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Fecondazione eterologa e corte europea CEDU: quali effetti vincolanti nel contrasto di interpretazione tra due decisioni ed altri profili processuali di costituzionalita’

di Riccardo Chieppa

Sommario: 1. Premessa e decisioni del 2010 e del 2011 della Corte C.E.D.U. quali effetti e profili processuali. 2. Sul divieto di fecondazione di tipo eterologo e conformità con i principi. 3. La legge n. 40 e la posizione della dottrina per il divieto di fecondazione eterologa. 4. Adozione come istituto riconosciuto dagli ordinamenti europei. Pretesa frattura tra genitorialità genetica e genitorialità legale. Esclusione.
1. Premessa e decisioni del 2010 e del 2011 della Corte C.E.D.U. quali effetti e profili processuali.
L’ambito del mio intervento discende dalla personale interpretazione della finalità di questo incontro presso l’Università Europea di Roma, cioè quella di dare una testimonianza e documentazione più ampia possibile dello stato della dottrina giuridica costituzionale sulla fecondazione eterologa [1] , con particolare attenzione ai problemi in ordine alle norme contenute nella legge vigente in Italia (art. 4, in relazione agli artt. 5 ed 8, legge 19 febbraio 2004, n. 40), soprattutto alla luce delle due sentenze della Corte europea del 2010 – 2011, che si sono succedute dalla Sezione I alla Grande Chambre con una visione nettamente opposta.
Il mio approccio iniziale al tema riguarda problemi esclusivamente processuali: il rapporto tra il giudicato della Corte Europea (C.E.D.U.) del 1 aprile 2010 (Sezione prima) e quello, nello stesso procedimento, del 3 novembre 2011 (Grande Chambre), cioè tra una decisione di primo grado rispetto al giudicato del secondo grado, che rinnovando il giudizio risolve la questione sottoposta in modo completamente diverso, ribaltandola.
Occorre prestare particolare attenzione alla circostanza che si è di fronte a due decisioni nello stesso procedimento o meglio a dei successivi gradi dello stesso giudizio, nel quale la decisione della Grande Chambre 3 novembre 2011 si è sovrapposta completamente, ribaltando il precedente giudizio, espresso dalla Sezione I il 1° aprile 2010, sostituendone tutti gli effetti e negando la sussistenza di violazione della C.E.D.U. da parte della legge austriaca denunciata.
Correttamente non si può parlare di due giudicati non convergenti, come espressione di due filoni giurisprudenziali ed indirizzi diversi della Corte, di modo che dall’esterno ed in un altro giudizio si possa ancora invocare la autorità e gli effetti del primo indirizzo, come determinazione di principi esistenti e interpretazione sovraordinata rispetto ad altri procedimenti giustiziali nell’ordinamento interno degli Stati europei.
Ormai esiste un solo ed unico giudicato, che possa produrre effetti e vincoli per gli altri giudici (nazionali di qualsiasi livello) ed è quello della Grande Chambre.
La prima pronuncia del 2010, infatti, resta sostituita interamente dalla seconda decisione della Grande Chambre e non può essere più invocata e valere come base di un contrasto costituzionale, in quanto interposto riempimento del contenuto del vincolo nascente dall’art. 117 Cost., rispetto ad una norma interna di uno Stato aderente alla C.E.D.U. [2].
In realtà è venuto meno quello che era il parametro (interposto) essenziale di riferimento per le questioni di legittimità costituzionale avanti alla Corte costituzionale italiana, cioè l’interpretazione delle norme C.E.D.U. come effettuata dalla prima decisione del 2010, poiché
non è sufficiente, nel caso di specie, invocare la sola violazione dell’art. 117 della Costituzione.
Sia pure su piani diversi, risulta un risultato identico (trattandosi sempre di interposizione) a quello che si verifica in un giudizio di questione di l. c., sollevata nei riguardi di un decreto legislativo delegato per violazione di un principio direttivo fissato da norma della legge delega, quando questo singolo principio sia venuto meno, come quando sia stato, nel frattempo, colpito da sentenza di illegittimità costituzionale.
Ma vi è di più un unico vincolo, che preclude ogni applicazione della decisione anteriore, proprio perché, nel caso in esame, non si è in presenza di più giudicati e di opinioni contrastanti della Corte europea C.E.D.U.; ma l’unico giudicato, che ormai esiste e può essere invocato, è la decisione di secondo grado (Grande Chambre), che ha rovesciato completamente quella di primo grado, sostituendola a tutti gli effetti.
Anzi qualsiasi affermazione positiva di accoglimento o di recepimento del contenuto della prima decisione della Sezione della Corte europea, da parte di un giudice italiano o dalla nostra Corte costituzionale, sarebbe, addirittura, in contrasto con i principi desumibili dalla Convenzione, come sono stati interpretati dalla Grande Camera. Si incorrerebbe, quindi, in una violazione della C.E.D.U.. e, indirettamente, della nostra Costituzione. Questo profilo evita anche di eliminare in radice i dubbi che il recepimento della anzidetta pronuncia della Sezione del 2010 incontri l’ostacolo, assolutamente non superabile, di realizzare una situazione limite inderogabile di non conformità ai principi fondamentali della nostra Carta costituzionale.
Sul piano più generale, inoltre, nel sistema europeo un intervento interpretativo vincolante della Corte europea C.E.D.U. deve essere escluso in mancanza di un principio specifico cogente, fissato positivamente da regole fondamentali: questo si verifica quando manchi una condivisione degli Stati, che, quindi, mantengono una maggiore discrezionalità di apprezzamento.
Se manca questo consenso ed un obbligo cogente vi è la possibilità dei singoli Stati di scelte discrezionali e di dissociarsi sugli aspetti applicativi, fermi i principi generali, europei. La discrezionalità acquista un’ampiezza maggiore, quando vi sono esigenze e tradizioni interne contrastanti, tanto più se di carattere fondamentale per il singolo ordinamento interno.
2. Sul divieto di fecondazione di tipo eterologo e conformità con i principi.
Il desiderio di avere figli per una coppia (ed il semplice consenso dei due componenti della stessa coppia) non può avere, nel bilanciamento degli interessi rilevanti nella procreazione assistita e nella utilizzazione delle tecniche procreative, una prioritaria prevalenza sulla posizione che, nella fecondazione di tipo eterologo, assume il procreato (nato da eterologa) ed il terzo donatore (o prestatore dello sperma o dell’ovolo, o, al limite, i prestatori di entrambi).
Se fosse accolta la suddetta soluzione di prevalenza (nell’ambito di rapporti genitoriali e di filiazione), vi sarebbe una sproporzione [3] dello strumento utilizzato, che sarebbe assolutamente insensibile alle esigenze di tutela del procreato [4] e del terzo o dei terzi donatori, a non parlare del caso in cui la donazione provenga da Stato nel quale non vi siano garanzie assolute di privacy ed anonimato.
A questo proposito dobbiamo vedere il punto di vista delle nostre concezioni dei rapporti di filiazione, della protezione dei diritti fondamentali della persona rispetto alle posizioni del nascituro e di chi è nato. Quindi non possono essere trascurati tutti i rischi e gli abusi che vi possono essere, perché è stato affermato da autorevoli esponenti in campo giuridico ed etico, che la via della fecondazione eterologa è scivolosa verso delle forme di scelta eugenetica [5].
Infatti basterà adoperarsi affinchè il gamete o l’ovulo provenga da un determinato Paese o da un determinato centro di raccolta, e da un ristretto numero di donatori, soprattutto se i dati per individuarne la provenienza non sono preclusi; non sarà difficile selezionare o indirizzare le caratteristiche genetiche ed operare una scelta selettiva in varie maniere, ma sempre eugenetica.
Ancora si pone un ulteriore interrogativo drammatico: che accadrà al nato da fecondazione eterologa, quando avrà bisogno, dal punto di vista della salute e dello sviluppo, di conoscere gli aspetti di origine dei genitori (DNA, malattie ereditarie, predisposizione genetica a taluni rischi per la salute?
Basta ricordare un caso tragico che si è verificato nell’altro Continente, in cui la scelta di un intervento o di una cura essenziale per la sopravvivenza derivava proprio dal conoscere i profili genetici dei genitori di un determinato paziente.
Ed ancora, di fronte ad una situazione di difformità di trattamento dei dati del donatore da Paese a Paese, si rischiano situazioni anomale e assurde di contrasto o di sotterfugi con finalità eugenetiche, da tutti condannate.
Allo stesso modo ove si giunga ad ammettere la separazione della filiazione biologica da quella di carattere sociale o del rapporto di coppia, si produrrebbe un travolgimento dell’aspetto generativo, con un vero dramma per il nato, non più in grado di conoscere chi lo ha generato e di quali caratteri ereditari è portatore; questo ultimo è il vero dramma [6] per un figlio, al limite anche procreato da nessuno dei genitori putativi e davvero geneticamente figlio di nessuno.
Ove fossa accolta la prevalenza – per niente affatto condivisibile a livello sociale e talvolta sospinta da concorrenti e estranei interessi di mera iniziativa economica e di lucro [7] – sia del punto di vista e degli’interessi di chi desidera ad avere comunque un figlio, sia soprattutto del profilo della vita privata del singolo, ricomprendendovi – come ha ritenuto la prima sentenza della Sezione della Corte Europea (ormai superata e ribaltata) – un diritto ad avere (o a procurarsi) un figlio, si aprirebbero delle vie con risultati assurdi e non accettabili, anche sulla base di altri principi, soprattutto questi vincolanti, in sede di Unione Europea, e per le garanzie dei diritti fondamentali nella nostra Costituzione.
In una tale ipotesi, rifiutata, si porrebbe l’interrogativo, che confermerebbe la sproporzione e l’assurdità della anzidetta impostazione: perché allora non riconoscere l’anzidetto diritto anche a chi non convive, a chi non è legato da qualsiasi rapporto di coppia e addirittura anche al singolo e poi ancora a chi per natura (e non per malattia o simile) non è idoneo a procreare con una gestazione, ma che potrebbe procurarsi un figlio solo attraverso un “utero in affitto” (a parte ogni speculazione possibile [8]) od ancora utilizzando tecniche (non consentite) manipolative e selettive o con clonazione riproduttiva (del tutto extra corporea) di esseri umani [9].
Sarà un aspetto scivoloso, perché l’aspirazione alla maternità o alla paternità rischierà di essere indipendente dal sesso, e realizzabile con un “assenso”, per una nuova forma di procura o di mandato.
Nell’ambito del potere di scelta dello Stato italiano deve essere tenuto presente che sulla materia della fecondazione eterologa non vi è un “consensus” generale europeo, né tantomeno un vincolo cogente essendo molteplici le soluzioni ammissibili. Altresì vanno rispettate le tradizioni appartenenti ad una cultura e all’ambiente sociale del singolo Paese, specie se confortate da garenzie costituzionali nei rapporti familiari e nei diritti dei nati. Di conseguenza deve essere considerata pienamente legittima (sul piano costituzionale interno e sul piano dei vincoli europei) l’esclusione, nella legislazione italiana, di riconoscimento, neppure in taluni casi c.d. eccezionali, di ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo.
Il vero è che il ricorso a una casistica (per ragioni pietistiche e soggettivamente spesso egoistiche, che non tengono conto del procreato e del donatore) porterebbe, oltre ai pericoli sopraenunciati, a irragionevoli diseguaglianze, che le ipotesi austriache hanno evidenziato per i rischi che ne derivano.
Occorre anche considerare che l’art. 5 della legge n. 40 vuole delle condizioni di carattere essenziale che sono in rapporto all’art. 29 della Costituzione: “coppie di maggiorenni di sesso diverso coniugati o conviventi.” Il legislatore italiano è stato tutt’altro che restrittivo, da taluni ritenuto di larghezza eccessiva, ed anzi ha avuto una visione permissiva, in quanto richiede per la P.M.A. che si tratti di coppie di maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi, sulla base di semplice convivenza, indipendentemente dal carattere duraturo, “in età potenzialmente fertile ed entrambi viventi”.
3. La legge n. 40 e la posizione della dottrina per il divieto di fecondazione eterologa. Significative, al riguardo della legittimità del divieto di fecondazione assistita con tecniche di tipo eterologo, sono state le sostanziali prese di distanza, quasi unanimi, su questa tecnica procreativa, in occasione del Convegno tenutosi nella sede dell’Accademia dei Lincei nel 2005 [10], ed in atre occasioni.
Importante è stata la netta presa di posizione di uno dei nostri maestri di diritto civile, quale è stato il Prof. Giorgio Oppo, di contrarietà alla maternità surrogata e alla fecondazione eterologa sintetizzata nella espressione “coppia contro coppia“ [11].
Sullo stesso piano l’opinione di un illustre biologo, membro dell’Accademia dei Lincei, Giovanni Chieffi, che dopo avere illustrato l’evoluzione della ricerca nella materia, sottolinea due aspetti: la ricerca scientifica biomedica è strumentale al miglioramento della qualità della vita, la esigenza di una etica naturale e di una estrema cautela nel modificare i processi naturali [12] di un organismo ed, in particolare, quando si tratta della funzione più importante, cioè quella riproduttiva umana; il secondo esige che gli interventi compresi quelli previsti in leggi sono validi fintantoché risultano conformi alla legge di natura [13].
Egualmente in contrarietà con la fecondazione del tipo eterologo, anche se con limitate aperture a carattere di eccezione ma strettamente condizionate dalla possibilità di conoscere la origine biologica generativa a tutela del procreato, è l’opinione del Prof. Augusto Barbera, che sviluppa ampie considerazioni sulle esigenze del figlio procreato e sui rischi eugenici [14].
Di interesse notevole anche l’intervento contrario alla fecondazione eterologa del Prof. Luciano Eusebi, che si sofferma in particolare sui profili eugenetici e sui rapporti genitoriali [15].
Ancora sul rifiuto della fecondazione eterologa – basato sul diritto a conoscere l’identità dei genitori e sulla rottura, che si verificherebbe, nel rapporto tra origine materiale e sviluppo storico, creando, altresì, problemi psicologici per il procreato, tuttaltro di facile soluzione – è stato, con un rilievo molto importante, anche per i profili costituzionali, l’intervento della Prof. Lorenza Violini [16].
Sempre sul diritto del procreato a conoscere le proprie origini genetiche vi è una netta presa di posizione recentissima del Professore Andrea Nicolussi [17].
È stato detto: la legge sulla procreazione medicalmente assistita è una disciplina costituzionalmente dovuta di protezione, o meglio, secondo una terminologia richiamata dal Prof. Franco Modugno “legge a contenuto costituzionalmente vincolato” [18], anche se le soluzioni possono comportare ampi margini di discrezionalità, sempre nel rispetto degli anzidetti diritti fondamentali.
Di conseguenza non può ammettersi né una complessiva abrogazione pura e semplice delle norme attualmente in vigore in Italia sulla P.M.A., né una abrogazione parziale, che lasci privi del tutto di protezione alcuni dei profili costituzionalmente tutelati, soprattutto se al di fuori di ogni bilanciamento.
Del resto sul punto [19] la sentenza n. 45 del 2005 della Corte Costituzionale italiana ha avuto occasione di affermare che la legge n. 40 del 2004 è “la prima legislazione organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi, che assicuri un livello minimo di tutela legislativa” [20], esigenza, questa, già sottolineata nella sentenza n. 347 del 1998.
Proprio questo livello minimo di tutela legislativa [21] in relazione ai “rilevanti interessi costituzionali” comporta, secondo la statuizione della Corte costituzionale, che la legge n. 40 del 2004 è costituzionalmente necessaria [22], di modo che non può esserne consentita la complessiva abrogazione.
Ciò non toglie la possibilità di talune lievi modifiche, ma sul piano costituzionale sussiste sempre l’esigenza inderogabile che permanga una disciplina e che questa sia “idonea a garantire almeno un minimo di tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti nella materia”, come innanzi precisato.
Ancora un richiamo al Prof. Franco Modugno, che partendo da uno degli scopi della legge n. 40 di assicurare “diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito” e dalla esigenza di tutela dei diritti fondamentali ed in particolare il diritto alla vita, alla famiglia, alla propria identità genetica ed affettiva, considera costituzionalmente legittimo il divieto di fecondazione eterologa, superando i dubbi prospettati [23].
Riguardo alla famiglia e la soluzione, in corso all’epoca da parte delle Camere, sulla fecondazione assistita ed sul divieto di tecnica eterologa vi è stata nel 1999 una intervista del presidente Leopoldo Elia, di grande interesse sulla scelta che stava operando il legislatore in rapporto a “che cosa è la liberta?” [24].
Inoltre la legge n.Teniamo presente che sul punto del rifiuto dell’inseminazione eterologa la tendenza della dottrina giuridica, sociale e medica si pone in una valutazione nel complesso di adesione positiva tra tutti coloro che si preoccupano dei profili etici e dell’interesse di chi viene al mondo, anche in studiosi della tradizione mussulmana.
Se ne è avuta la testimonianza del Professore Hassan Abdelihamid, studioso apprezzato nel mondo accademico arabo egiziano, che ha ribadito questo aspetto, ricordandoci che anche nella cultura e tradizione mussulmana esistono delle leggi di natura, esiste un rispetto del mondo naturale, del creato ed in modo particolare dell’essere umano e del concepito (figlio di Adamo e degno di rispetto) [25]. 40 del 2004 non è una legge ad ipostazione cattolica o confessionale, ma ha cercato di trovare la massima convergenza tra le varie impostazioni, salvaguardando i principi costituzionali a tutela di tutti i soggetti coinvolti, compresi figli e questo vale anche per il divieto di fecondazione eterologa.
E tutte queste forme di inseminazione artificiale devono essere ammesse con grande cautela quando non c’è nessun’altra possibilità, ma rispettando in ogni caso l’aspetto uomo e donna legati da un determinato vincolo.
Ricordiamoci quindi che la difesa del divieto di procreazione di tipo eterologo non è solo a protezione dei nostri principi etici ed insieme culturali e sociali, ma è di carattere universale, perché il problema della permissività di fecondazione eterologa rischia di scardinare le basi essenziali di una società civile non insensibile a valori di salvaguardia dei procreati con materiale genetico altrui [26] e dei loro rapporti parentali.
4. Adozione come istituto riconosciuto dagli ordinamenti europei. Pretesa frattura tra genitorialità genetica e genitorialità legale. Esclusione.
Il riferimento alla adozione come istituto, che confermerebbe la possibilità di superare nei rapporti parentali-familiari la mancanza di relazione biologica genitoriale [27] appare completamente pretestuosa e fuorviante, per una serie di ragioni storico-sociali, soprattutto alla luce della tradizione italiana.
Anzitutto la sua origine, duplice nei profili storici, si ricollega nel Diritto romano alla adoptio come “nomen est quidem generale” ricomprendente due istituti completamente diversi [28]; adrogatio e adoptio propriamente detta.
L’adrogatio era atto sovrano del potere pubblico, in origine con la convocazione (forse in un certo periodo anche fittizia) delle curie e quindi solo a Roma; era un istituto informato a criteri di utilità e moralità sociale [29], in cui l’adrogatus deve essere persona sui iuris, cioè non soggetto a patria potestas [30], di conseguenza con esclusione delle donne [31] e degli impuberi – ed anzi normalmente pater familiae – e coinvolge, con effetti di vero trasferimento, anche i beni, nonché tutto il gruppo familiare, che resta estinto ed assorbito da quello dell’adrogator. Questi deve avere ameno 60 anni ed essere ricco quanto l’adrogatus, non avere figli e in condizione di non poterli avere.
L’adoptio in senso stretto – datio in adoptionem – (in cui è decisiva la volontà delle parti costituita dai due patres familias) può riferirsi a chi è alieni iuris (filiusfamiliae) e resta prevalentemente sul piano privatistico. E’ costituita dal passaggio della singola persona al gruppo familiare dell’adottante con assunzione anche del nome, (senza perdere necessariamente quello di origine, come taluni diritti di successione). Questo istituti veniva attuato con atti tra vivi attraverso una vendita nella forma della mancipazione (tre atti se maschio ed uno se donna), seguito da processo di rivendicazione come figlio o nipote da parte dell’adottante [32].
La adoptio natura imitatur deve essere intesa non in senso assoluto, ma in quello che non può avere luogo quando troppo manifestamente si contraddirebbe alla natura delle cose [33], come chi non può esercitare la patria potestas o l’excissus o in relazione alla differenza di età.
In altri popoli (c.d. barbarici) si trovavano istituti, in parte analoghi per taluni effetti, che mirano ad una fittizia ed artificiale relazione di parentela o di fraternità [34] allo scopo, talvolta, di aiuto reciproco (in una forma, che poi rivive nel medioevo come fraterna societas, a basi più solide e durature di una mera associazione contrattuale) o per esclusive finalità successorie dei beni [35], come permane in tutto il diritto intermedio, accresciuto dal sentimento cristiano di protezione e di paternità (non genetica).
In epoca romana antica vi è in comune in primo luogo lo scopo di creare artificialmente un erede e quello di rafforzare il gruppo familiare e della tribù, con effetti sul culto, sul nome e sulle successioni patrimoniali in particolare per testamentum e sulla patria potestas, quale potere prevalentemente sociale-politico e direttivo sul gruppo nell’adrogatio e prevalentemente per le forze lavorative nell’adoptio [36].
Vi è stata anche la possibilità di far assumere la qualità di nepos ex filio, perfino non avendo figli o senza considerarlo figlio del figlio esistente.
Gli istituti si sono snaturati profondamente, man mano che si modificavano e mutavano i poteri nell’istituto familiare [37], perdendosi le potestà pubblicistiche e ogni riferimento a trasferimento di patria potestas fino a divenire, nel diritto giustinianeo, l’adozione uno strumento per creare un diritto di successione legittima senza spezzare alcuno dei legami con la famiglia di origine [38].
La adozione sopravvisse poi nel periodo medioevale quasi esclusivamente come adoptio ad ereditatem senza trasferimento di potestà alcuna, alimentata da sentimenti affettivi di paternità e protezione, sotto gli influssi di una etica cristiana, fino a confondersi talora con la donatio con effetti post mortem, fino a decadere e praticamente scomparire nel periodo del diritto comune [39].
La adozione fu richiamata in vita dalla Rivoluzione Francese (18 gennaio 1792) e successivamente disciplinata dal Codice di Napoleone (artt. 343-360) con effetti sul nome e sulla successione. Di qui la ripresa dell’adozione negli Stati italiani, che tuttavia pur confermando gli effetti sul nome, sulle successioni (ed alimenti), escludevano il passaggio nella famiglia dell’adottante e ogni diritto a succedere nella nobiltà e nel titolo [40].
Nel sistema del diritto italiano vigente l’adozione assume una caratteristica ed una funzione nettamente distinta dai rapporti di filiazione ed è orientata principalmente ad una finalità a favore dell’adottando per un atto di affetto e solidarietà da parte dell’adottante, con effetti sul nome e sui profili patrimoniali relativi alla successione, senza creare rapporti civili (familiari) tra l’adottante e la famiglia dell’adottato e tra questi ed i parenti dell’adottante salvo le eccezioni previste dalla legge [41]. Anzi l’adottato mantiene immutati i propri diritti e doveri verso la sua famiglia di origine, e ciò è stabilito anche se si prevede il consenso dei genitori dell’adottando alla adozione, trattandosi di un consenso non abdicativo della famiglia di origine [42].
Proprio perché l’adozione è concepita come istituto a favore e di convenienza dell’adottato [43], i rapporti relativi alla successione sono unidirezionali, cioè limitati a successione dell’adottante, essendo escluso espressamente che l’adozione possa far sorgere, di per sé, diritti alla successione da parte dell’adottante [44].
In realtà anche chi utilizza l’espressione, tra le varie specie di filiazione, di “filiazione adottiva” tiene a precisare immediatamente le “diversità radicali, sì che sarebbe scientificamente poco corretto ed inopportuno assurgere alla formulazione di principi comuni, sottolineando che nella «adozione» lo stato di filiazione è creato artificialmente, prescindendo dal fatto naturale della procreazione” [45]. Del resto il sistema dell’adozione è improntato su un piano ampiamente distinto e diverso da rapporti di filiazione procreativa, tanto che vi è una esclusione espressa di adozione da parte dei genitori di figlio nato fuori del matrimonio (art. 293 c.c.) .
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Note
[1] V. su questa esigenza Conclusioni di Chieppa R., in La fecondazione assistita, Atti Convegno studi 31 gennaio 2005, Accademia dei Lincei, a cura ISLE e Centro studi Giuseppe Chiarelli, Schena editore, Fasano, 2005, p. 147, in particolare p. 321.
[2] V. sul punto del recepimento della C.E.D.U. e delle decisioni della Corte di Strasburgo, la Conferenza stampa del Presidente della Corte costituzionale italiana Alfonso Quaranta, 2012 (sull’attività del 2011) e Salerni G., Corte costituzionale: dialogo con gli altri giudici ma sul ruolo della Cedu nessun passo indietro, in Guida del diritto, 10 marzo 2012.
[3] La proporzionalità è presa in considerazione dalla Corte europea ed è nell’ordinamento costituzionale italiano considerata rilevante entro il più generale principio di eguaglianza,
[4] V. Chieppa R., Conclusioni, in Fecondazione assistita, cit., secondo cui: «E’ stato detto “ i figli non sono oggetti che si scelgono e si ordinano o si acquisiscono come ad un supermercato”. Preoccupiamoci anche di loro e delle future generazioni: e dei rischi che possono correre attraverso talune sperimentazioni e pratiche al di fuori delle regole di precauzione cui deve ottemperare una normativa ragionevole e moderna.
Soprattutto non possiamo pretendere di avere leggi o regole a misura soltanto di quelli che egoisticamente sono semplicemente desiderosi di discendenti ad ogni costo. Infatti non si può fare a meno di preoccuparsi della posizione (psicologica, affettiva ed educativa) del nascituro, che venga al mondo al di fuori di un qualsiasi minimo legame genetico di coppia, proiettato verso il futuro per gli ineliminabili doveri dei genitori reali nella filiazione.
In sostanza è egoistico – quindi non giustificabile, anche in base a criteri di ragionevolezza secondo una valutazione del legislatore – pretendere da parte di un soggetto di potere generare con P.M.A. senza la presenza, almeno in partenza, di due genitori reali, certi ed identificabili, che siano almeno conviventi.? La risposta non può non essere che positiva».
[5] Il divieto di pratiche eugenetiche ed in particolare quelle con lo scopo la selezione delle persone è riconfermato dall’art. 3, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2010/C 83/02), già detta carta di Nizza.
[6] Significativa è la sensibilità dalla Cinematografia americana, non certo incline a profili etici, che sul piano sociale e psicologico ha avuto occasione di mettere in risalto una serie di dubbi e perplessità sul disagio e sul rischio di situazione dei figli e della coppia nei casi di fecondazione eterologa. Il riferimento va ai film “La custode di mia sorella” con Cameron Diaz, all’episodio “Chi è tuo padre” della serie dr. House, ai film “Due cuori e una provetta” con Jennifer Aniston e “The Back-UP Plan” con Jennifer Lopez.
[7] Basta vedere in qualsiasi motore di ricerca di carattere generale, digitando “fecondazione assistita” appaiono nella parte di promozione pubblicitaria, occulta o palese, indicazioni su istituti e specialisti della materia in Italia o sopratutto all’estero con proposte di tecniche di ogni tipo, comprese quelle eterologhe.
In realtà esistono rilevantissimi interessi di mera iniziativa economica e di lucro. Per fortuna tra coloro che operano nella materia vi sono quelli, in maggioranza, – e sono degni di ammirazione – che si dedicano scientificamente e a tutto campo, con vera passione altruistica ed amore (soprattutto nella scarsità attuale di mezzi per la ricerca in Italia), a concorrere per la vita e per superare la sterilità e l’infertilità, nonché alla ricerca clinica e sperimentale soprattutto su gameti ed ovuli, prima che si realizzi l’embrione, con finalità terapeutiche e diagnostiche a favore dello stesso embrione da creare.
Purtroppo vi è anche chi vuole o è indotto ad utilizzare e sostenere la procreazione assistita (economicamente e professionalmente) nel modo più libero possibile, per ampliare il campo di applicazione (e di lucro), talvolta senza bilanciare gli esiti negativi o meno e i rischi di conseguenze genetiche di talune applicazioni.
[8] Sui rischi di sfruttamento della donna donatrice, v. Rocchi G., Il divieto di fecondazione eterologa viola il diritto costituzionale alla salute?, in questo volume, con accenni a decisione della Corte Costituzionale austriaca.
[9] Vietata dall’art. 3, comma 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
[10] V. il volume La fecondazione assistita, cit.
[11] Oppo G., Procreazione assistita e sorte del nascituro, in La Fecondazione assistita, cit., p. 20: «In caso di procreazione assistita eterologa, …il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi” (art.9, comma 3). Totale irresponsabilità quindi di chi concorre alla procreazione eterologa, il che non potrà non incoraggiarla, salvo il divieto di commercializzazione di cui all’art.12 comma 6, e salva la relativa sanzione, inapplicabile però all’uomo e alla donna che si siano sottoposti alle tecniche di procreazione.
In fine eterologa sembra essere la procreazione che suppone una coppia e si contrappone alla coppia. Quale allora la sorte del concepito da soggetti che non si contrappongono a una coppia e rispetto ai quali il ricorso alla PMA sia un fatto isolato? Quale la sorte del procreato da madre nubile e non convivente? La madre non potrà dichiarare la volontà di non essere nominata (la disposizione dell’art.9, comma 2, sembra di carattere generale) ma il donatore di gamete (non convivente) non potrà essere considerato genitore (per l’espresso disposto dell’art.9, comma 3) e ciò neanche se uomo e donna sono entrambi consapevoli e consenzienti.
Il procreato non da coniugi o conviventi non potrà – se tutto ciò è vero – avere un padre se non adottivo. Il che non è un bel risultato e non sembra “assicuri i diritti” del concepito, come annunziato dall’art.1 della legge. Anche per il codice civile vi sono limiti all’accertamento del rapporto genitoriale (incesto, paternità legale disconosciuta, contrasto con lo stato di figlio legittimo), ma non nel senso di lasciare il nato senza uno stato. Di qui altro dubbio di costituzionalità per violazione del diritto (inviolabile) all’identità». V. anche in Postilla, p. 30, a proposito di rifiutata eliminazione del divieto di fecondazione eterologa: afferma «Così vulnerati, in ipotesi, l’intento della legge e la sua realizzazione normativa in aspetti fondamentali, vi è da chiedersi se vi sarebbe “coerenza” e “ragionevolezza” tra ciò che avanzerebbe e la proclamata assicurazione dei diritti (o interessi) del concepito (sia “soggetto” coinvolto o meno) e anche tra la sia pur “minima” tutela costituzionale e quanto sarebbe consentito malgrado la legge. Non basta alla tutela ciò che è ammesso, se cade ciò che è vietato e che dovrebbe essere vietato per il raggiungimento dell’intento legislativo».
[12] V. anche la Relazione introduttiva di Oppo.
[13] Chieffi G., Riflessioni di un biologo sulla l. 40/2004, in Fecondazione assistita, cit.: «Il divieto al ricorso alla P.M.A. mediante fecondazione eterologa trova giustificazione per gli aspetti negativi di natura biologica, psicologica e giuridica. In particolare, l’anonimato del donatore di gameti ha sollevato problemi di ordine sanitario. La conoscibilità del donatore di gameti è ritenuta necessaria anche per assicurare al nascituro il diritto a conoscere le proprie origini biologiche a fini diagnostici e terapeutici. Dal punto di vista psicologico, per limitarci alla coppia, ne consegue il pericolo della scissione tra paternità-maternità dalla genitorialità. Tale frattura può causare una ferita talmente grave che non può essere sanata da qualsivoglia soluzione proposta. Lo stesso famoso Rapporto Warnock, redatto nel 1984 dalla Commissione di indagine sulla fecondazione e l’embriologia, istituita dal governo britannico allo scopo di regolare la ricerca sull’embrione, afferma: “Non v’è dubbio che per alcuni la procreazione assistita eterologa resterà sempre (eticamente) inaccettabile”».
[14] Barbera A., La procreazione medicalmente assistita, in Fecondazione assistita, cit. p. 341 ss. « … non vedo ragioni per difendere il ricorso alla fecondazione eterologa. Prima ho posto domande a chi intende difendere parti della legge su cui sarebbe possibile una maggiore apertura, adesso pongo cinque domande a chi intende superare il divieto di forme di fecondazione eterologa (divieto sanzionato per gli operatori ma privo di sanzione per la coppia che vi ricorra):
1) è conforme a Costituzione che sia sovvertita dalla stessa legge e dal conseguente intervento pubblico regolatorio la concezione della famiglia come “società naturale”, creando una scissione fra maternità o paternità naturale e maternità o paternità legale?
Questo avviene con l’adozione, ma essa rimedia un male non lo crea; ha la funzione primaria di trovare i genitori per un minore non un figlio per coppie desiderose di genitorialità. E del resto l’adozione e l’affidamento familiare, che sono istituti disciplinati nell’interesse preminente del minore, non possono essere considerati un’alternativa (l’errore lo fa la stessa legge all’art.6, comma1) alla fecondazione medicalmente assistita, disciplinata, invece, nell’interesse della coppia.
2) il divieto di fecondazione assistita di tipo eterologo viola un diritto dei coniugi, costituzionalmente garantito, alla procreazione con ogni mezzo?
Non riesco a vedere quale fondamento costituzionale possa avere tale diritto. Non si può ritenere ricompreso, come pure si dice da qualche parte, nel diritto alla salute. La sterilità è indubbiamente una patologia e l’art. 32 della Costituzione può fondare un diritto alla cura ma tale diritto non implica che si ponga rimedio con ogni mezzo (diverso dalla cura) agli effetti della patologia stessa. Né tanto meno può invocarsi un generico e vago “diritto di libertà”, non previsto dai principi costituzionali.
3) il divieto assoluto di conoscere il frutto della propria “donazione” è conforme al diritto del padre (o della madre nel caso di maternità surrogata) a mantenere legami con il proprio figlio o la propria figlia ? La Costituzione dice che è diritto dei genitori di avere cura dei figli (art. 30), nel caso in cui la legge dovesse consentire la fecondazione eterologa si consentirebbe invece al padre (o alla madre veicolante) di generare un figlio con il vincolo di scordarsene per sempre.
Il donatore di gameti è escluso da ogni relazione giuridica parentale allorché si tratti di una coppia che ha fatto ricorso a tecniche di fecondazione eterologa ma è ragionevole mantenere tale divieto anche allorché si tratta di fecondazione (avvenuta nonostante il divieto della legge) su donna non coniugata o non convivente?
4) esiste un diritto del figlio a conoscere i propri ascendenti biologici ? Si tenga presente che tale diritto alla conoscenza può essere legato, date le moderne tecnologie biomediche, allo stesso diritto alla salute, essendo necessario conoscere la propria ascendenza biologica nel caso di trapianti o per la prevenzione e cura di malattie genetiche.
A me pare che potrebbe, infatti, individuarsi un diritto di ogni persona a conoscere la propria ascendenza origini biologica come parte del più generale “diritto all’identità della persona” riconosciuto in base all’art. 2 della Costituzione. In dottrina c’è chi lo afferma anche sulla base dell’art. 30, quarto comma, della Costituzione laddove impegna la Repubblica a dettare norme per la ricerca della paternità (Ida Nicotra, in Quaderni costituzionali 2002) e chi lo nega (Elisabetta Lamarque, in Quaderni costituzionali 2003) sulla base della stessa norma che prevede anche “limiti” a tale ricerca. Sta di fatto che questo divieto già presente nei Paesi che da tempo consentono la fecondazione eterologa è in via di attenuazione (Regno Unito, Svezia, Spagna, Francia) proprio per il diffondersi delle tecniche di cura legate alla anamnesi familiare di malattie genetiche.
Se tale diritto a conoscere la propria identità e ascendenza biologica (non alla coincidenza fra paternità biologica e paternità legale perché non può esistere un astratto diritto soggettivo di un soggetto inesistente) dovesse essere riconosciuto potrebbe essere consentita l’applicazione dell’art. 244 del Codice civile, e riconosciuta al figlio l’azione di disconoscimento della paternità entro “un anno dalla maggiore età o dal momento in cui viene successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento”? La risposta dovrebbe essere negativa ma sapendo che si tratterebbe di una eccezione a un principio. Da ricordare in proposito che la sentenza 494/2002 della Corte costituzionale ha affermato che “esiste il diritto del figlio, ove non ricorrano costringenti ragioni contrarie nel suo stesso interesse, al riconoscimento formale di un proprio status filiationis, un diritto che … è elemento costitutivo dell’identità personale, protetta, oltre che dagli articoli 7 e 8 della … Convenzione sui diritti del fanciullo (New York 20 novembre 1989), dall’art. 2 della Costituzione”. Nel caso di specie si trattava di riconoscere ai figli nati da relazioni incestuose il diritto di richiedere la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini superando il divieto di cui all’art. 278, comma 1, del Codice civile.
5) siamo sicuri che le tecniche di fecondazione eterologa non portano a forme di selezione eugenetica ?
L’esperienza di altri Paesi non è incoraggiante: di “donatori” ne esistono ben pochi (e chi può donare il proprio seme a coppie che non conosce sapendo di non potere mai conoscere il frutto del proprio dono?); che si tratta spesso di “datori” a pagamento; che il seme dello stesso “datore” è utilizzato per provvedere a inseminazioni plurime, senza alcun limite e che, infine, la coppia che ricorre a tale tecnica è naturalmente portata a conoscere le caratteristiche genetiche (e perché no?) somatiche e intellettive del “donatore”.
Ho dubbi sulla armonia con i principi costituzionali della fecondazione eterologa, ma non mi sento di dire che essa, se questa dovesse essere la scelta del legislatore referendario, risulterebbe sempre contraria alla Costituzione».
[15] Eusebi L., Lo statuto dell’embrione, il problema eugenetico, i criteri della generazione umana: profili giuridici, in La Fecondazione assistita, cit., p. 158 ss: «Del resto sarebbe strano che proprio in un’epoca nella quale come non mai si dà rilievo al valore della conoscenza scientifica, che è mera lettura delle realtà esistente e delle sue leggi, non istituite da scelte umane (sarebbe ridicolo solo porre l’interrogativo se possa essersi d’accordo, poniamo, col sussistere della legge di gravità), si giunga a ritenere che, invece, sul piano etico o antropologico non vi sia proprio nulla da riconoscere come corrispondente all’essere dell’uomo. Il che non può non valere anche con riguardo al procreare.
In quest’ottica anche la fecondazione in vitro c.d. eterologa appare non conforme a caratteristiche fondamentali della generazione umana: a differenza del concepimento naturale (e a differenza, per questi aspetti, della stessa fivet c.d. omologa), con la fivet eterologa viene meno, infatti, il configurarsi della procreazione quale evento interno alla relazionalità fra due individui di sesso diverso, dipendendo in essa la procreazione dall’apporto genetico di un soggetto terzo che biologicamente è genitore, pur restando estraneo a qualsivoglia relazionalità con l’altro genitore biologico (egli trae gameti dal suo corpo rendendoli utilizzabili senza essere coinvolto in alcuna relazione).
Tale apporto, in altre parole, realizza un’ingerenza in un aspetto tipico del matrimonio o comunque della relazione di coppia, così che l’atto generativo, nell’ipotesi di cui discutiamo, viene per sé a prescindere dal matrimonio medesimo o dalla suddetta relazione (non a caso la fivet eterologa è tecnicamente utilizzabile anche in assenza di una coppia).
Una situazione, quella della fivet eterologa, che ovviamente non è affatto assimilabile all’adozione, posto che l’adozione non ha alcun rapporto col pregresso atto generativo, bensì offre rimedio a una frattura dei legami familiari naturali (i genitori biologici non hanno affatto agito come donatori rispetto ai futuri genitori adottivi, ma hanno generato nell’ambito di una loro relazionalità) …
Come resta altresì il fatto di fondo pur non in discussione nel dibattito legislativo, e che ugualmente rimanda ai requisiti di una generazione conforme all’essere dell’uomo, per cui in qualsiasi versione della fecondazione in vitro la modalità generativa non è comunque realizzata dalla coppia, bensì dall’atto di un terzo, nel solco di una sessualità tendente a risultare sempre più vicariata, senza che di ciò si considerino, ordinariamente, le molteplici ripercussioni (ad esempio, sulla stessa dimensione relazionale). Infine, ci si deve porre l’interrogativo sul tipo di relazione e di impegni che l’ordinamento giuridico sia tenuto a esigere nel momento in cui offra accesso, e cooperazione istituzionale, a una tecnica procreativa: non si dimentichi che la configurazione, in Italia, di un avanzato diritto di famiglia, fondato sul matrimonio, rappresentò pochi decenni orsono una rilevante conquista civile finalizzata alla tutela delle posizioni più deboli … Il terzo nodo rimanda all’esigenza, resa necessaria dalla praticabilità della fecondazione in vitro, di riflettere anche dal punto di vista giuridico sui criteri che debbano ritenersi ineludibili per una generazione umana, quale atto personale-relazionale e non puramente tecnico, consistente nell’unione di gameti (in futuro, lo si è già evidenziato, potrebbe aversi addirittura una gestione totalmente impersonale della generazione medesima, ove si rendesse praticabile la gravidanza artificiale, vietata, peraltro, dalla legge n. 40). In particolare, il contestato divieto della fecondazione in vitro c.d. eterologa deriva, come più sopra s’è visto, dal fatto che in essa la procreazione non è un fatto interno alla coppia, ma dipende dall’apporto genetico di un soggetto terzo. Inoltre, nella «eterologa» la coppia che vuole generare viene a trovarsi in una posizione non paritaria: solo uno dei due soggetti, infatti, è genitore anche biologico» … « Il desiderio di avere figli sani è, ovviamente, cosa buona, ma non può giustificare qualsivoglia modalità di risposta, né può essere utilizzato per avallare l’assunto, mai in precedenza accolto dall’ordinamento giuridico, secondo cui il riconoscimento dei diritti fondamentali di un individuo sarebbe suscettibile di dipendere dal giudizio sulle sue caratteristiche fisiche».
[16] Violini L., Tra scienza e diritto: i nodi irrisolti della fecondazione medicalmente assistita, in Fecondazione assistita, cit., p. 459 e ss.
[17] Nicolussi A., Fecondazione eterologa e diritto di conoscere la propria origine per una analisi giuridica di una possibilità tecnica, nella Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, disponibile su Internet all’indirizzo www.rivistaaic.it, pubblicato nel sito il 21 febbraio 2012.
[18] Modugno F., La Fecondazione assistita alla luce dei principi e della giurisprudenza costituzionale, in Fecondazione assistita, cit., p. 235 ss.: «La tesi, secondo la quale la legge n. 40 sarebbe costituzionalmente necessaria, muove dall’assunto (suggerito dalla stessa Corte costituzionale nella sent. n. 347 del 1998) che essa avrebbe colmato il vuoto legislativo sul fenomeno ormai affermatosi della procreazione medicalmente assistita. Ma, nel colmare il vuoto, essa si presenterebbe in particolare come legge di attuazione e svolgimento della Costituzione, in quanto concreta, sia pure contingente, esplicitazione-composizione di valori costituzionali primari, quali per es. il diritto alla vita, la legittima aspettativa di avere un figlio, la protezione del nato, diritti che, senza disciplina legislativa, potrebbero entrare in insanabile conflitto. Se così fosse, se si trattasse cioè di una regolamentazione minima, la legge potrebbe ritenersi, secondo una nota formula giurisprudenziale, “a contenuto costituzionalmente vincolato”, come tale, non abrogabile, nella sua totalità».
[19] Chieppa R., Conclusioni, cit.
[20] La Corte Costituzionale richiama, nella medesima sentenza n. 45 del 2005, analoghe finalità di bilanciamento e di tutela affermate a livello internazionale dalla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 e del relativo Protocollo addizionale stipulato a Parigi il 12 gennaio 1998, sul divieto di clonazione di esseri umani, sottoscritti anche dalla Comunità europea, di cui alla autorizzazione alla ratifica e alla determinazione di esecuzione con legge 28 marzo 2001, n. 145. La Corte richiama anche alcuni contenuti dell’art. 3 (Diritto all’integrità della persona) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in tema di consenso libero ed informato della persona interessata, di divieto di pratiche eugenetiche, di divieto di clonazione riproduttiva di esseri umani.
[21] V. anche la Relazione di Oppo, cit., nella Postilla.
[22] V. Modugno F., La Fecondazione assistita alla luce dei principi e della giurisprudenza costituzionale, cit. Invece la comunicazione del prof. Cariola, in Fecondazione assistita, cit., contiene una critica, peraltro smentita dalla valutazione della Corte costituzionale con sent. n. 45; in senso adesivo alla predetta sentenza v. la Comunicazione di Razzano G., La legge sulla procreazione medicalmente assistita incostituzionale o costituzionalmente necessaria?, in Fecondazione assistita, cit., p. 491 ss..
[23] Modugno F., La fecondazione assistita alla luce dei principi e della giurisprudenza costituzionale, cit.,: «Non sembra però che tale diritto a procreare, pur dotato, come ho prima ricordato, di tutela costituzionale, almeno secondo buona parte della dottrina, possa assumere necessariamente il carattere di un diritto individuale, del singolo cioè, fuori e indipendentemente dalla coppia (gli stessi riferimenti agli artt. 29 e 31 Cost. sembrano chiaramente presupporre una famiglia, una formazione sociale; l’art. 31 parla bensì di maternità, ma per proteggerla, non per agevolarla).
Da questo punto di vista, la discrezionalità del legislatore, libero certamente di garantire una tutela giuridica anche alla procreazione extrafamiliare, ma non certo costituzionalmente obbligato in tal senso, si è orientata non certo arbitrariamente ad “estendere la tutela del diritto alla procreazione anche a quella artificiale, purché questa sia a imitazione di quella naturale, e purché si svolga nelle condizioni di stabilità familiare auspicate dalla Costituzione”.
Non sembra perciò che il diritto alla procreazione artificiale, inteso in senso ampio come diritto individuale, possa, nel bilanciamento con diritti del nascituro (es. diritto ad una famiglia possibilmente con coppia genitoriale) necessariamente prevalere. La soluzione legislativa non può ritenersi irragionevole».
Modugno aggiunge: «Ma, se il divieto di ricorrere alla P.M.A. per i soggetti infertili o infecondi diversi dalle coppie sposate o conviventi in età riproduttiva può ritenersi costituzionalmente legittimo, vi è un altro divieto che ha suscitato più seri dubbi di costituzionalità: quello di ricorrere alla P.M.A. di tipo eterologo, sia in linea maschile, sia in linea femminile, sia in linea bilaterale, ossia per le coppie che debbono avvalersi della donazione di un gamete (o di entrambi) da parte di soggetti estranei, una pratica ampiamente praticata – e socialmente acquisita – prima della legge de qua. La maggiore gravità dei problemi riproduttivi di (uno almeno dei componenti la) coppia, costituisce impedimento al ricorso alla P.M.A. Ne risulterebbero violati sia il principio di eguaglianza, sia il diritto alla procreazione e persino il diritto alla salute (se la P.M.A. si faccia rientrare tra le terapie).
A favore del divieto milita però la concezione strettamente biologica della filiazione, quale atto possibile solo all’interno della coppia, alla quale suole opporsi peraltro l’istituto dell’adozione legittimante che invece parifica pienamente il figlio adottato ai figli naturali della coppia, consentendo alle relazioni affettive e all’assunzione di responsabilità di prevalere sul dato biologico23. D’altra parte, un’apertura alla fecondazione di tipo eterologo era rinvenibile anche nella giurisprudenza anteriore alla l. n. 40: sia la Corte costituzionale, sia la Cassazione avevano escluso l’applicabilità dell’azione di disconoscimento della paternità (ex art. 235 c.c.) nei casi di fecondazione eterologa.
Gli argomenti contro la legittimità del divieto sono, in particolare, il contrasto con la libertà personale (in senso ampio) e con il diritto alla procreazione (non consentendo ad una coppia di avere figli in Italia nel caso in cui uno dei due coniugi sia irrimediabilmente sterile).
È stato, tra l’altro, sostenuto il contrasto di tale divieto con il principio di uguaglianza e di ragionevolezza (in quanto discriminerebbe irragionevolmente tra categorie di cittadini, consentendo solo ad alcuni, i più benestanti, di ricorre a questa tecnica, mediante l’utilizzo di strutture di altri paesi dell’U.E. e extraeuropei: c.d. turismo procreativo) e, più specificamente, con il principio di parità dei cittadini comunitari (art. 12 T.C.E. che vieta discriminazioni in base alla nazionalità): sotto quest’ultimo profilo i cittadini italiani risulterebbero penalizzati rispetto ai cittadini di altri Stati comunitari, la cui legislazione prevede regole meno rigide per la P.M.A. (si pensi alle discipline molto più liberali di Spagna e Regno Unito).
Si è parlato a tal proposito di una c.d. “discriminazione a rovescio”, riprendendo una espressione che deriva dall’elaborazione giurisprudenziale americana e che è stata, recentemente, fatta propria dalla Corte costituzionale italiana in ambito comunitario; un simile caso violerebbe il principio secondo cui l’appartenenza dei cittadini ad uno dei diversi ordinamenti nazionali non deve comportare svantaggi e pregiudicare l’applicazione dei principi comuni; temo, tuttavia, che, su tale opinione, non si possa concordare per più di una ragione; dobbiamo perciò aprire una breve parentesi per discuterne.
In primo luogo, molto semplicemente, nel caso di specie non è corretto parlare di “discriminazione a rovescio”; in secondo luogo, ho qualche dubbio persino sul fatto che si possa vantare una lesione del principio di eguaglianza tout court.
Per quel che riguarda l’uso (o l’abuso?) del termine “discriminazione a rovescio”: l’essenza di tale fattispecie è rappresentata dal verificarsi di una sperequazione giuridica come risultato riflesso di un provvedimento che non è in sé discriminatorio, ma che anzi (almeno nell’originale vicenda americana) tenta di eliminare una sperequazione fattuale. Abbiamo, quindi, almeno due posizioni: una che gode di un beneficio ed un’altra che è discriminata per l’unica ragione di non accedere a quel beneficio; pertanto, la vicenda discriminatoria, non è innescata da un provvedimento in sé limitativo, ma, al contrario, da un provvedimento che, in sé considerato, è accrescitivo.
Così nell’esperienza americana Mr. De Funis si considerò discriminato perché, pur appartenendo ad una minoranza (nella fattispecie quella ebraica) non poteva godere, nelle selezioni per l’accesso alla Law School dell’Università di Washington, del trattamento preferenziale che veniva riconosciuto ad altre minoranze (quali quella afroamericana, filippina, messicana, indiana). In una vicenda italiana, relativamente recente, i pastifici nazionali si considerarono discriminati perché le norme interne di produzione erano più severe di quelle comunitarie e, sempre in forza del diritto comunitario, era preclusa ogni misura protezionistica che limitasse la circolazione dei prodotti stranieri nel mercato italiano; è chiaro che, anche, in questo caso la discriminazione non deriva direttamente dalla normazione restrittiva, ma in maniera riflessa (sarei, perciò, portato a parlare di “discriminazione riflessa” più che di “discriminazione al contrario”), da quella più favorevole cui un soggetto (o una categoria di soggetti) non può accedere. Non furono i consueti standard previsti dalla Washinton Law School ad innescare la discriminazione nei confronti di De Funis, ma gli standard più favorevoli che erano previsti per altre minoranze; nello stesso modo nel caso italiano, non fu il diritto interno (restrittivo) a provocare la discriminazione nei confronti del pastifici nazionali, ma fu l’effetto riflesso (Reflexwirkung, per dirla à la Gerber) che “l’applicazione del diritto comunitario” (più favorevole, se considerato immediatamente) era “suscettibile di provocare”.
Ora nel caso di specie non vi è alcuna norma di carattere favorevole che induca una “discriminazione a rovescio” nell’ordinamento italiano (mancando sul punto una normativa europea); vi è, semplicemente una situazione di fatto che contempla un’eterogeneità di discipline in un ambito che non solo è europeo (nemmeno latamente inteso), ma addirittura mondiale.
E questo ci conduce al secondo tipo di perplessità: è, infatti, piuttosto dubitabile persino che la suddetta situazione comporti una “consueta” lesione del principio di eguaglianza: tale principio va, infatti, valutato endosistemicamente; cioè alla luce di un unico sistema normativo e assiologico (o di due sistemi normativi collegati, come nella relazione tra ordinamento interno e comunitario).
Ma, in questo caso, non vi è alcun sistema normativo comune: il fatto che esita una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali, è, appunto, solo questo: un fatto che, in quanto assolutamente estraneo al sistema normativo, l’ordinamento non può tenere in considerazione; a meno che non si pretenda che il Parlamento legiferi sempre in conformità alla situazione mondiale (e quale poi?) – che, tra l’altro, non può certo essere omogenea, bensì sempre disomogenea – eliminando, per esempio, la tassazione su tabacchi e medicine perché nello spazio della Città del Vaticano costano meno, ammettendo l’uso di droghe leggere perché in Olanda è consentito, sancendo norme più permissive sulla prostituzione perché in Tailandia è agevole il turismo sessuale. Per questo non sembra possibile ragionare in termini di discriminazione, sia essa “diritta” o “a rovescio”.
Chiusa questa parentesi, torniamo all’argomento centrale di queste pagine per segnalare infine che una contraddizione interna sembra emergere dalla stessa legge n. 40, la quale prima vieta la fecondazione di tipo eterologo (art. 4, 3°), predisponendo altresì per la violazione del divieto una sanzione amministrativa piuttosto seria (art. 12, 1°), e poi disciplina le conseguenze discendenti dalla violazione del divieto, con riguardo allo status del figlio e alle facoltà dei soggetti coinvolti (art. 9), quasi supponendo che la violazione del divieto costituisca un evento normalmente ricorrente e non già un’eccezione.
A tutti questi argomenti si è cercato di rispondere. Contro l’argomento secondo il quale il divieto di procreazione eterologa escluderebbe uomini e donne dall’accesso ad un trattamento sanitario in violazione del diritto alla salute, va rilevato che la P.M.A. non è sicuramente un vero e proprio trattamento sanitario, perché la sterilità o infertilità non è una malattia vera e propria e, se lo fosse, sarebbe curabile con trattamenti sanitari appropriati che la legge considera primariamente, prima cioè di ricorrere alla P.M.A., che è piuttosto un modo di “sostegno alla coppia” anche se – è opportuno rilevarlo – l’art. 1, 2° della legge parla di “ricorso alla P.M.A.” consentito “qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità”. Ma un errore definitorio del legislatore non inficia il fatto che il ricorso alla P.M.A. non è propriamente una terapia (non rende fertili in alcun modo soggetti sterili o infertili!). E se la P.M.A. non è oggettivamente idonea (a fortiori se eterologa) ad eliminare le cause di infertilità o sterilità, non è né irragionevole e neppure contrastante con il diritto alla salute il divieto de quo.
Ma il divieto contrasta con il diritto alla procreazione? Se il legislatore consentisse l’eterologa, permetterebbe di aggirare gli impedimenti naturali alla procreazione. Ma – si oppone – mentre la fecondazione omologa (salvo che per il momento iniziale del concepimento) “assicura al nascituro un contesto familiare pressoché identico al nato da procreazione naturale”, l’eterologa invece non lo consente, per cui, a difesa del relativo divieto, e alla giustificazione della disparità di trattamento tra coppie stabili eterosessuali che pur ne consegue, possono essere addotti due argomenti: a) la garanzia per il concepito di “un quadro parentale non frammentario, che assicuri la coincidenza tra dimensione biologica e quella socio-affettiva della genitorialità” e b) “il fine di assicurare un’identità biologica certa al nato, che si concreti nella conoscibilità del patrimonio genetico dei genitori”, (mentre viceversa l’eterologa si accompagna di norma all’anonimato del donatore). E, sempre a favore del divieto dell’eterologa, si potrebbe dire che l’identità biologica certa del nato sia un “risvolto strumentale del diritto alla salute, sia nella sua dimensione individuale – in vista della cura di eventuali malattie congenite – sia nella sua dimensione collettiva – dato il <concomitante e fondamentale interesse della collettività, ex art. 32 Cost., a conoscere l’autentica discendenza genetica dei propri membri allo scopo di prevenire i rischi per la sanità pubblica derivati o dalla trasmissione ereditaria di patologie contagiose o dalle commistioni sessuali tra persone ignare di essere sostanzialmente consanguinee, che sono geneticamente pericolose>”.
Non sono certo mancate controrepliche alle risposte agli argomenti contrari al divieto di fecondazione eterologa.
Sulla garanzia per il concepito di un quadro parentale non frammentario, si è opposto per es. dalla Relazione di minoranza in Parlamento (n. 1514 A ter) che, nell’ampia popolazione dei nati da fecondazione eterologa, nessuna ricerca ha messo in evidenza danni o problemi rilevanti (fisiologici o psicologici) a carico dei medesimi. Sulla identità biologica certa, già prima della legge, era possibile che il soggetto nato da materiale genetico donato o i suoi legali rappresentanti avrebbero potuto ricorrere al giudice, nel caso di insorgere di un problema di tipo sanitario, per conoscere i dati sanitari o persino i dati anagrafici del donatore (superando la prescrizione di “anonimato”).
Secondo i critici del divieto, vi è poi da rilevare che esso non risolve i problemi, se mai li aggrava, spingendo verso procreazioni naturali c.d. pilotate o comunque occasionali, verso il c.d. turismo procreativo, fino addirittura a minare alla base l’unità di famiglie, in cui la madre sia sterile o infertile, ma decisa ad avere un figlio. Argomenti serii certamente, ma di pratica opportunità, rilasciati alla ragionevole decisione del legislatore che avrebbe potuto scegliere la soluzione favorevole all’eterologa, senza incorrere, a me pare, a censure di incostituzionalità. Ma anche il divieto dell’eterologa è decisione altrettanto non irragionevole ed anzi conforme al “principio costituzionale vigente della verità biologica del rapporto di filiazione, che impone la tendenziale coincidenza tra paternità-maternità legale e paternità-maternità naturale”.
L’obiezione, secondo la quale la coincidenza tra genitorialità legale e genitorialità naturale è positivamente esclusa dall’esistenza stessa dell’istituto dell’adozione, prova troppo, perché l’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando e l’interesse rilevante, oltre che della famiglia che chiede l’adozione, del minore stesso che è in stato di abbandono. Efficacemente la differenza radicale tra P.M.A. ed adozione è colta da chi pur è decisamente favorevole alla procreazione artificiale, il quale ha precisato che “l’adozione non serve per dare un figlio ad una coppia, ma per dare dei genitori ad una bambina o ad un bambino che ne è privo. Ciò significa che l’adozione rispondendo in modo assolutamente prevalente alle esigenze del bambino prescinde dal soddisfacimento del desiderio del figlio di molte coppie. Invece la procreazione artificiale serve a dare un figlio che non c’è ancora ad una coppia (o singolo) che intenda realizzare le proprie aspirazioni genitoriali”.
Infine anche la tutela dei nati in violazione del divieto di procreazione eterologa (capo III della legge) può riguardarsi non già propriamente come una contraddizione interna alla legge, bensì come un estremo rimedio al fine di assicurare comunque al figlio la certezza dello status, impedendo che padre o madre biologici possano, in caso di fecondazione eterologa, avanzare pretese nei confronti del nato.
La prevalenza è assicurata al padre che ha dato il consenso all’inseminazione della donna e alla madre gestante. Le obiezioni, che pure è possibile muovere (e che sono state mosse) a queste scelte del legislatore, non sembrano però tali da renderle irrimediabilmente irragionevoli e incostituzionali».
[24] Elia L., Che cosa è la liberta?, in Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, Rai Educational, Intervista nel Liceo classico Plauto di Roma, in www.filosofia.rai, Il Grillo 25 febbraio 1999. Segue la domanda dello studente e la risposta:
Studente: Da giorni stiamo assistendo alla discussione, in Parlamento e sulle principali testate giornalistiche, sul problema della “fecondazione assistita”, cui fa da sfondo una nuova ricerca di libertà da parte dei singles, o dei conviventi; la libertà di poter disporre della possibilità di ricorrere a questo metodo di procreazione. Lo Stato, in un certo senso, lo vieta, poiché ha concesso la possibilità della fecondazione assistita solo alle coppie unite in matrimonio o alle coppie cosiddette “di fatto”. Lei che posizione assume in merito?
Elia: Questo è un grosso problema. Oggi esiste una sfera di questo tipo di questioni assolutamente non disciplinata dalla legge. Oggi, in pratica, si sta ancora discutendo di elaborare una legge il più possibile completa, in quanto non esisteva, (prima del pronunciamento del Parlamento in materia, N.d.A.) alcuna disciplina su questo ambito delicatissimo. Quindi esisteva una sfera di liceità estremamente ampia. Lo Stato vorrebbe intervenire per impedire che si verificassero fenomeni di portata abnorme, costituiti, ad esempio, da casi di maternità ottenuta in donne di età troppo avanzata. Lo Stato vorrebbe che i figli nati da questo metodo di fecondazione, godessero, sostanzialmente, degli stessi sostegni e degli stessi diritti di cui oggi dovrebbe godere un figlio concepito nel matrimonio o, volendo tirare in ballo coloro che fanno attualmente propria una concezione della famiglia attualmente rifiutata dalla Costituzione vigente, (la quale protegge soprattutto la famiglia fondata sul matrimonio, concezione che, di per sé, non esclude la possibilità di intervenire in qualche caso a favore anche della cosiddetta famiglia di fatto) per meglio dire, tende ad attribuire una naturalità “legale” in qualche modo, a questi fenomeni resi accessibili dalle nuove tecnologie, di modo che un figlio, che nascerà da questa fecondazione assistita, abbia (possibilmente) il sostegno di un genitore maschio e di una madre, in modo da riprodurre il più possibile i rapporti che tradizionalmente, ma anche naturalmente si producono. Il voto espresso recentemente a voto segreto dalla Camera sulla famiglia contro la procreazione assistita eterologa, dimostra che in Italia prevale, almeno per quanto riguarda il parere rappresentato dal voto della Camera dei Deputati, una concezione che tende a valorizzare di più la coppia naturale e non a favorire, rapporti esterni alla coppia.
[25] Abdelhamid H, Professore nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Ain Chams, Il Cairo, La protezione della vita umana nella cultura giuridica musulmana (A proposito della procreazione artificiale e dell’ingegneria genetica), in Fecondazione assistita, cit., p. 31, testo tradotto: «l’inseminazione artificiale e la fecondazione in vitro. La persona umana è “procreata”. Essa non è né “prodotta” né “riprodotta”. Il termine “procreazione” indica che ogni persona che viene al mondo comporta, in una certa maniera, una nuova creazione. Questo significato è molto chiaro nei testi coranici [(Egli vi ha creati nel ventre delle vostre madri: creazione dopo creazione in tre tenebre. Questo è Dio, vostro Signore…) (Sura 36, 6)].
C’è dunque una maniera umana di venire al mondo, che è l’unione amorosa allo stesso tempo spirituale e corporea dei genitori. Ciò spiega la difficoltà che si ha nell’immaginare che un uomo possa essere il risultato di un essere di laboratorio (homo fabricatus).
Tuttavia, questo fenomeno è possibile fin dal 1978. Attraverso la fecondazione in vitro i bio-medici possono ormai concepire degli embrioni umani nei loro laboratori. Certamente, l’embrione è normalmente trasferito nell’utero entro le ventiquattro o quarantotto ore che seguono il suo concepimento, a meno che esso non venga congelato. Ma ciò non toglie che l’atto con il quale esso arriva ad esistere è l’atto di un tecnico.
E’ per questo motivo che la controversia esistente tra i giuristi musulmani contemporanei è molto accesa. Alcuni sono favorevoli ed altri contrari. E c’è una fatwa data dall’istituto della dottrina islamica della Mekka.
L’opinione dei più è quella di coloro che sono contrari. Quest’opinione si basa sui problemi morali e religiosi che possono risultare da questa pratica e che non potranno essere controllati. Secondo loro, anche questa pratica è contro gli obiettivi divini del matrimonio:
– Questo modo di procreare è diverso da quello naturale indicato da Dio.
– Questo modo di procreare comporta parecchi pericoli: l’errore che può aver luogo durante lo stoccaggio nei laboratori. E’ possibile dare uno sperma diverso da quello del marito; è possibile dare un embrione (ovulo fecondato) al posto di quello giusto. In questi casi, si cade nell’interdetto legale che avrà come risultato, il miscuglio delle filiazioni.
– Ci può essere malafede: l’uomo potrà avere l’ovulo di un’altra donna o la donna potrà avere lo sperma di un altro uomo.
– Se l’inseminazione comincia nei laboratori tra il marito e la moglie, questa maniera può diventare, a poco a poco, commerciale. Per questi laboratori può diventare un atto molto redditizio. Inoltre, si tratta di un lavoro di grande specializzazione che può essere fatto solo da esperti. La frode è dunque probabile, come è possibile la creazione di banche dello sperma, il che è accaduto nei paesi occidentali.
– Nessuno può conoscere il futuro comportamento di questo bambino fabbricato, ma tutti noi sappiamo con certezza che, nelle nostre società orientali, questi bambini saranno sospettati e rifiutati.
Per quanto riguarda l’opinione di coloro che sono per l’inseminazione artificiale e per la fecondazione in vitro, bisogna sapere che essi non accettano questa tecnica in modo assoluto. Essi pongono delle condizioni precise per l’autorizzazione di questa pratica. Secondo loro, si tratta di un metodo terapeutico ed è necessario che i musulmani siano molto prudenti per evitare il miscuglio delle filiazioni. Secondo questa opinione, le condizioni più importanti sono le seguenti:
– L’ovulo deve essere fecondato con lo sperma del marito:
– La fecondazione deve essere fatta quando il marito è in vita e non dopo la sua morte, perché il marito, nel momento in cui muore diventa un estraneo nei riguardi di sua moglie. E’ vietata dunque la fecondazione dell’ovulo della sua ex-moglie con il suo sperma.
– I medici e l’équipe di assistenti debbono essere musulmani e conosciuti per la loro onestà. Dunque il medico non musulmano non è autorizzato a fare la procreazione artificiale per una coppia musulmana.
– Bisogna avere un consenso esplicito da parte della coppia
Secondo questa opinione, se non autorizziamo questo metodo terapeutico nel mondo musulmano, le coppie si rivolgeranno ai paesi occidentali e ciò comporterà più pericoli per quanto riguarda la mescolanza delle filiazioni.
Infatti, la più importante fatwa a proposito di questo argomento nel mondo musulmano, è quella dell’Istituto della dottrina musulmana della Mekka, in quanto essa è ripresa da tutte le istituzioni e dai giureconsulti musulmani.
Secondo questa fatwa:
– Viene autorizzata l’inseminazione artificiale con lo sperma del marito e all’interno dell’utero della moglie in vista della procreazione.
– La fecondazione in vitro tra l’ovulo della sposa e lo sperma dello sposo che sarà trasferito nell’utero della sposa è legalmente accettabile. Ma essa non è del tutto corretta a causa delle circostanze artificiali che si possono verificare. Dunque bisogna utilizzarla solo nei casi di grande necessità e quando esistono le condizioni generali indicate nella seconda tesi
Costatiamo che l’accettabilità etica della fecondazione in vitro non è tanto semplice come talvolta appare. Essa solleva inoltre numerosi altri problemi come il congelamento di embrioni, il trasferimento di più embrioni, le ricerche sugli embrioni, l’utilizzo degli embrioni dopo la morte del marito, il ricorso a donatori di gameti e alla maternità per conto terzi. Ci sembra che questi numerosi problemi accessori siano rifiutati categoricamente dalla maggior parte dei giuristi musulmani contemporanei. Secondo loro, tutti i problemi nascono con l’autorizzazione al congelamento degli embrioni».
[26] V. diffusamente Fracanzani, Osservazioni in margine alla procreazione assistita mediante inseminazione eterologa, in questo volume.
[27] Per riferimenti v. l’ordinanza del Tribunale di Catania e per cenni critici sulla prima decisione della Corte Europea resa dalla Sezione I, smentita poi dalla decisone della Grande Chambre, v. Rocchi, Il divieto di fecondazione eterologa viola il diritto costituzionale alla salute? cit.
[28] Branca G., voce Adozione, Diritto romano, in Enciclopedia del Diritto, vol. I, Milano, Giuffrè, p. 579.
[29] Contardo Ferrini, Manuale di pandette, 4^ ed. curata e integrata da Grosso G., Milano, Editrice libraria, 1953, p. 698.
[30] Contardo Ferrini, op. cit., p. 694
[31] Contardo Ferrini, op. cit., p. 697.
[32] Serafini F., Istituzioni di diritto romano, Firenze, 1881, p. 332; Bonfante P., Istituzioni di diritto romano, 8^ ed., Milano, Vallardi, 1925 p. 144.
[33] Contardo Ferrini, op. cit., p. 696.
[34] Contardo Ferrini, op. cit., p. 695.
[35] Contardo Ferrini, op. cit., p. 695; Vismara G., voce Adozione, Diritto intermedio, in Enciclopedia del Diritto, vol. I, cit., p. 583, n. 3, con particolare riguardo agli affratellamenti e alle affiliationes del genero e del cognato.
[36] Arangio Ruiz V., Istituzioni di diritto romano, Napoli, Iovinw, 1984, p. 466.
[37] Contardo Ferrini, op. cit., p. 696.
[38] Contardo Ferrini, op. cit., p. 700.
[39] Vismara, op. cit., p. 583.
[40] Vismara, op. cit., p. 584.
[41] Art. 300, secondo comma, c.c.
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