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Il 140 bis del Codice del Consumo nella prospettiva del diritto privato

Class Action

di Guido Alpa

Class actionSommario: 1. Premessa – 2. Caratteri della “classe” – 3. Ambiti di tutela dei diritti e fondamento dell’azione di classe – 4. I “diritti contrattuali” – 5. I danni da prodotto – 6. Le garanzie nella vendita – 7. I danni da pratiche commerciali scorrette – 8. I danni da comportamenti anticoncorrenziali – 9. Alternative sulla applicazione della normativa – 10. Il “filtro” dell’azione di classe 1. Premessa L’ art.49 della L. 23 luglio 2009, n. 99 ha ridisegnato il profilo dell’ azione collettiva risarcitoria, disciplinata dall’art. 140 bis del Codice del consumo. La precedente versione, dettata dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244 non era mai entrata in vigore. Ora la rubrica della disposizione è intitolata all’azione di classe. Riferita alle persone, l’espressione “classe” è inusuale nel nostro lessico giuridico, e pertanto il suo significato deve essere costruito sulla base dello stesso contenuto della disposizione. Non possono essere utilizzati criteri sistematici, perché nell’ambito del codice del consumo altri strumenti processuali, come le azioni previste dagli artt. 139 e 140, sono rivolti alla tutela di “interessi collettivi dei consumatori”, e sono affidati non a rappresentanti di una classe bensì alle associazioni rappresentative dei consumatori inserite nell’elenco previsto dall’art. 137. Nell’ ordinamento si contano diverse ipotesi di azioni a difesa di interessi di categoria – oltre alle azioni individuali promosse nell’ambito dello stesso giudizio da una pluralità di soggetti – ma nessuna disposizione che le riguarda può essere invocata per interpretare l’art. 140 bis, il quale è un unicum nel nostro universo processuale. Non si possono neppure assumere a modello o come indirizzo interpretativo le regole comunitarie, posto che una disciplina uniforme dell’ azione collettiva non è ancora giunta a maturazione in ambito europeo, e neppure modelli stranieri, posto che ciascuno di essi ha una propria fisionomia. L’uso della formula “class action”, con cui per semplicità ci si riferisce anche allo strumento processuale italiano, è frutto di una semplice assonanza con la class action americana, e pur alludendo alla esperienza statunitense che fa capo alla Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure, che risalgono al 1938, non si può spingere più in là di una mera convenzione linguistica. Peraltro nelle esperienze europee questo strumento processuale è definito in vario modo, facendo riferimento, in particolare, ad un “gruppo” di soggetti. 2. Caratteri della “classe” I caratteri della “classe” si possono rinvenire innanzitutto nella qualificazione dei soggetti che sono legittimati a proporre l’azione, qualificati come consumatori e utenti. L’art. 140 bis del cod.cons. non definisce questo modo di identificare il soggetto, ma , essendo la disposizione contenuta in un codice di settore, si può fare riferimento al contesto normativo in cui essa è collocata: ed è appunto l’art. 3 c. 1 lett. A) che definisce come consumatore “o” utente <la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta>. L’azione di classe non può quindi essere promossa da persone giuridiche, o da enti non provvisti di personalità giuridica, ad eccezione delle associazioni a cui la persona fisica così qualificata abbia dato mandato ovvero dei comitati a cui la persona fisica partecipi (c. 1). Non è consentito neppure estendere il significato di consumatore o utente a soggetti che svolgano una delle attività sopra richiamate che valgono ad escludere lo status richiesto. Non sono legittimati gli avvocati, i quali peraltro possono difendere anche individualmente il consumatore o utente che voglia promuovere l’ azione di classe , o assistere il consumatore che intenda aderire ad essa (in questo caso, tuttavia, il c. 3 precisa che l’adesione può essere effettuata <senza ministero di difensore>). L’azione di classe può essere promossa anche da un solo consumatore o utente, ma deve riguardare una pluralità di soggetti: non è richiesto né un numero adeguato, né un “rappresentante” di categoria. Il requisito della pluralità di soggetti compare varie volte nel testo: ad es., al c. 2, ove si parla di una <pluralità di consumatori e utenti> (lett.a)), oppure di <consumatori finali> (lett.b)), oppure al plurale di <consumatori e utenti >(lett. c)), così come al c. 3. Pur potendo promuovere la tutela dei propri diritti ( individuali) mediante l’azione di classe il proponente deve però “apparire” <in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe> (c. 6). La “classe” dunque da un lato risulta composta da più soggetti che fanno valere diritti individuali, dall’altro diventa identificativa dei soggetti legittimati a coltivare l’azione, perché il vaglio della ammissibilità della domanda è effettuato dal tribunale nella fase preliminare con riguardo non tanto alla sommatoria degli interessi individuali quanto piuttosto all’interesse della categoria. I caratteri della classe emergono poi da altri indici normativi, dati: • dall’ambito dei settori in cui l’azione può essere promossa, che, secondo il c. 2, riguardano i diritti contrattuali, i danni da prodotti, i danni derivanti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali; • dalla titolarità di diritti e dalla fondatezza della domanda (c. 6); • dalla insussistenza di conflitti d’interesse dei promotori (il cui interesse opportunamente identificato e qualificato deve quindi riverberarsi sull’intera classe) (c. 6); • dalla “omogeneità” dei diritti individuali fatti valere, omogeneità che riceve, a seconda dei settori sopra considerati, diverse connotazioni (c. 1); • dai caratteri dei diritti individuali come definiti dal tribunale con l’ordinanza di ammissibilità e • dai criteri di inclusione o di esclusione degli aderenti all’azione nella classe di riferimento (c. 9). Oltre che appartenere a più persone, i diritti debbono essere omogenei oppure identici. L’omogeneità dei diritti fatti valere è specificata: • per i diritti contrattuali, dalla identità di situazione in cui versano i consumatori e gli utenti nei confronti di una stessa impresa (e non quindi in generale di un professionista, come definito dall’art. 3, c. 1, lett. c) del cod.cons.) • per i danneggiati dai prodotti, dall’ essere <consumatori finali> titolari di diritti identici • per i danneggiati da pratiche scorrette e da comportamenti anticoncorrenziali, dall’essere gli stessi consumatori e utenti titolari di diritti identici. Sono sufficienti questi indici per definire la classe e quindi per valutare la possibilità di coltivare l’azione di classe? Cosa significa “omogeneità“ e “identità” dei diritti? A questi interrogativi si può rispondere – per il momento – con altri interrogativi. Può essere sufficiente considerare il titolo in base al quale si agisce? Così sembrerebbe dal tenore del c. 3, per il quale <l’adesione comporta rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo>. Ma l’ identità dei diritti, cioè la loro formale e/o sostanziale corrispondenza deve essere ancora più profonda? Se il titolo discende dal rapporto istituito con il convenuto, sarebbe sufficiente la titolarità del diritto al risarcimento o alla restituzione, a sua volta fondato sul contratto o sull’atto illecito? Si debbono anche considerare le circostanze di fatto , cioè il tipo di danno subìto, il nesso causale tra comportamenti e danno, la lesione dell’interesse tutelato che porterebbero – in modo formalmente identico per tutti – a radicare un’azione di classe risarcitoria o restitutoria? O è sufficiente considerare come omogenei ed identici i diritti formalmente vantati, senza riguardo alle specifiche circostanze in cui il danno si è verificato? Cambierebbe la qualificazione della omogeneità e della identità se l’azione anziché essere rivolta al risarcimento e alla restituzione fosse circoscritta al mero accertamento del diritto? La dottrina non ha ancora sciolto il nodo delle domande che si possono introdurre con l’azione di classe, perché, se si dovesse accedere alla tesi per la quale l’espressione <accertamento della responsabilità e condanna> impiegata nel c. 1 allude ad una duplicità di azioni , si dovrebbe ammettere la proponibilità di un’azione di accertamento indipendentemente dall’azione di condanna. Ma se le parole usate dal legislatore dovessero essere intese in senso letterale, si potrebbe argomentare in senso contrario, cioè nel senso della inscindibilità delle azioni in forza del disposto del c. 12, secondo il quale <se accoglie la domanda, il tribunale pronuncia sentenza di condanna….>. Il testo della disposizione si arresta alla qualificazione dei diritti, e non si dilunga più di tanto nella individuazione dei criteri utili per la loro qualificazione. In altri termini, fino a che punto si deve spingere il processo di qualificazione dei diritti omogenei o identici? Si deve ritenere che il danno lamentato dai proponenti sia identico anche nell’ammontare? La risposta dovrebbe essere negativa. Rifacendosi sempre alla lettera della norma , l’interprete nota che il c. 12 menziona le <somme definitive>, il che lascerebbe propendere per una possibile differenza tra le somme liquidate a ciascun proponente o aderente; e così quando il comma si riferisce al <criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme>. La formula di diritti “omogenei”, diritti “identici”, situazioni “identiche”, e così via può essere dunque assunta almeno in tre diverse accezioni, che graduano o colorano il suo significato: quella di identità formale, derivante dallo stesso titolo, quella di identità sostanziale, derivante dalla stessa tipologia di danno, quella di identità assoluta, consistente nella ripetitività delle situazioni per così dire “fotografate” nella loro oggettività, divergenti tra loro solo per la loro riconducibilità ai soggetti – questi sì non identici,ma accomunati dal medesimo status – componenti della “classe”. I problemi interpretativi , però, non finiscono qui. In altri termini, si deve considerare la “classe” come una categoria unitaria, o si possono distinguere sotto-gruppi, sotto-classi, sotto-categorie di diritti appartenenti ai soggetti inclusi nella “classe” e protetti da una definizione ampia di essa? Un esempio emblematico della questione può tratto dalla casistica in materia di violazione del dovere di informazione sulle caratteristiche dei prodotti finanziari, sempre che si ritenga che l’azione di classe sia applicabile anche a questa materia ( questione che si accennerà tra poco) : vi sono casi nei quali il consumatore aveva sottoscritto moduli predisposti dall’intermediario che consentivano a questo di scegliere tra i prodotti finanziari, altri casi in cui il consumatore aveva sottoscritto moduli di acquisto di prodotti non adeguatamente illustrati , altri casi ancora in cui il consumatore aveva sottoscritto moduli che contenevano clausole di recesso esperibile nella lunga durata, altre volte ancora il consumatore non aveva sottoscritto moduli di acquisto ma moduli di gestione del patrimonio; e casi in cui il consumatore non aveva effettuato l’acquisto ma aveva rinvenuto i titoli nel proprio portafoglio grazie ad un acquisto per così dire “imposto”. Di più: in alcuni casi il consumatore aveva effettuato una pluralità di investimenti, in altri casi gli investimenti erano stati effettuati in tempi diversi; ancora, alcuni consumatori avevano dichiarato una bassa propensione al rischio, in altri una media e in altri una alta propensione . Oppure, si pensi al danno alla salute derivante dalla diffusione di una partita di cibo in scatola avariato: i danni potrebbero riguardare diverse partite dei prodotti, diversi periodi di tempo di immissione sul mercato, diversi riflessi sulla integrità fisio-psichica, diverse tipi di danno patrimoniale correlati con l’attività lavorativa che non si è potuta esercitare, diverse tipologie di consumatori distinti per età ed esperienza, e così via. In tutti queste ipotesi si formano classi separate che richiedono azioni separate oppure sottoclassi di una unica classe per un’unica azione di classe? 3. Ambiti di tutela dei diritti e fondamento dell’azione di classe Alcuni dei problemi sopra accennati si erano già affacciati nel corso della discussione della versione precedente del testo dell’art. 140 bis cod.cons. Il primo fra tutti riguardava – e riguarda tuttora – il significato della collocazione di questa disposizione nel contesto di un codice di settore dedicato al consumo , e non nel codice di procedura civile; si era poi sottolineato che il codice del consumo attiene per l’appunto alla categoria economica e ai rapporti che si intrecciano tra professionisti e consumatori e non è uno statuto dei diritti dei consumatori, anche se essi sono enunciati, in modo certamente non esaustivo, dall’art. 2 che apre il codice. Di qui la sovrapposizione di diversi piani di tutela, tra loro non facilmente coordinabili. Se si interpreta la lettera restrittivamente, il nuovo strumento processuale può essere utilizzato solo per la tutela dei diritti elencati nelle lett. a), b), c) del c. 2 dell’art. 140 bis, ma non per la tutela di tutti i diritti <riconosciuti come fondamentali> dall’art. 2 del cod.cons., e ciò nonostante che i diritti espressamente elencati come oggetto di tutela offerta dall’azione di classe siano riconducibili ai diritti fondamentali , senza esaurirli interamente . Così accade per i “diritti contrattuali”: per l’appunto i c.d. diritti contrattuali sono contemplati anche all’art. 2, c. 2, lett. e), ove si sancisce il diritto dei consumatori alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali. Così accade per il danno da prodotto: il danno da prodotto è implicitamente considerato dalle lett. a) e b) dell’art. 2, c. 2, ove si sancisce il diritto dei consumatori alla tutela della salute e alla sicurezza della qualità dei prodotti e dei servizi; il danno da pratiche commerciali scorrette può essere ricondotto alla lett. c-bis) della medesima disposizione ove si sancisce il diritto dei consumatori all’ esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà; il danno da comportamenti anticoncorrenziali non è ricompreso nell’ elenco dei diritti fondamentali del cod.cons., ma la Risoluzione comunitaria sulla tutela del consumatore risalente al 1975 includeva tra i diritti dei consumatori anche , genericamente, la tutela degli interessi economici, tutela ribadita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea , a cui ben possono afferire i diritti derivanti dalla violazione di regole di concorrenza aventi effetti pregiudizievoli per i consumatori. Se si scorrono poi altre disposizioni contenute nel codice del consumo, a questi diritti si debbono aggiungere i diritti degli utenti pregiudicati dall’esercizio di attività televisive e i diritti degli utenti derivanti dalla diffusione di messaggi pubblicitari di medicinali per uso umano (art. 139, concernente la legittimazione ad agire delle associazioni iscritte nell’elenco ministeriale per promuovere l’azione inibitoria in materia). Il nuovo testo dell’art. 140 bis rimuove i dubbi sulla tutela degli interessi collettivi dei consumatori, perché in tante occasioni sottolinea come l’azione di classe così come congegnata sia rivolta a proteggere solo diritti individuali. La dimensione “collettiva” però non è stata definitivamente soppressa: la promozione dell’azione di classe deve rispondere alla “apparenza” di tutela di un interesse della classe. Non si deve poi passare sotto silenzio il fatto che l’art. 2 con cui si apre il codice del consumo si premura di enunciare il riconoscimento e la garanzia dei <diritti e degli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti > promuovendone la protezione <anche in forma collettiva e associativa>. La tutela degli interessi collettivi sembra dunque circoscritta alla tutela inibitoria (artt. 139-140 cod. cons.). L’azione di classe è uno strumento che riguarda dunque alcuni diritti – non tutti i diritti – dei consumatori. Sono dunque esclusi dall’ambito di proponibilità dell’azione di classe i diritti fondamentali della persona – intesi come diritti inviolabili costituzionalmente garantiti, i diritti riconosciuti nella Carta dell’ unione europea e i diritti dell’ uomo protetti dalla Convenzione di Roma – e ciò nonostante che proprio le grandi sfide della nostra epoca e il grado di democrazia di un Paese si misurino sulla intensità/effettività della tutela dei diritti fondamentali; anzi, questo settore appare come il più significativo nella storia della giurisprudenza statunitense che ha consentito il ricorso alla class action . E’ escluso dall’ambito di applicazione dello strumento processuale anche il diritto all’ambiente, inteso sia come diritto alla salute leso da inquinamento o deterioramento dell’ambiente, sia come interesse collettivo alla conservazione dei beni ambientali; e ciò nonostante che i casi via via sottoposti all’esame dei giudici – dalla vicenda della nube tossica di Seveso a quella dei fanghi rossi di Scarlino, da quella dell’ inquinamento delle falde acquifere dovuto a scarichi industriali a quella dell’ inquinamento del suolo cagionato da rifiuti radioattivi, all’ inquinamento marino per il deposito di residui di cromo o per l’avaria di una nave petroliera – siano assai eloquenti sulla esigenza di assicurare alle vittime un adeguato rimedio processuale per rendere efficiente, sollecita, semplificata la reazione dell’ordinamento di fronte a disastri che colpiscono intere collettività. E che dire dei diritti dei risparmiatori – ormai per giurisprudenza consolidata ( e non solo per orientamento pressoché univoco della dottrina ) – accomunati ai diritti dei consumatori, ma protetti in due testi unici, il t.u. bancario e il t.u. sulla intermediazione finanziaria, estranei al codice del consumo, salva la disciplina dei contratti a distanza di servizi finanziari? In quanto tali non si potrebbero proteggere con l’azione di classe, neppure se connessi ad un rapporto di credito al consumo, a meno che non si facciano rientrare, ma ad altro titolo, nella categoria dei “diritti contrattuali” – come si è proposto negli esempi iniziali – o nei danni da comportamenti anticoncorrenziali. Rimangono poi estranei alla operatività dell’azione di classe – ma non all’azione inibitoria di cui agli artt. 139 e 140 del cod.cons. – gli interessi collettivi e gli interessi diffusi. Le preoccupazioni dell’interprete che si proponga di esaminare questa disciplina dal punto di vista del diritto sostanziale non si esauriscono nelle questioni che si sono accennate, perché si estendono anche alle categorie dei diritti in cui l’azione di classe è esplicitamente garantita. 4. I “diritti contrattuali” Il c. 2 identifica uno dei settori capitali del mercato del consumo – i vincoli negoziali istituiti tra consumatori e imprese – alludendo alla tutela dei diritti che i consumatori possono proteggere anche facendo ricorso alla azione di classe. Questi diritti sono denominati “contrattuali”: di solito ci si riferisce al diritto contrattuale come ad una branca del diritto civile o ad una sezione dell’ordinamento privatistico; qui la nozione è soggettivata, e pertanto si dovrebbe intendere nel senso di diritti che derivano da fonte contrattuale, cioè da un vincolo contrattuale istituito dal consumatore (o utente) con il professionista, qui connotato come “imprenditore”. I diritti che derivano da fonte contrattuale sono i più vari, stante l’orizzonte indefinito dell’autonomia contrattuale. Nell’ambito del “rapporto di consumo”, secondo il quale si articola la normativa contenuta nell’apposito codice di settore, si disciplinano i contratti del consumatore in generale, cioè le clausole vessatorie (art. 33 ss.), la promozione delle vendite (art. 39 ss.) il credito al consumo (anche se solo accennato per un rinvio) , la conclusione di contratti fuori dei locali commerciali, la conclusione di contratti a distanza – inclusi i servizi finanziari ai consumatori – la multiproprietà, i servizi turistici, le clausole di esonero dalla responsabilità del produttore (art. 1124) e le garanzie nella vendita (art. 128 ss.). I diritti riconosciuti dal codice del consumo sono irrinunciabili, essendo nulla ogni disposizione in contrasto con il codice (art. 143). Questo è, per scelta legislativa, il corpus delle regole sui contratti del consumatore, a cui si applicano anche le regole sul contratto in generale, ove non derogate dalle prime (art. 1469 bis cod.civ.). Il c. 2 non fa menzione, a proposito dei “diritti contrattuali”, della disciplina contenuta nel codice del consumo , ma va da sé che la fonte contrattuale primaria è costituita dai contratti del consumatore e quindi dalle regole legislative e convenzionali che si applicano ad essi. L’inciso <inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile> è pertanto additivo. La conoscibilità delle condizioni generali di contratto (art. 1341, c. 1), la inefficacia delle clausole vessatorie elencate nel c. 2 della medesima disposizione, la prevalenza delle clausole aggiunte su quelle predisposte in moduli o formulari (art. 1342) ampliano, in quanto possibile, l’ambito di tutela assicurato dalle disposizioni contenute nel codice del consumo. Il codice del consumo, sempre con riguardo ai contratti del consumatore – e quindi, ai diritti contrattuali che ne discendono – contiene una norma di rinvio, l’art. 38, per la quale <ai contratti conclusi tra il consumatore ed il professionista si applicano le disposizioni del codice civile>. Ora, anche se si volesse circoscrivere la tutela ai diritti contrattuali derivanti da rapporti istituiti con le imprese (e non con tutti i professionisti) , ed anche se i diritti contrattuali che si possono far valere con l’azione di classe debbono essere vantati da una <pluralità di consumatori che versano (…) in situazione identica>, rimarrebbero sempre prospettabili azioni di adempimento, azioni di risoluzione, azioni di risarcimento del danno. Si può pensare anche all’azione di nullità prevista dall’art. 36 cod. cons., che è una azione di accertamento cui consegue però la restituzione? Oppure si può pensare ad una nullità dichiarata incidentalmente con condanna al risarcimento del danno ex art. 1338 c.c., oppure ad un risarcimento del danno per violazione della correttezza e buona fede? E come si devono intendere i rimedi collegati con le garanzie nella vendita? O si deve pensare che la normativa riguardi solo i contratti redatto per iscritto e le singole claudsole che essi contengono? Anche la identità delle situazioni deve essere meditata. Se identità significa identità di contratti conclusi dai consumatori che agiscono mediante l’azione di classe o ad essa aderiscono, nulla quaestio. Ma ciò significa anche identità di domande derivanti dalla violazione di diritti contrattuali fondati sul medesimo contratto ? Se la domanda riguarda una clausola di esonero da responsabilità contenuta nel modulo contrattuale sottoscritto da una pluralità di consumatori, il giudice può rilevare d’ufficio (come ha statuito di recente la Corte di Giustizia dell’ Unione europea) la nullità di altre clausole? Si debbono promuovere tante azioni di classe quante sono le clausole o i gruppi di clausole che si vogliono colpire? Se la prima delle azioni di classe promossa ne colpisce solo una, i suoi promotori o i consumatori aderenti possono poi promuovere o aderire ad altre azioni di classe avviate per colpire altre clausole del medesimo contratto diffuso dalla medesima impresa? Se tutte le azioni promosse per ogni singola clausola sono presentate dinanzi al medesimo giudice, questi può decidere di riunirle? 5. I danni da prodotto Il danno da prodotto non colpisce solo il consumatore finale, ma ogni vittima che sia venuta a contatto con il prodotto, come il semplice bystander , l’ospite, il componente della famiglia che non ha comprato il prodotto; il “consumo” del prodotto non è necessario per potersi avvalere della disciplina . Gli intenti della direttiva comunitaria , della disciplina attuativa,e delle regole del codice del consumo che l’hanno recepita , agli artt. 114 ss.cod.cons., sono indubbi a questo proposito. Il testo del c. 2, lett. b) che fa riferimento ai <diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale> dovrebbe essere dunque inteso nel senso che – come già per l’interpretazione del cod.cons. – l’inserimento di queste disposizioni nel codice di settore non implica una riduzione della categoria dei soggetti tutelati , ma una interpretazione letterale delle disposizioni non superabile – cioè non comprimibile – da quella sistematica. Tutte le vittime di un prodotto difettoso possono invocare questa disciplina, se hanno subito un danno dal prodotto. Certo la disciplina qui prevista deve essere poi integrata da quella recata dagli artt. 114 ss. cod. cons.. I soggetti sono tutelati <anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale> con il <relativo produttore>. L’azione ha natura extracontrattuale , se si tratta di consumo o contatto con il prodotto; il consumatore o danneggiato possono avvalersene anche se non hanno istituto un rapporto contrattuale con il produttore. Sorgono però due questioni. La prima è se l’azione sia proponibile dall’acquirente, che sia consumatore solo per status ma non abbia direttamente consumato il prodotto e quindi non sia stato colpito nella sua integrità fisica, ma abbia però istituito un rapporto contrattuale diretto con il produttore . L'<anche> inserito nel testo sopra riportato porterebbe ad ammetterlo. La seconda è se legittimato passivo sia solo il produttore, visto che il c. 2 della lett. b) si riferisce al “produttore” senza definirlo. Il cod.cons. ne dà una definizione ampia, che comprende anche altre categorie di professionisti . La formula dell’art. 3, c. 1, lett. d) cod. cons. riprende le regole previste dall’art. 116 cod. cons. sulla responsabilità del fornitore e dell’importatore. Anche in questo caso occorre individuare la regola interpretativa che collega l’art. 140 bis con le regole interne al codice del consumo. E’ necessario poi stabilire se si debba istituire un collegamento delle disposizioni – processuali e sostanziali – anche dal punto di vista del tipo di danno risarcibile e delle condizioni di decadenza e prescrizione stabilite dal cod.cons. in deroga al codice civile. Ma questo rinvio alle regole sulla responsabilità del produttore contenute nel codice del consumo non si rinviene nel testo dell’art. 140 bis: ed allora, anche in questo caso, o si ritiene che si tratti di una disciplina che si deve ricondurre in via sistematica al contesto normativo nel quale essa è collocata, e quindi deve essere integrata dalle disposizioni della materia, anche se non esplicitamente richiamate, oppure si tratta di una disciplina che, introducendo un nuovo strumento processuale, può esorbitare dall’ambito del codice del consumo. Se così fosse, non si applicherebbero le limitazioni riguardanti la tipologia dei danni risarcibili, la decadenza e la prescrizione, e così via, ma se l’azione fosse fondata sull’art. 2043 c.c. sarebbe dubbia la possibilità di imputare al produttore una responsabilità oggettiva. Sul punto, per la verità, la dottrina non è univoca, perché già in epoca anteriore alla attuazione della direttiva comunitaria in materia si era convenuto da molti che si fosse in presenza di responsabilità senza colpa. 6. Le garanzie nella vendita Anche i diritti derivanti dal contratto di vendita di beni di consumo hanno natura contrattuale: pertanto i consumatore-acquirenti possono farli valere, alle condizioni previste ,anche mediante azione di classe. Ciò a duplice titolo: come diritti contrattuali derivanti da contratti conclusi mediante moduli o formulari ex artt. 1341 e 1342 c.c., come diritti contratti derivanti da un rapporti istituito con l’impresa anche al di fuori della applicazione degli artt. 1341 e 1342 – ed allora mi riferirei agli artt. 128 ss. del cod.cons. – e come soggetti danneggiati dal prodotto, che si aggiungono alle categorie delle vittime che non abbiano istituito un rapporto contrattuale con il produttore. I rimedi concessi dalla disciplina speciale del rapporto di consumo rientrano nell’ambito della garanzia e quindi in senso lato della responsabilità contrattuale (sostituzione , riparazione) a cui si può aggiungere il risarcimento del danno. Sarebbe difficile impedire il ricorso a queste regole sol perché nel testo dell’art. 140 bis non sono menzionate direttamente le garanzie nella vendita. 7. I danni da pratiche commerciali scorrette Il riferimento alle pratiche commerciali scorrette consiste in una pura menzione: non se ne dà la definizione, non si dice in che cosa possano consistere la lesione subìta dal consumatore e il danno che ne possa conseguire. E’ giocoforza dunque fare riferimento alla normativa ad hoc, che si rinviene, sistematicamente articolata, nel codice del consumo, nel capo secondo del titolo terzo, agli artt. 20 -26. Qui sono previste le diverse tipologie tecniche e metodi con cui si possono fornire od omettere informazioni al consumatore, creandogli quindi un danno per la falsa rappresentazione della realtà che lo induce a concludere il rapporto contrattuale per l’acquisto del prodotto o del servizio oggetto dell’iniziativa dell’imprenditore, limitando la sua libertà contrattuale e infliggendogli anche danni per le modalità con cui queste pratiche sono condotte, ad es., violando la privacy , minacciandolo, vessandolo nelle forme più varie . Quanto alle televendite – sempre che anch’esse siano riconducibili alle pratiche commerciali scorrette , pur essendo disciplinate in un titolo diverso (il quarto)del codice del consumo , si fa riferimento ad offese alla dignità umana, alle discriminazioni, alla salute e alla sicurezza , alla protezione dell’ambiente (art. 30). Il danno quindi può essere sia patrimoniale sia non patrimoniale, a seconda della natura dell’interesse leso. 8. I danni da comportamenti anticoncorrenziali A differenza degli altri temi che sono in qualche modo trattati nel codice del consumo, i comportamenti anticoncorrenziali appartengono alla disciplina speciale sulla concorrenza. Anche in questo caso non si dànno definizioni , né vi sono rinvii normativi. Spetta dunque all’interprete dare significato a questi comportamenti , che di volta in volta possono essere intese (accordi o pratiche: art. 2, L. 10 ottobre 1990, n. 287) oppure comportamenti connessi all’ abuso di posizione dominante (art. 3, L. cit.) nella misura in cui possano avere riflessi sui singoli consumatori (non imprenditori). L’art. 33 della L. cit. dispone che < le azioni di nullità e di risarcimento del danno > per la violazione delle disposizioni di questa legge sono promossi davanti alla corte d’appello competente per territorio. Gli studiosi di diritto processuale spiegheranno se debba prevalere la specialità della materia oppure la specialità dello strumento processuale e del rito ad esso connesso per radicare l’azione di classe dinanzi al giudice delle questioni antitrust oppure dinanzi al giudice della azione di classe. Resta il fatto che la nozione di comportamento anticoncorrenziale deve essere costruita dall’interprete tenendo conto della giurisprudenza. Il caso più eclatante riguarda la vicenda delle intese anticoncorrenziali tra alcune società di assicurazione per la fissazione delle tariffe dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione di veicoli. Come è noto la questione si è avviata con il provvedimento dell’ Autorità garante per la concorrenza e il Mercato n. 8546 del 28 luglio 2000, che ha sanzionato il comportamento delle società, la sentenza del TAR Lazio n. 6139 del 5 luglio 2001 che ha confermato la sanzione, la sentenza del Consiglio di stato n. 2199 del 26 febbraio 2002, che ha parzialmente modificato la pronuncia appellata, la sentenza della Corte di Cassazione n. 2305/2007 con cui – in conformità a quanto già precisato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 2207/2005 – si stabilisce che il bene leso è la conservazione del carattere competitivo del mercato. Il danno, in giurisprudenza talvolta qualificato come arricchimento ingiusto, è invece classificato nell’ambito della responsabilità extracontrattuale. Tutta la materia ha investito un’ampia attività degli organi comunitari diretta alla istituzione del “private enforcement”, affidando quindi alle iniziative dei privati lo stimolo per l’applicazione delle sanzioni, ovvero la soluzione stessa – in senso sanzionatorio-risarcitorio – delle violazioni della disciplina della concorrenza. Insomma, una sorta di “controllo sociale delle attività d’impresa” svolto mediante iniziative dei privati danneggiati con il concorso delle corti. Anche in questo caso possono nascere questioni di unitarietà della classe, o di formazione di sotto-classi, atteso il tipo di lesione e quindi di danno conseguente che il comportamento anticoncorrenziale abbia cagionato. Una ricerca recente della Commissione europea registra la varietà di orientamenti dei giudici nazionali a questo riguardo. 9. Alternative sulla applicazione della normativa A questo punto si aprono alcune alternative nella definizione dell’ambito di applicazione della normativa in esame. La prima è data dalla interpretazione letterale delle disposizioni: in base ad essa – attesa la terminologia molto ampia utilizzata dal legislatore – la normativa va al di là dei confini del codice del consumo, in quanto si estende ai contratti conclusi dai consumatori sulla base degli artt. 1341 e 1342, dai quali discendono diritti non garantiti dal codice del consumo, tutti i diritti derivanti dal consumo di un prodotto, ai comportamenti anticoncorrenziali, ai casi di danno da prodotto non contemplati nel codice del consumo. La seconda, di natura sistematica, include nell’ambito di applicazione solo i diritti dei consumatori garantiti dal codice del consumo, con le addizioni esplicitamente previste dal testo della normativa. Anche a questo riguardo però i dubbi permangono, perché il codice del consumo fa rinvio in più punti alla disciplina generale del codice civile , e quindi nel novero dei diritti dei consumatori si dovrebbero includere anche i diritti fondati sulle regole del codice civile. Il codice del consumo rinvia anche alla disciplina del credito al consumo contenuta in altra legge speciale. Seguendo il principio della estensione dell’applicazione per rinvio, anche quest’area dovrebbe essere inclusa. 10. Il “filtro” dell’azione di classe Al fine di evitare un eccessivo ricorso a questo strumento e per prevenire iniziative giugulatorie nei confronti delle imprese, insomma, per evitare l’abuso del processo, il testo ha allestito un percorso piuttosto complesso, che può apparire una sorta di campo minato. E’ un nuovo filtro collegato con requisiti processuali, oltre che con le limitazioni derivanti dal diritto sostanziale. L’adesione comporta rinuncia ad ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo (c. 3); il tribunale decide all’esito della prima udienza sulla ammissibilità della domanda, che può essere manifestamente infondata, presentare conflitto d’interessi o essere proposta da soggetti titolari di diritti non identici, o che non curino adeguatamente l’interesse della classe (c. 6); in caso di inammissibilità si possono liquidare le spese per lite temeraria (c. 8); perché la domanda sia procedibile, una volta ammessa l’azione, occorre darne opportuna pubblicità , e il tribunale definisce i caratteri dei diritti individuali , fissando un termine perentorio per il deposito degli atti di adesione (c. 9); si prevede una specifica competenza per materia e una specifica competenza per territorio, la concentrazione delle azioni di classe aventi il medesimo oggetto, un potere discrezionale del giudice nel fissare le regole e le fasi processuali e persino le preclusioni; si discute se si possano presentare istanze di misure cautelari; nulla dice il testo sulla eventuale impugnazione della decisione del tribunale.
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