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Evoluzione degli obblighi di informazione

Informazionie

di Michele Contartese

InformazionieInformazioniLa disciplina degli obblighi di informazione è cambiata molto negli ultimi trent’anni, si è da un lato adeguata al cambiamento dei tempi e delle nuove tecnologie e da un lato si è affinata per andare sempre più incontro alle esigenze di chi per soddisfare i propri interessi si spinge a concludere un contratto. Se, però, si volesse fare un raffronto con la disciplina degli anni passati si vedrebbero delle notevoli differenze.
Ma andiamo per ordine: il punto di partenza è che gli obblighi informativi hanno una radice comune: la clausola generale di buona fede e correttezza.
Da tale clausola che ritroviamo in più articoli del Codice Civile e più specificamente nell’art. 1337 c.c. discende l’obbligo di fornire alla controparte le informazioni rilevanti per la conclusione del contratto e, soprattutto, per permettere alla controparte di avere tutti i dati necessari per verificare se l’obbligazione che andrà a concludere sia idonea a permettergli di raggiungere la propria soddisfazione o, quantomeno, di soddisfare il fine che la spinge verso quel contratto.
Occorre evidenziare come gli obblighi di informazione non siano sempre stati previsti esplicitamente. Per lungo tempo, infatti, il loro fondamento normativo è stato esclusivamente rinvenibile nella disciplina prevista dal codice civile, e solo successivamente sono stati integrati con norme ad hoc.
Fino alla fine degli anni ’70, infatti, fondamento giuridico dell’obbligo di informazione era il generale principio di correttezza e buona fede nelle trattative e nella esecuzione del contratto, di cui agli articoli 1337, 1338 e 1375 del codice civile. Solo con il tempo tale obbligo si è affermato e sviluppato, grazie ad un sempre più deciso e preciso intervento del legislatore che ha assicurato, così, una maggiore tutela ai consumatori.
Volendo ripercorrere velocemente le fasi di tale evoluzione, si  reputa opportuno iniziare l’excursus partendo dalla giurisprudenza della seconda metà degli anni ’60, in cui il dovere di buona fede era letto in senso etico, come requisito della condotta delle parti. Era, infatti, qualificato come uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni risultando un vero e proprio dovere giuridico, violabile non solo nel caso in cui una delle parti avesse agito con il proposito doloso di arrecare pregiudizio all’altra, ma anche nel caso in cui il comportamento da essa tenuto non fosse stato comunque improntato alla schiettezza, alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale (1).
Sussisteva, dunque, il dovere di informare l’altra parte sulle circostanze di rilievo che attenessero all’affare. L’obbligo di informazione concerneva tutti i dati necessari volti a permettere alla parte, che voleva acquisire un bene o una determinata prestazione, di essere pienamente consapevole del contratto che stava per concludere. In caso contrario, ossia se si fosse violato il dovere di informazione nelle trattative, si sarebbe verificata  la c.d. reticenza.
Lo specifico contenuto del dovere di buona fede che consisteva nell’astensione da comportamenti che pregiudicassero l’esecuzione del contratto in futuro, atteneva, da un lato, all’interesse, rilevante rispetto alla responsabilità precontrattuale, di non porre in essere un inutile negoziato; e, dall’altro, agli stessi interessi contrattuali per l’ipotesi in cui fosse seguita la conclusione del contratto ( nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, ancora oggi il dovere di buona fede e correttezza assume  il carattere di un dovere d’informazione di una parte nei confronti dell’altra: in particolare, circa le notizie delle circostanze che appaiono ignote all’altra e che possono essere determinanti per la sussistenza del suo consenso).
In tale contesto normativo e interpretativo, la violazione del dovere di informazione poteva dare luogo, se ad esso fosse seguito il contratto, ad un’azione di annullamento per dolo omissivo. L’omessa informazione legittimava, altresì, la parte lesa ad esperire un’azione per risarcimento danni nei confronti della controparte, indipendentemente dall’annullamento del contratto stesso, rimedio, quest’ultimo, che di per sé risultava poco coerente con il fine di tutelare gli interessi alla stipulazione del contratto della parte debole. Infatti, quando l’autorità giudiziaria interveniva pronunciando l’annullamento del contratto, il cliente subiva, comunque, una lesione, in quanto questi aveva stipulato tale negozio per soddisfare un proprio interesse, che, dopo la pronuncia, veniva meno.
In caso di violazione degli obblighi informativi, dunque, non poteva essere richiesta la nullità del contratto, dato che il principio di buona fede era ed è si una norma imperativa, ma assolutamente non è da considerarsi compresa in quelle indicate dall’articolo 1418 del codice civile: si poteva perciò, richiedere solo il risarcimento dei danni e l’annullabilità del contratto.
Il principio di buona fede, infatti, con i conseguenti doveri di comportamento è legato alle circostanze e non può  assurgere, in via di principio, a requisito di validità (2).
È, quindi, possibile concludere come in questa prima fase gli obblighi informativi non avessero una loro sussistenza giuridica e, al tempo stesso, come i rimedi offerti dall’ordinamento fossero poco adatti a garantire una tutela effettiva della parte lesa.
Questi obblighi, invece, iniziano ad affermarsi con l’avvento di alcuni prodotti che richiedono particolari conoscenze in capo all’acquirente, e che mettono, dunque, in luce una differenza di cognizione: la cosiddetta asimmetria informativa. Questa si concretizza in una discrepanza circa le informazioni sulle caratteristiche di un bene, possedute dalle parti contraenti, a favore, ovviamente, del contraente forte, venditore o produttore.
A partire dalla seconda metà degli anni ’80, si nota un mutamento nella mentalità del legislatore il quale prende atto di come l’asimmetria informativa giochi un ruolo fondamentale nella risoluzione della libertà contrattuale, da un lato, e sull’esigenza di quali possano essere le forme di combinazione migliori tra libertà e controllo. Tale asimmetria è stata assunta a parametro di legiferazione solo a partire dagli ultimi trent’anni, perché la struttura del mercato, prima, era totalmente differente, in quanto c’era un numero di prodotti in commercio più esiguo.
La sempre maggiore apertura del mercato a nuovi soggetti ha portato ad una differenziazione dei prodotti, fenomeno che ha amplificato la differenza di conoscenze tra le parti contraenti ed ha causato una logica diminuzione delle competenze informative del singolo (3).
Con il diffondersi di nuovi beni è sorta, quindi, spontaneamente la necessità di maggiori informazioni per garantire la conclusione di contratti non semplicemente volti ad effettuare uno scambio, ma ad assicurare un acquisto che consentisse la soddisfazione del cliente. In tal guisa, sono state emanate, secondo una logica paternalistica, tutta una serie di norme volte a tutelare i contraenti deboli da pratiche commerciali improntate all’omissione delle informazioni.
Si verificavano, infatti, delle condizioni in cui data la differenza di conoscenze in  capo al bene, il contraente più preparato riusciva, non avendo un obbligo perentorio, a trarre facilmente vantaggi dalla propria posizione di persona meglio informata.
Tale situazione veniva a verificarsi nel mercato informatico dove i clienti si trovavano in una situazione di inferiorità per tre ragioni (4):
a) la maggiore forza contrattuale delle grandi imprese produttrici;
b) la scarsa cultura informatica, propria della gran parte dei piccoli e medi utenti, che li rendeva facilmente succubi del venditore;
c) il necessario collegamento tra i vari contratti necessari per la realizzazione di un sistema informatico, e in particolare tra i contratti di hardware e software e tra quelli di installazione e di manutenzione e assistenza tecnica.
Con l’avvento dell’elaboratore, infatti, c’è stato uno sviluppo di nuove tutele accordate ai consumatori.
Basti pensare all’acquisto di un computer, che inizialmente, comportava non pochi problemi, in quanto non si avevano le conoscenze che si hanno oggi. Va considerato, infatti, come i primi computer spesso erano costituiti solo dall’hardware, la sua parte materiale, e non dal software, cioè la parte “intelligente” contenente i programmi.
Un caso emblematico è rappresentato dalla sentenza del tribunale di Salerno del 1983 (5) che non aveva riconosciuto la risoluzione del contratto per la vendita di un elaboratore privo di software, proprio ad indicazione del fatto che l’acquirente dovesse essere informato di ciò che andava ad acquistare Così, dopo la prima sentenza, che non riconosceva il diritto ad essere informati sul fatto che hardware e software fossero due entità distinte, successive pronunce hanno superato le numerose criticità sul tema.
In una successiva sentenza del 1985, la Corte d’Appello di Torino (6) ha pronunciato una sentenza in cui indicava le caratteristiche principali dei contratti informatici. Innanzitutto,  veniva sottolineato lo squilibrio di forza contrattuale che sussisteva tra fornitore e cliente, in quanto il cliente non faceva altro che sottoscrivere un contratto predisposto dalla società fornitrice (7). Poi, veniva evidenziata la disparità di conoscenze esistente tra la cultura informatica del fornitore e quella dell’utente, che portava, dunque, ad uno squilibrio contrattuale. In queste prime pronunce si stava prendendo cognizione dell’esistenza di obblighi di informazione in capo al professionista che trovavano il loro fondamento normativo nel contratto informatico. Il contenuto dell’obbligo di informazione qui, variava dagli obblighi di avviso, fino a quelli di consulenza (8).
In questo nuovo contesto il contratto assumeva la veste non solo di rappresentazione della volontà socialmente impegnativa, ma altresì la nuova veste di veicolo, e prova, delle informazioni che avevano fondato la volontà della parte a costituire il rapporto obbligatorio.
 Non si può, però, dire che gli obblighi informativi fossero caratteristica esclusiva dei contratti informatici, infatti, l’esigenza di un generale dovere di informazione si andava affermando in relazione ai vari tipi di contratto.
La diffusione dell’informatica ha, quindi, fatto in modo che si subordinasse il dovere di informazione del fornitore ad un dovere di collaborazione dell’altro contraente. Tali doveri erano tanto maggiori quanto maggiore era la cultura informatica dell’utente.
Parallelamente alle pronunce, precedentemente indicate, quasi a voler tenere in considerazione l’esigenza di disciplina causata dalla diffusione di nuove tecnologie, si è assistito all’emanazione di una serie di normative (9) che sono andate a disciplinare settorialmente le varie fattispecie contrattuali.
Tali normative a favore del contraente debole, sono state predisposte dal legislatore comunitario e poi recepite da quello italiano, assumendo la connotazione di normative di settore, come, ad esempio, la disciplina sulla pubblicità ingannevole. Il problema di tale qualificazione della normativa è che, connotandosi come norma di comportamento, ma non di validità, qualora una parte non adempia all’obbligo informativo, ci si trova nella particolare situazione che l’ordinamento non prevede la nullità, ma solamente la causa di risoluzione del contratto e il risarcimento del danno. In tal guisa, come già evidenziato in precedenza, il contraente debole non trova un’effettiva tutela posto che questi rimedi non contemplano la tutela dell’interesse della parte al perdurare della relazione contrattuale.
Sono state recepite, quindi, tutta una serie di direttive che hanno portato penetranti obblighi di informazione in ogni fase del contratto. In essa si impone di precisare il prezzo, i termini di pagamento, elencare i diritti e i doveri dei consumatori, si individuano per i contratti a distanza obblighi specifici di informazione sulle varie tecniche di conclusione del contratto, sulla lingua con cui può essere concluso, sui codici di condotta cui è soggetto il venditore, e la forma scritta del contratto, il cui contenuto deve essere chiaro e comprensibile.  A differenza di quanto accadeva prima, tale corpus norme, fa in modo che non sia più il solo principio di correttezza ad indicare quali informazioni debbano essere fornite.
Il nucleo fondante di tali obblighi informativi deriva dal fatto che, comunque, dalla disciplina civilistica consolidatasi fino alla prima metà degli anni ‘80 si è avuta una sostanziale evoluzione dovuta allo sviluppo tecnologico, che ha imposto dei mutamenti radicali nella vita sociale della collettività e, di conseguenza, nel diritto civile.
Mutamenti che poi sono continuati, per i quali è possibile individuare una terza ed ultima fase nella quale l’ordinamento italiano vive ancora oggi. Tale periodo, iniziato in coincidenza del nuovo secolo, ha avuto il proprio avvio con il recepimento della direttiva sul commercio elettronico (10), attraverso il decreto legislativo n. 70 del 2003 (11), ed il momento di massima espressione con l’emanazione del Codice del Consumo. Quest’ultimo, infatti, ha permesso il delinearsi di una normativa finalmente completa, ( si guardi l’elenco previsto all’art. 2 del Codice) che, pur rinviando ai principi generali del codice civile (12) per le parti in esso non espressamente disciplinate (così ex articolo 38 del codice del consumo), consente all’operatore del diritto e al contraente debole, in questo nuovo contesto, definito, genericamente, consumatore, di rinvenire le norme ad esso inerenti in un unico corpus normativo di riferimento. In questo, un intero titolo, il secondo nello specifico, è dedicato alle informazioni che devono essere date, alla tecnica di comunicazione impiegata, e agli altri principi inerenti l’adempimento dell’obbligo di informazione.
Il requisito comune a tutte queste norme è la previsione di una garanzia di corretta ed adeguata informazione volta, appunto, a tutelare il più possibile il consumatore. Le norme presenti nelle varie discipline, infatti, prevedono che le informazioni da fornire siano chiare ed inequivocabili.
Nonostante l’intento fosse quello di un’unificazione della normativa vigente in materia, è possibile rinvenire numerosi rinvii al codice civile e ad altre normative di settore non ricomprese nel codice del consumo (13). A titolo esemplificativo, si sottolineano i rimandi contenuti nel codice del consumo al decreto sul commercio elettronico che, per quanto riguarda le informazioni da fornire, assume un carattere sussidiario, come da interpretazione letterale della locuzione “in aggiunta  agli obblighi informativi per specifici beni e servizi”, provvedendo ad elencare una serie di informazioni volte a permettere ai destinatari del servizio una serie di garanzie ulteriori. In quest’ottica, il legislatore ha elaborato gli ulteriori parametri della facilità e della accessibilità diretta alle informazioni (art. 7, d. lgs. 70/2003) (14). Tali nozioni rappresentano due tutele specifiche e disgiunte, da intendersi l’una come semplicità nell’intelligibilità delle nozioni comunicate dal professionista al consumatore, e l’altra come comodità di lettura delle stesse.
Paradossalmente, la disciplina informativa prevista sulla Rete è molto più dettagliata di quella che porta alla conclusione di un qualsiasi contratto in un qualunque luogo fisico di commercializzazione. Questo avviene perché il consumatore che vuole acquisire un bene o una prestazione con gli strumenti del commercio elettronico deve essere doppiamente tutelato (15), sia perché è un consumatore e sia perché utilizza una nuova tecnologia.
Gli obblighi di informazione nel commercio elettronico, infatti, rappresentano l’ultima evoluzione di un processo che ha portato a imporre una serie di obblighi volti a dare informazioni, che vanno ad aggiungersi e ad integrare quelle già imposte ai sensi delle discipline sulle singole fattispecie contrattuali. Tali norme non potranno assolutamente togliere (16) spazi di tutela già acquisiti e pacificamente riconosciuti.
Il merito delle informazioni fornite nei contratti disciplinati dalle norme sul commercio elettronico è quello di mettere a disposizione dei consumatori tutti i dati di cui quest’ultimi possono avere bisogno, assicurando così ad essi una tutela davvero completa. Partendo, infatti, dai contratti informatici con le conseguenti pronunce giurisprudenziali che ne hanno evidenziato e risolto i problemi, si è messo in risalto la necessità di assicurare il maggior numero di informazioni possibili ai consumatori. E la conseguenza di questi contratti è stata, appunto, prevedere un disposto normativo, raccolto in un piccolo numero di articoli del d. lgs. 70 del 2003 (artt. 7, 8, 9, 12) che amplia notevolmente le disposizioni, volte a tutelare i consumatori, previste dal codice civile o dalle altre fattispecie contrattuali.
La disciplina prevista dal commercio elettronico, benché sia molto minuziosa, non può essere estesa alla disciplina della negoziazione civilistica in quanto costituisce una normativa di settore da cui non può assolutamente essere desunto un principio generale (17), nonostante in dottrina ci sia chi si interroghi su ciò (18).
È innegabile, comunque, che una siffatta regolamentazione determini una certezza della fattispecie difficilmente riscontrabile in altri ambiti. In considerazione di ciò, sarebbe opportuna una rimeditazione delle informazioni da fornire ai consumatori, tenendo in considerazione l’ipotesi di trasporre la disciplina informativa accordata ai contratti conclusi tramite internet a tutti le altre fattispecie contrattuali.
Quindi, anche per quanto riguarda l’applicazione delle norme, è mdolto difficile affermare qualcosa di estremamente chiaro, in quanto queste, data la loro settorialità, non provvedono, dunque, a stabilire nulla di nuovo per la disciplina generale, ma ogni disciplina risulta a sé stante. A titolo esemplificativo si prenda la disciplina dei servizi finanziari con riferimento alla quale una importane sentenza della Cassazione (19) ha statuito che la lesione degli obblighi di informazione deve essere prevista dalla disciplina del contratto cui si fa riferimento perché, in caso contrario, non potrebbe desumersi da una normativa di settore un principio generale.
Un carattere comune a tutti i contratti, però, è stabilito da una particolare previsione del codice del consumo che prevede che le informazioni da fornire devono essere adeguate, chiare e comprensibili. Queste sono ora disposizioni fondamentali che prima non era immaginabile prevedere. C’è stata, dunque, un’evoluzione della normativa oggi volta a fornire maggiori tutele ai consumatori e agli acquirenti.
Paradosso evolutivo di quest’ultima fase è, tuttavia, la sussistenza di così tanti obblighi informativi in capo al contraente forte tali per cui il contraente debole viene ad essere edotto, nel medesimo spazio contrattuale, di più minuziosi dettagli del rapporto obbligatorio che sta ponendo in essere. Si è considerato, che oggi, che il miglior metodo per disinformare sia quello di investire di moltissime informazioni il contraente, informazioni sì corrette e veritiere, ma troppo tecniche (20). Autorevole dottrina (21) ha definito tale status “paradosso”, sottolineando come informare su tutto equivalga “ad informare su nulla”, in altri termini il contraente debole dovrà valutare così tante informazioni che, alla fine, non avrà il tempo di valutarne nessuna. Per eccesso di informazione si intende, dunque, quella situazione che si verifica nel momento in cui vengano fornite una serie sovrabbondante di informazioni, che non permetta, appunto, una ponderata fruizione delle stesse, e soprattutto l’individuazione di quelle rilevanti (22).
Da un punto di vista di rimedi processuali, tuttavia, il legislatore ha finalmente dotato il contraente debole dell’unico rimedio che tenga conto del suo interesse alla prosecuzione della relazione contrattuale, ossia il rimedio della nullità relativa delle clausole poste a suo svantaggio. In tal guisa, il contraente debole sarà effettivamente incentivato a richiedere in sede di giudizio l’accertamento di un mancato adempimento degli obblighi contrattuali, la cui sanzione sarà la non efficacia della clausola colpita da tale vizio.
A riprova di quanto detto, la Commissione Europea ha previsto una serie di proposte che andranno a realizzare, per la prima volta in assoluto, un corpo normativo che terrà in forte considerazione il commercio elettronico e, dunque, tutte le innovazioni tecnologiche che lo hanno affiancato.
Tali disposizioni si pongono il fine di migliorare la tutela di tutti i consumatori tanto nel commercio elettronico quanto nelle operazioni di commercio tradizionale (23). Le proposte si prefiggono di uniformare la disciplina commerciale applicabile ai vari stati dell’Unione Europea e di assicurare ai consumatori le informazioni necessarie ai loro acquisti indipendentemente dal paese dell’Unione Europea in cui essi si trovino.
Lo scopo di tali proposte è di unificare le quattro direttive vigenti ( Direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, Direttiva 1999/44/CE, su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo, Direttiva 97/7/CE, in materia di contratti a distanza e la Direttiva 85/577/CEE, sui contratti negoziati fuori dei locali commerciali) in modo tale da garantire unitarietà della disciplina e una migliore fruibilità da parte dei cittadini dell’Unione Europea.
Gli ambiti su cui la nuova direttiva dovrebbe incidere maggiormente sono quelli delle informazioni precontrattuali, delle regole in materia di consegna e di passaggio del rischio al consumatore, del periodo di riflessione, delle riparazioni, sostituzioni e garanzie e, infine, delle clausole vessatorie.
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Note Bibliografiche
(1) Corte di Cassazione, sez. I, civile, sentenza n. 89 del 5 gennaio 1966, in Foro Padano, parte I, 1966, pag. 524.
(2) Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza n.  27624 del 19 dicembre 2007, in Corriere giuridico, anno 2008, fascicolo 2, pag. 223; Cassazione sezioni unite 29 settembre 2005 sentenza n. 19024 in Responsabilità civile e previdenza, 2006, fascicolo 2, sezione 2, pag. 1080
(3) Così PARISI A.G., Il commercio elettronico, in Manuale di diritto dell’informazione e dell’informatica, a cura di Sica e Zencovich, Cedam editore, 2007, pag. 350.
(4) E. GIANNANTONIO, Manuale di diritto dell’informatica, Cedam, 1997, pag. 215.
(5) Tribunale di Salerno, 2 gennaio 1983. Sentenza pubblicata in Rassegna di diritto civile Edizioni Scientifiche Italiane, 1983, con nota di MONINA, «Contratti informatici» e inadempimento del venditore, pagg. 1131- 1145.
(6) Corte d’Appello di Torino 14 marzo 1985. Sentenza pubblicata in Diritto dell’informazione e dell’informatica, Giuffrè, con nota di C. ROSSELLO, L’inadempimento di un contratto di utilizzazione del computer, pagg. 1011-1019; in Giurisprudenza Commerciale, 1986, pagg. 260-269, con nota di M. MONINA, L’inadempimento del venditore di hardware e software nei contratti informatici. Così anche Tribunale di Roma 20 novembre 1987, ne Il diritto dell’informazione e dell’informatica, Giuffrè editore, 1988, pag. 492-493. Così anche Cassazione, sezione II, 15 giugno 2000, n. 8153, r.v. 537620.
(7) In Italia come rimedio avverso tale squilibrio si era esteso il potere di sindacabilità del giudice in base ad un’interpretazione estensiva dell’articolo 1229 del codice civile ( che dichiara nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave). Successivamente ci si è, invece, basati sugli articoli 1341 e 1342 del codice civile. Ma anche tale tutela è risultata insufficiente per cui si è dovuto attendere l’intervento del legislatore comunitario che  ha previsto le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.
(8) Così E. GIANNANTONIO, opera citata,  pag. 215. L’autore afferma, riprendendo la Finocchiaro, che i “contratti informatici appaiono, quindi, non più come un accordo tra le parti, ma il modo in cui il soggetto più forte vincola il soggetto più debole; e il giudice, nell’accertare la forza vincolante del contratto, formalmente valido anche se sostanzialmente iniquo, agisce come comodo strumento del più forte nei confronti del più debole”.
(9) La direttiva n. 450 del 10 settembre 1984 inititolata “Direttiva CEE n. 84/450 del 10 settembre 1984, concernente la pubblicità ingannevole comparativa”; la direttiva n. 577 del 20 dicembre 1985 intitolata “Direttiva 85/577/CEE del Consiglio del 20 dicembre 1985 per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali”.
(10) Tale direttiva emanata l’8 giugno 2000, si intitola: “Relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico nel mercato interno. (Direttiva sul commercio elettronico)”.
(11) Tale decreto si intitola: “Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno”.
(12) SAMMARCO P., ne I contratti informatici, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Cedam editore, 2006, pag. 20, afferma “che il diritto dei contratti ha goduto a lungo di stabilità e unità, ed ora è assalito incessantemente dall’intensa azione disgregante delle norme di origine comunitaria, che hanno causato una frantumazione del sistema. Ogni suo frammento si pone come corpo a sé stante all’interno del complesso, e avendo ciascuno di essi in sé un’autonoma e organica disciplina di settore, oltre che una propria logica, genera una moltiplicazione di regolamenti dedicati alle materie più eterogenee”.IRTI N., ne L’età della codificazione, in Digesto civile, volumeV, Utet, 1989, afferma che “…il grado di giuridificazione della società cresce di giorno in giorno, perché si consuma una quantità sempre più ampia di norme giuridiche. Il fenomeno abbraccia sempre nuovi rapporti ed interessi che vengono regolati da leggi speciali. Queste sono esposte ad un maggiore logorio tecnico d hanno un ciclo breve per effetto della inesplorata singolarità dei rapporti e della imperfezione della disciplina, unite all’emergere di nuovi interessi che sostituiscono i precedenti. Inoltre, trattandosi di norme speciali che non sono caratterizzate nella loro formulazione da genericità, alimentano il bisogno di produzione di altre norme speciali riflettenti gli interessi di altri gruppi che reclamano pari dignità, dando vita ad un circolo ossessivo ed ineusaribile”.
(13) Si prenda, per esempio, l’articolo 38 del codice del consumo che rimanda al codice civile per quanto riguarda quanto non previsto in esso in relazione ai contratti conclusi tra il consumatore e il professionista; o l’articolo 68 del codice del consumo che rimanda alla direttiva sul commercio elettronico, così come anche l’articolo 52 5º comma che rinvia all’articolo 12 del d. lgs 70/2003.
(14) È poi previsto, all’art. 7, lettera c, l’obbligo per il prestatore di indicare gli estremi che permettono di contattarlo rapidamente e di comunicare direttamente ed efficacemente con lui, compreso l’indirizzo di posta elettronica. Su questa norma si è di recente pronunciata la Corte di Giustizia Europea con la sentenza del 16 ottobre 2008 attraverso la quale i giudici hanno chiarito l’esatta interpretazione che deve essere data del dettato normativo. Infatti, la Corte esplicita che “il prestatore di servizi è tenuto a fornire ai destinatari del servizio, sin da prima di qualsiasi stipulazione di contratto con questi ultimi, oltre al suo indirizzo di posta elettronica, altre informazioni che consentano una presa di contatto rapida nonché una comunicazione diretta ed efficace. Tali informazioni non debbono obbligatoriamente corrispondere ad un numero di telefono. Esse possono consistere in una maschera di richiesta di informazioni elettroniche a meno che il destinatario del servizio si trovi privato dell’accesso alla rete elettronica e chieda al prestatore l’accesso ad una via di comunicazione non elettronica.
(15) Così ALPA G., Introduzione al diritto dei consumatori, Editori la terza, 2006, pag. 13.
(16) Così ZENO-ZENCOVICH, opera citata, pag. 45: “ verrebbe da dire che in tutti i casi di lacuna della normativa consumeristica debba applicarsi la direttiva sul commercio elettronico, ma si tratta di una risposta fondata più sull’intuizione che su una stretta logica giuridica”.
(17) Così la Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza n.  27624 del 19 dicembre 2007, in Corriere giuridico, anno 2008, fascicolo 2, pag. 223.
(18) Così ZENO-ZENCOVICH, in Commercio elettronico e servizi della società dell’informazione. Le reti giuridiche del mercato interno e comunitario: commento al d. lgs 70 del 2003, a cura di Tosi, Giuffrè editore, pag. 45: “ verrebbe da dire che in tutti i casi di lacuna della normativa consumeristica debba applicarsi la direttiva sul commercio elettronico, ma si tratta una risposta fondata più sull’intuizione che su una stretta logica giuridica”.
(19) Sentenza n.  27624 del 19 dicembre 2007, cit.; Cassazione sezioni unite 29 settembre 2005 sentenza n. 19024 in Responsabilità civile e previdenza, 2006, fascicolo 2, sezione 2, pag. 1080.
(20) Così CASSANO, opera citata, pag. 289; vedi anche DE POLI, opera citata, pag. 142, e GENTILI, Informazione contrattuale e regole dello scambio, in Rivista di diritto privato,n. 3 2004, pag. 560. Cfr. capitolo 1.3.
(21) Così GENTILI A., “Informazione contrattuale e regole dello scambio”, in Rivista di diritto privato , n. 3/2004 , pagg. 555- 578.
(22) Così GENTILI, vedi opera da ultimo citata, pag. 562. L’autore descrivendo il problema giuridico dell’informazione contrattuale guarda alle “asimmetrie informative, capaci di compromettere l’eguaglianza delle parti del contratto di scambio che generano una disinformazione negativamente incidente sulla scelta di un contraente, consistente nella mancanza di informazioni rilevanti che l’altra parte possiede e avrebbe potuto fornire, e di cui profitta, oppure nell’enfasi o disordine di quelle fornite che confondono quelle disponibili”.
(23) Ha creato un forte dibattito tra gli operatori del settore la possibilità di prevedere diversi sistemi di pagamento per  7 valute differenti e, soprattutto la possibilità che al consumatore sia concesso un termine per recedere dall’acquisto su internet di 28  giorni, al posto degli attuali 7-10.
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