qualità, a danno della salute dei cittadini» La Corte costituzionale, con sentenza n. 216 del 2014, riprendendo e citando in gran parte le motivazioni della CGUE del 5 dicembre 2013, cit., ha dichiarato non fondata la questione relativa all’art. 5, co. 1, del d.l. n. 223 del 2006 nella parte in cui non consente alle parafarmacie la vendita di medicinali di fascia C (farmaci utilizzati per patologie di lieve entità) soggetti a prescrizione medica. Aggiunge la Consulta – pur ammettendo che sia il farmacista che il parafarmacista sono due professionisti iscritti all’albo – che fra farmacia e parafarmacia «permangano una serie di significative differenze, tali da rendere la scelta del legislatore non censurabile in termini di ragionevolezza. Si tratta di prendere atto che la totale liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C verrebbe affidata ad esercizi commerciali che lo stesso legislatore ha voluto assoggettare ad una quantità meno intensa di vincoli e adempimenti. Né può giungersi a diversa conclusione invocando l’art. 41 Cost. e il principio di tutela della concorrenza. A questo riguardo va rilevato che il regime delle farmacie è incluso nella materia della «tutela della salute»: l’incondizionata liberalizzazione di quella categoria di farmaci inciderebbe sulla distribuzione territoriale delle parafarmacie le quali non essendo inserite in un sistema di pianificazione, potrebbero alterare il sistema stesso, che è posto, prima di tutto, a garanzia della salute dei cittadini». La Corte costituzionale non sembra però porsi il problema – neppure sotto il profilo più blando di un invito al legislatore – che tali “vincoli e adempimenti” più intensi ben potrebbero allora essere posti a carico anche dei parafarmacisti, così finalmente equiparandoli ai farmacisti e permettendo loro di vendere – a questo punto – tutte le tipologie di medicinali che possono essere dispensate anche dai farmacisti. In particolare, la CGUE e la Corte costituzionale non tengono nel dovuto conto che la legge italiana già impone il prezzo dei farmaci soggetti a prescrizione e detta una severa disciplina riguardante l’apertura delle c.d. farmacie rurali, in modo da garantire una capillare distribuzione delle farmacie su tutto il territorio. Pertanto, una politica seria, rigorosa e coerente di liberalizzazioni, lungi dal porsi in contrasto con i diritti fondamentali o dal doversi intendere come deregulation, ossia come semplice abolizione di regole, è in grado al contrario di favorire e valorizzare sia la concorrenza che i diritti fondamentali. Si pensi proprio alla mancata liberalizzazione delle farmacie. E’ evidente che il diritto di iniziativa economica, ma prima di tutto il diritto al lavoro del farmacista iscritto all’albo ma non titolare di farmacia, è irragionevolmente sacrificato e mortificato dall’esistenza di un numero chiuso (la c.d. pianta organica) che non sembra trovare altra giustificazione se non l’interesse dei titolari di farmacia al mantenimento di una posizione di oligopolio, a danno del diritto alla salute dell’intera collettività, che non può che essere danneggiata dagli alti prezzi dei farmaci. Come ha osservato la Corte costituzionale, «sotto il profilo funzionale, i farmacisti sono concessionari di un pubblico servizio» (sent. n. 448 del 2006) e tale servizio è «preordinato al fine di assicurare una adeguata distribuzione dei farmaci, costituendo parte della più vasta organizzazione predisposta a tutela della salute» (sent. n. 430 del 2007), tuttavia ciò non sembra debba avere alcuna interferenza con la disciplina anticoncorrenziale, nel senso che non giustifica alcuna deroga della relativa disciplina.  Infatti la Corte costituzionale ha affermato (sent. n. 231 del 2012) che il fenomeno della assegnazione di farmacie non costituisce conferimento di impiego nella pubblica amministrazione, giacché le farmacie, nonostante il carattere pubblicistico della loro disciplina, determinato da esigenze inerenti alla tutela sanitaria, restano imprese private sia pure sottoposte a rigorosi controlli. Le farmacie dunque, in quanto imprese, dovrebbero soggiacere alle regole della concorrenza. Le esigenze di tutela della salute si fermano infatti all’esigenza che non si addivenga ad una concorrenza sul prezzo dei farmaci, che viene già pienamente soddisfatta dalla legge, come afferma anche una delle prime sentenze della Corte costituzionale (la n. 29 del 1957), secondo la quale trattandosi di un servizio di pubblica necessità, è imposto al farmacista l’obbligo di svolgere la sua attività con l’adempimento delle prescrizioni dalle leggi stabilite per questa particolare professione. Tra questi obblighi vi è il divieto, penalmente sanzionato, di vendere al pubblico specialità medicinali a prezzo diverso da quello segnato sull’etichetta, ai sensi dei commi sesto e ottavo dell’art. 125 T.U. delle leggi sanitarie, modificato dalla legge n. 1528 del 1942. Tale norma, nel prescrivere il prezzo d’imperio, persegue lo scopo di tutelare il pubblico sia da eventuali speculazioni, che potrebbero verificarsi in caso di emergenza con la rarefazione dei medicinali; sia da inconvenienti collegati al regime di libera concorrenza, che porterebbe al ribasso dei prezzi e, inevitabilmente, alla preparazione dei medicinali con materie prime meno costose, e perciò, con risultati terapeutici che potrebbero recare nocumento alla salute dei cittadini. Così precisata la ratio del precitato art. 125, la norma ivi contenuta non può ricondursi nella sfera dell’art. 41 della Costituzione, che regola rapporti economici e, in modo particolare, la iniziativa economica privata; mentre risponde pienamente alla norma costituzionale di cui all’art. 32, che «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività». La stessa sentenza riconosce però anche testualmente – senza motivarne la ratio – che l’organizzazione del servizio farmaceutico ha creato al farmacista concessionario di una farmacia una posizione di privilegio con l’eliminazione della concorrenza entro determinati limiti demografici e territoriali. Tale affermazione, se poteva forse giustificarsi nel 1957, quando era appena uscita la disciplina antitrust della CEE e la legge antitrust italiana era lontana ancora 33 anni, non può oggi a mio avviso più condividersi. Si ritiene dunque che il legame tra CGUE da un lato e Corte di cassazione e Corte costituzionale dall’altro debba sempre svolgersi nella piena consapevolezza del patrimonio culturale e giuridico acquisito faticosamente negli anni dalle nostre Corti nazionali, evitando una acritica soggezione alle decisioni dei giudici europei, ma mirando ad un rapporto alla pari e quindi non a senso unico, che imporrebbe sempre una attenta ed equilibrata analisi delle sentenze della CGUE. Solo così il dialogo fra le Corti potrà essere davvero realmente proficuo e condurre quindi sempre ad un reciproco arricchimento. In effetti il paradosso, oggi come oggi, è che mentre l’avvocato che non abbia sostenuto l’esame di abilitazione può esercitare liberamente la propria professione, il farmacista che non possieda la relativa licenza non può svolgere l’attività – imprenditoriale e professionale allo stesso tempo – di farmacista, pur se iscritto all’albo e quand’anche, per ipotesi, fosse pacificamente riconosciuto di particolare bravura, ma dovrà limitarsi a compiere l’attività di c.d. “farmacista dipendente”, con prospettive di guadagno assai modeste e con l’assoggettamento al potere organizzativo di un suo collega – che ben potrebbe essere molto meno bravo e capace di lui – con evidente disincentivazione dallo svolgimento di tale attività, e con conseguente perdita di una possibile preziosa risorsa per il diritto alla salute della collettività. E’ così dunque che l’acquisto della piena consapevolezza dell’esistenza di un diritto fondamentale in capo agli operatori economici a poter svolgere liberamente l’attività che più si desidera non può che contribuire ad innescare un processo circolare virtuoso per cui l’affermazione di tale diritto stimola le liberalizzazioni e queste ultime, contribuendo a creare ricchezza, consentono di destinare maggiori risorse a tutela dei diritti fondamentali. Ecco dunque che il perseguimento delle liberalizzazioni delle professioni intellettuali (ossia la possibilità di far esplicare a tutti la propria libertà di iniziativa economica e quindi il garantire una politica di concorrenza rigorosa) non va necessariamente a scapito dell’utilità sociale (ossia dei diritti fondamentali della collettività) ma al contrario, come era nell’idea del Costituente, la rafforza; e il perseguimento dell’utilità sociale, a sua volta, fornisce nuovo vigore ad una politica di liberalizzazioni, da intendersi appunto, non come mera deregulation (ossia come brutale abrogazione di norme preesistenti) ma come razionalizzazione della regolazione (ossia come eliminazione di tutte e solo quelle norme che impediscano un pieno sviluppo della concorrenza e che non siano poste a presidio di diritti fondamentali). Deve dunque ritenersi che il legame tra CGUE da un lato e CEDU, Corte di cassazione e Corte costituzionale dall’altro debba sempre svolgersi nella piena consapevolezza del patrimonio culturale e giuridico acquisito faticosamente negli anni a partire dal dopoguerra dalla Corte di Strasburgo e dalle nostre Corti nazionali, evitando una acritica soggezione alle decisioni della Corte di Lussemburgo, ma mirando piuttosto ad un rapporto non a senso unico ma alla pari, che impone sempre una attenta ed equilibrata analisi delle sentenze della CGUE. Solo così il dialogo fra le Corti potrà essere davvero realmente proficuo e condurre quindi sempre ad un reciproco arricchimento. Note [*] Il presente contributo è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista. Questo studio, pur essendo stato pensato e strutturato nelle sue linee generali da entrambi gli Autori, è stato svolto da Lorenzo Delli Priscoli per quanto riguarda i primi due paragrafi e da Maria Francesca Russo per gli ultimi tre. [1] Cfr. l’art. 16 (Libertà d’impresa): È riconosciuta la libertà d’impresa, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali. Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo quest’ultimo inciso determina la possibilità di una severa e significativa limitazione della libertà d’impresa in nome di una migliore protezione dei diritti fondamentali dell’uomo. Così, ad esempio, riguardo alle incapacità personali connesse allo stato di fallito, con specifico riferimento agli artt. 50 e 143 della legge fallimentare all’epoca vigente, la Corte di Strasburgo (sentenza 23 marzo 2006, Vitiello c. Italia, ric. n. 77962/01), ha ritenuto le disposizioni della legge fallimentare lesive dei diritti della persona, perché incidenti sulla possibilità di sviluppare le relazioni col mondo esteriore e foriere, quindi, di un’ingerenza «non necessaria in una società democratica». La Corte di Strasburgo ha affermato, in particolare, che «a causa della natura automatica dell’iscrizione del nome del fallito nel registro e dell’assenza di una valutazione e di un controllo giurisdizionali sull’applicazione delle incapacità discendenti dalla suddetta iscrizione e del lasso di tempo previsto per ottenere la riabilitazione, l’ingerenza prevista dall’art. 50 della l. fall. nel diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti non è necessaria in una società democratica, ai sensi dell’art. 8, par. 2, della Convenzione». [2] La CEDU, pur essendo richiamata dall’art. 6, par. 2, del Trattato sull’Unione europea, non ha lo stesso valore del diritto dell’Unione europea perché, come è noto, pur a seguito delle sentenza nn. 348 e 349 del 2007, più volte confermate dalla Corte costituzionale (cfr. da ultimo la sentenza n. 238 del 2014), si colloca – nella “gerarchia delle fonti” – a metà strada tra gli atti aventi forza di legge e le leggi costituzionali, mentre il diritto dell’Unione europea, a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, si colloca addirittura sopra le leggi costituzionali, con il solo limite dei diritti fondamentali.  [3]  Tale strumentalità dei diritti fondamentali ai diritti del mercato la si coglie fin dal preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ove infatti si legge che l’Unione europea “cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento. A tal fine è necessario, rendendoli più visibili in una Carta, rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici”. [4] Non può infatti ad esempio distinguersi tra informazione diretta a tutelare la salute (ingredienti del prodotto) e informazione relativa ai prezzi, in quanto l’etichetta è unitaria e l’ingrediente migliore determina da un lato meno problemi per la salute ma dall’altro determina anche un prezzo più elevato. [5] Cfr. M. Ramajoli, La regolazione amministrativa dell’economia e la pianificazione economica nell’interpretazione dell’art. 41 della Costituzione, in Dir. amm., 2008, p. 121, Autrice secondo la quale l’art. 41 Cost. è scaturito da una situazione politica di compromesso e si ispira a due principi tra loro contrapposti e tendenzialmente inconciliabili: il principio della libertà economica privata, che si richiama alle tradizioni individualiste del costituzionalismo liberale, e il principio dell’intervento pubblico nell’economia privata, in cui confluiscono le istanze solidaristiche ed egalitarie di cui si fecero portatori il pensiero sociale cattolico e quello marxista; analogamente F. Macioce, Le liberalizzazioni tra libertà e responsabilità, in Contr. impr., 2012, p. 989, il quale aggiunge che «le liberalizzazioni costituiscono l’occasione per bonificare i mercati da ogni forma di protezionismo e di privilegio e riconsegnare all’individuo nuove opportunità di ingresso nei mercati, reali forme di competizione civile e sicure garanzie per una allocazione virtuosa dei beni e dei meriti personali: una allocazione non distorta che non può non transitare attraverso i percorsi liberali di una uguaglianza sostanziale». [6] Sono rare le Costituzioni ottocentesche che contengono un’espressa tutela dell’iniziativa economica privata distinta e autonoma rispetto a quella prevista per la proprietà, prevalendo il modello tradizionale dell’indistinzione o del riconoscimento implicito della libertà economica nella proclamazione del diritto di proprietà: cfr. R. Niro, Commento all’art. 41 Cost., in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Comm. alla Costituzione, Torino, 2006, p. 847. [7] Mentre la Costituzione è del 1948, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o CEDU è un trattato internazionale  redatto dal Consiglio d’Europa  firmato a Roma  il 4 novembre  1950  e ratificato dall’Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. [8] Cfr. CGUE 14 febbraio 1978, C- 27/76: la posizione dominante «corrisponde ad una situazione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato rilevante e di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e, in ultima analisi, dei consumatori». [9] Concetti analoghi sono espressi nelle sentenze n. 38 del 2013, in tema di liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi, e n. 41 del 2013, a proposito della liberalizzazione del settore dei trasporti e dell’istituzione della relativa autorità. [10] Si tratta del c.d. servizio universale, introdotto ed è disciplinato dal D.P.R.  n. 318/1997 , che comporta degli oneri  a carico di un gestore pubblico o privato di un servizio di pubblica utilità al fine di garantire uno standard minimo predefinito di qualità  di servizi, per i quali non sia possibile l’equilibrio economico, ma che si ritiene tuttavia necessario di garantire alla collettività, nel caso anche con meccanismi di compensazione finanziaria pubblica. [11] Cfr. infatti Cass. 13 febbraio 2009 n. 3638, secondo cui grava sull’impresa l’onere di provare la necessità di imporre le condizioni praticate al fine di assolvere il compito da essa svolto nell’interesse generale; Cass. 16 maggio 2007, n. 11312, secondo cui i servizi relativi agli elenchi telefonici non sono strettamente connessi all’adempimento degli specifici compiti affidati al concessionario del servizio di telecomunicazioni. [12] Cass. Sez. Un., 22 dicembre 2011, n. 28340, in Corr. giur., 2012, p. 653, con nota critica di G. Di Federico, L’iscrizione all’albo degli avvocati stabiliti: la “via spagnola” e il divieto di abuso del diritto. 9 luglio 2015

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