Il 5 agosto, la morte di colui che Montanelli definì “il principe del giornalismo televisivo”…
Intervista a Michele Mezza (Rai): “Il libro non è più un prodotto finito, ma un forum polifonico. Il servizio pubblico garantisca il diritto del cittadino a produrre informazione. E i tg locali diventino navigatori dei territori”
di Marco Ciaffone [*] Un radicale cambio di prospettiva che porta assetti consolidati nei decenni a dover scendere a patti con le nuove logiche di consumo dei prodotti dell’industria culturale e un servizio pubblico radiotelevisivo rimasto troppo indietro su tutti i fronti aperti dalla rivoluzione digitale. Michele Mezza, giornalista Rai, saggista e docente universitario, descrive un sistema che, già profondamente mutato dal dilagare delle nuove tecnologie, è chiamato a giocare una partita che ne investe ogni aspetto fondamentale. Già inviato del Giornale radio in Urss e in Cina, Mezza nel 1993 ha collaborato al piano di unificazione del Gr e nel 1998 ha elaborato il progetto di RaiNews 24. Il giornalista sarà ospite, il prossimo mercoledì 7 maggio, presso l’Università Europea di Roma nel corso di Sociologia del Professor Paolo Sorbi. Lei si definisce “autore cross-mediale”, ci spiega in che termini declina questa espressione? La cross medialità è l’utilizzo di un linguaggio adattato a media e piattaforme diverse. Un discorso centrale nel mondo che viviamo perché la vera partita della comunicazione si gioca sulla capacità di adattare lo stesso contenuto a modelli di fruizione sempre più diversificati. E non è un mero discorso di riversamento in formati diversi, perché è la stessa struttura semantica di ciò che si produce a cambiare, perché il contenitore condiziona e in parte determina il contenuto. I media stanno finendo per interferire e ridefinire la nostra stessa struttura antropologica, perché non c’è quasi più attività umana che non implichi una negoziazione con un software, che non va subito in maniera passiva ed è esso stesso in continuo adattamento al contesto sociale in cui viene utilizzato. Ecco, il nodo centrale è proprio la gestione di questa negoziazione, con la consapevolezza che prima ancora e più della tecnologia esistono una serie di relazioni umane che determinano la formattazione della tecnologia stessa. Nel suo libro “Avevamo la Luna. L’Italia del miracolo sfiorato, vista cinquant’anni dopo” è presente una ricca serie di qr code che permettono di “interagire” col libro e fruire di materiale multimediale. Un esempio di come la convivenza tra carta e digitale passi da un dialogo tra i supporti più che da una sostituzione tra gli stessi. Ma è modello destinato a lunga vita o è comunque un buon modo, ma solo quello, di gestire quella che appare una inevitabile integrale transizione al digitale, ai suoi linguaggi, al suo essere ormai paradigma dominante? In questo libro la carta diventa una piattaforma multimediale grazie all’adozione di codici a barre di secondo livello. Sul discorso della prospettiva, stiamo parlando di una materia precaria e instabile, e parlare guardando il futuro nella palla di vetro sarebbe un esercizio puramente retorico. Possiamo però affermare che in questa fase la convivenza interattiva dei due formati è un modo per prolungare l’agonia della carta, che si propone così anch’essa come supporto di materiale comunque digitale e multimediale. Bisogna fare tuttavia attenzione a non ridurre tutto ad un mero discorso tecnologico, in quanto questione che va affrontata con profondità storica e sociologica: la carta è figlia di un linguaggio iconico, la stessa lettura è un’esperienza relativamente recente nella nostra specie, ma soprattutto è una parentesi che si sta chiudendo. Ci sono fior di sociologi che sostengono che noi non siamo fatti per leggere, ma per usare le immagini per comunicare. Ecco, con le tecnologie digitali stiamo recuperando questo istinto prevalente, così come i social network sono il recupero di un modello di socialità che è stato distrutta dal fordismo. La rete ha recuperato elementi connaturati nell’uomo, non ne ha imposti di nuovi. Un discorso che investe in pieno anche il giornalismo… Credo che il giornalismo sia la lente di ingrandimento di questo processo. Anche in questo settore vediamo una fase iniziale caratterizzata da uno scambio di comunicazione che avveniva in termini comunitari; le forme con le quali il giornalismo ha mosso i primi passi nel Cinquecento e nel Seicento erano mutuate dal passa parola. Poi c’è stata la fase fordista del giornalismo, che ha ricalcato il modello industriale, con redazioni costruite nello stile della fabbrica. Oggi si sta tornando ad una orizzontalizzazione del processo produttivo, mentre dall’altra parte sta avvenendo un fenomeno di rottura con il giornalismo tout court, che sta assumendo sempre più i tratti di un’attività relazionale. Intendo dire che si producono sempre più informazioni tramite le attività relazionali di base, più che per una professione specializzata. Tornando allo specifico dell’editoria libraria, dal self publishing alle nuove forme di tutela dei diritti d’autore la vera questione aperta resta sempre quella della monetizzazione dei contenuti che vengono prodotti e diffusi online, quali sono i principali nodi da sciogliere in questo senso? Ripeto, quello in gioco è un processo antropologico, in merito al quale io penso che il trend sia quello di una sempre maggiore riduzione dell’attività di un’editoria industriale, cioè di un sistema che produce e organizza il modo di distribuire il sapere su un format come il libro di carta. Sta morendo l’idea stessa di un libro come prodotto finito, figlio di una filiera fatta di passaggi preordinati e sempre uguali con un output definito; con mille gradualità sta finendo il modello di un prodotto con la parola fine, per entrare in un ragionamento polifonico di un libro come forum, ed è naturale conseguenza il fatto che il diritto d’autore come l’abbiamo conosciuto stia arrivando al capolinea. La cultura del remix sta giustamente uccidendo il copyright tradizionale. Anche qui ci sono mille graduazioni e una guerra infinita che deve però fare i conti con una crescente richiesta di partecipazione alla produzione ma, soprattutto, di riuso, modifica ed evoluzione di ciò che è stato prodotto altrove. In un articolo di pochi giorni fa pubblicato su Key4Biz lei è stato particolarmente duro nei confronti delle iniziative messe in campo dalla Rai, che “giocherebbe nel suo giardino interno”. Cosa vuole dire? Il sevizio pubblico sconta una serie di drammatiche distrazioni ed errori epocali che affondano le radici in un tempo ormai lontano. Si sono persi troppi treni e quindi la vera partita. Il servizio pubblico non interpreta in termini propulsivi l’opportunità che deriva dalla spinta alla produzione sociale dell’informazione. Nel momento in cui la produzione diviene un processo di collaborazione tra la redazione e i suoi utenti, è proprio il servizio pubblico che dovrebbe cogliere per primo questa opportunità: in questa fase storica essere servizio pubblico non è più garantire il diritto ad essere informati, ma garantire il diritto a poter produrre e fare informazione. È quest’ultimo il bisogno fondamentale che emerge dalla società di oggi. L’altro punto è il dato tecnologico: il servizio pubblico non dovrebbe consumare tecnologia altrui, perché la scelta di un algoritmo è strettamente legata alla cultura che voglio adottare e agli obiettivi che voglio perseguire. Se delego a qualcuno la tecnologia gli sto delegando il framework entro il quale va utilizzata, il modo in cui devo organizzare il lavoro e quindi la partita è persa in partenza. Qual è la vera priorità per il servizio pubblico per trainare l’offerta culturale nell’era digitale e non ritrovarsi ad agire a rimorchio di altri? Cambiare il modello delle redazioni locali. Viviamo in un’epoca nella quale l’informazione intesa come notizia nuda e cruda viene data perfino dai frigoriferi. Le redazioni locali, e penso alle grandi strutture regionali, hanno invece l’opportunità di interpretare un nuovo modello sfruttando la loro presenza sul territorio per diventare incubatori multimediali e perseguire un obiettivo preciso: produrre “navigatori” piuttosto che telegiornali. Fornire cioè al cittadino sistemi di orientamento e di informazioni sul territorio, sui suoi temi industriali, enogastronomici, formativi, culturali. Creare insomma sistemi di relazione più che volumi di informazioni ridondanti e perciò inutili. [*] Questo intervento è inserito in “Occhio di riguardo: la comunicazione tra tecnologia, mercato e diritto”, rubrica affidata a Gianfrancesco Rizzuti, docente di Relazioni Pubbliche Economiche e Finanziarie all’Università Europea di Roma, con la collaborazione, tra gli altri, di Marco Ciaffone. La rubrica tratterà di temi economici, giuridici e tecnologici, prendendo spunto dall’attualità o da pubblicazioni, ma sempre con un occhio (di riguardo) alla comunicazione. 5 maggio 2014