skip to Main Content

La Cassazione si pronuncia nuovamente sul risarcimento del danno da pubblicità ingannevole

di Antonio Liguori Con la sentenza del 17 dicembre 2009 n. 26516, la Corte di Cassazione affronta nuovamente il tema della risarcibilità del danno da pubblicità ingannevole, conseguente all’apposizione della dicitura “lights” sui pacchetti di sigarette. La questione era stata recentemente affrontata anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 794/2009, i cui principi risultano ora ripresi anche dalla Terza Sezione della Suprema Corte. La fattispecie è, in primo luogo, ricondotta nell’ambito della pubblicità ingannevole, oggi disciplinata dall’art. 21 del Codice del Consumo (D.lgs. 206/2005), nonché dal D.lgs. 145/2007 (disciplina relativa alla tutela del professionista). Si ribadisce, quindi, che il risarcimento del danno non patrimoniale, patito dal consumatore a seguito di pubblicità ingannevole, non può essere riconosciuto in virtù di un mero automatismo tra fatto dannoso e danno risarcibile, e ciò in base ai principi dettati dall’art. 2043 c.c. in materia di responsabilità extra-contrattuale. L’onere probatorio che grava sul danneggiato, infatti, comprende tutti gli elementi che costituiscono la struttura dell’illecito aquiliano (condotta colposa o dolosa, evento lesivo e nesso di causalità). In particolare con riferimento all’elemento soggettivo dell’illecito extra-contrattuale, la Corte di Cassazione sottolinea come esso debba essere adeguatamente provato e motivato dal danneggiato, pur specificandosi che non è necessario fornire la di una condotta lesiva mirata ad attribuire al prodotto qualità inesistenti (nel caso di specie, ad esempio, che le sigarette “lights” fossero meno dannose per la salute). Se così fosse, infatti, il danno extracontrattuale sarebbe risarcibile solo in caso di dolo dell’agente, laddove dal riferimento alla colpa di cui all’art. 2043 c.c. deve evincersi che è sufficiente presupposto risarcitorio la diffusione negligente di un messaggio prevedibilmente idoneo ad insinuare nel consumatore il falso convincimento circa le caratteristiche del prodotto. La Corte di Cassazione torna poi ad escludere che il consumatore debba fornire la prova dell’illiceità della condotta dannosa. La questione nel caso di specie rileva atteso che solo con il D.lgs. n. 184/2003 sono state vietate diciture, denominazioni, marchi, immagini o altri elementi idonei a suggerire che un particolare prodotto del tabacco sia meno lesivo di altri; si è, pertanto, sostenuto che l’apposizione della dicitura “lights”, avvenuta prima dell’entrata in vigore del provvedimento legislativo testé richiamato, non possa costituire fatto integrante la responsabilità aquiliana. Tale conclusione non può essere condivisa, atteso che nella struttura della responsabilità extracontrattuale non assume rilievo l’illiceità del fatto, nel senso che non è richiesto che la condotta posta in essere dal soggetto agente violi una particolare disposizione di legge, regolamentare ovvero un dato provvedimento; ciò che conta è unicamente la sussistenza di un danno ingiusto, e cioè che il fatto, doloso o colposo, dell’agente abbia prodotto la lesione di una posizione giuridica altrui, tutelata dall’ordinamento, e non altrimenti giustificata. Diversamente, il consumatore è tenuto a fornire la prova del danno patito e di cui chiede al risarcimento. Circa la configurabilità di un danno da pubblicità ingannevole, quindi, la Suprema Corte, sulla scorta dei principi fissati in materia di risarcimento del danno non patrimoniale dalla sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni Unite, ricorda che tale danno può essere risarcito solo nel caso di danno conseguente alla lesione di valori della persona umana, costituzionalmente garantiti. Ebbene nel caso di specie non sarebbe, quindi, utile collegare il danno da pubblicità ingannevole all’art. 41 della Costituzione in quanto tale norma, posta a tutela della libertà di iniziativa economica privata e dell’autodeterminazione delle scelte in materia, appartiene alla sfera dei rapporti economici e non dei diritti inviolabili della persona. Sarebbe, invece, possibile richiedere il risarcimento del danno alla salute (art. 32 Cost.), a seguito del maggior consumo di sigarette causato dal messaggio pubblicitario ingannevole; ma anche tale danno va specificamente provato da parte del consumatore, mediante un apposito accertamento medico-legale. Si segnala, poi, come nella prima parte della sentenza la Corte di Cassazione evidenzi che nel caso di specie il consumatore avrebbe potuto agire anche ai sensi dell’art. 2050 c.c., potendosi configurare l’attività di commercializzazione di prodotti da fumo come attività pericolosa. Ciò in quanto i tabacchi, per la loro stessa composizione biochimica, ed avendo quale unica destinazione il consumo mediante fumo, contengono in sé una potenziale carica di nocività per la salute del consumatore. Si tratta, evidentemente, di uno spunto molto interessante in quanto considerare applicabile in simili casi l’art. 2050 c.c. consente di sollevare in maniera consistente il consumatore dall’onere probatorio sopra descritto e su di lui gravante ex artt. 2043 e 2697 c.c., in particolare con riferimento all’elemento soggettivo dell’illecito, per la presunzione di colpa ivi prevista. La norma, tuttavia, non ha trovato applicazione nel caso concreto, avendo la Suprema Corte rilevato che il consumatore aveva agito ex art. 2043 c.c., con il conseguente divieto per il giudice di sostituire la domanda proposta con una diversa, in virtù del principio fissato dall’art. 112 c.p.c.

Back To Top