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Il diritto di impresa non puo’ prevalere sulla privacy e sulla tutela dei diritti della persona. Condanna penale per tre dirigenti di Google

di Elena Maggio   Si è concluso ieri a Milano il primo procedimento penale, anche a livello internazionale, che ha visto, quali imputati per i contenuti di video messi in Rete e postati dagli utenti, alcuni alti responsabili di Google. Il giudice monocratico della IV Sezione penale del Tribunale di Milano ha, infatti, emesso ieri una sentenza di condanna, le cui motivazioni non sono ancora state rese note, a sei mesi di reclusione (con la sospensione della pena), nei confronti di tre imputati, tra dirigenti ed ex dirigenti di Google, ritenuti responsabili di violazione delle norme sulla privacy per non aver impedito, nel 2006, la pubblicazione di un video, in cui si vedeva un giovane disabile di Torino insultato, umiliato e vessato dai compagni di classe, su una piattaforma Web gestita dalla società californiana ed, altresì, per non aver provveduto alla rimozione dello stesso immediatamente dopo la pubblicazione, avendone, invece, consentito la consultazione da parte di un numero indeterminato di utenti, Il video era stato girato con un videofonino tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 2006 da quattro studenti minorenni di un istituto scolastico torinese, e caricato su Google Video, piattaforma di hosting per la condivisione video, nel settembre 2006, rimanendo online fino al novembre seguente, momento in cui l’associazione Vividown decise di sporgere una denuncia nei confronti di Google e periodo al quale risale anche la presentazione di una querela, alla Procura della Repubblica di Torino, da parte dei genitori del ragazzo maltrattato. Nel video clip si vedevano i ragazzini insultare, deridere e umiliare il compagno disabile ben identificabile nei suoi tratti somatici. A seguito delle indagini svolte dagli inquirenti erano stati contestati a quattro responsabili di Google i reati di diffamazione e di violazione della privacy. Nel corso delle precedenti udienze i familiari del minore disabile avevano ritirato la querela nei confronti dei dirigenti di Google in seguito alle scuse ed alle iniziative di Google promosse in ambito sociale; il procedimento ha comunque avuto seguito. Ad essere condannati ieri sono stati David Carl Drummond, ex Presidente del CdA di Google Italia, George Reyes, ex membro del CdA di Google Italia e Peter Fleischer, responsabile delle strategie del gruppo; la condanna, come detto a sei mesi di reclusione (con pena sospesa), è per la sola violazione della privacy. Assolto, invece, Arvind Desikan, responsabile del progetto Google video per l’Europa, accusato esclusivamente del reato di diffamazione, altro capo di accusa dei PM, in riferimento al quale gli imputati sono stati tutti assolti. Al processo si erano costituite parti civili sia il Comune di Milano che l’associazione Vividown, nessun risarcimento è stato, tuttavia, riconosciuto a queste ultime poiché la loro posizione era legata al solo reato di diffamazione per il quale, come detto, gli imputati sono stati assolti. Il giudice ha disposto, inoltre, la pubblicazione, per estratto, della sentenza su tre quotidiani di rilievo, il Corriere della Sera, la Repubblica e la Stampa. I Pubblici Ministeri che si sono occupati del caso, soddisfatti dalla pronuncia ottenuta, hanno commentato che “il diritto di impresa non può prevalere sulla privacy e sulla tutela dei diritti della persona” , aggiungendo di non aver mai sostenuto, come da più parti è stato affermato, la censura della Rete quanto, piuttosto, il necessario contemperamento tra diritto d’impresa e dignità della persona. In un post pubblicato sul suo blog ufficiale, Google, di contro, ha definito la vicenda una “minaccia al Web in Italia”, ritenendo la decisione del giudice di Milano un attacco dei principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito Internet ed affermando, altresì, l’intenzione di ricorrere in appello avverso la sentenza in commento. La sentenza emessa dal Tribunale Penale di Milano ha generato forti reazioni anche in campo politico, non solo nazionale. La pronuncia ha, infatti, provocato anche l’intervento della rappresentanza diplomatica statunitense, che, non concordando con la possibilità di ritenere gli Internet Service Provider responsabili per la diffusione dei contenuti caricati in Rete dagli utenti, e pur senza citare direttamente la Cina, è sembrata voler paragonare l’operato dei giudici italiani a quello della censura cinese sul web. L’ambasciatore americano a Roma, David Thorne ha, infatti, citato le parole del Segretario di Stato americano Hillary Clinton che, nella polemica delle scorse settimane con la Cina sulla censura, ha definito Internet libero come un “diritto umano fondamentale che deve essere protetto nelle società libere”. In Italia, il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri ha, invece, parlato di sentenza esemplare e sollevato la questione della vigilanza dei contenuti pubblicati in Rete. Alla luce dell’interesse e delle reazioni scatenate dalla pronuncia, che si pone come unicum anche a livello internazionale, risulterà, ovviamente, quanto mai importante leggere le motivazioni della sentenza al fine di comprendere il percorso logico che ha condotto il giudice all’emissione del provvedimento in commento. In attesa della pubblicazione delle motivazioni, l’impressione di molti addetti al settore è che la sentenza intenda irrompere di fatto nelle tutele previste a favore degli intermediari dalla direttiva europea sul commercio elettronico confermando la tendenza a voler attribuire obblighi di sorveglianza, agli operatori della Rete, sui contenuti postati dagli utenti. Proprio con riferimento a tale esito Google si dichiara profondamente preoccupata sostenendo che qualora il principio di segnalazione e rimozione dovesse venire meno e siti come Blogger o YouTube fossero ritenuti responsabili di un attento controllo di ogni singolo contenuto caricato sulle loro piattaforme, il Web nei termini oggi intesi scomparirebbe e con esso molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologici che ne conseguono. Occorre porre l’attenzione sulla circostanza per la quale, ad oggi, un motore di ricerca come Google non può impedire la messa in Rete di un video girato da un qualsiasi soggetto che, avendo accesso diretto alla Rete, può immettervi tanto un messaggio scritto quanto un filmato precedentemente registrato. Nel nostro ordinamento non esiste, infatti, una norma che imponga ad un motore di ricerca di selezionare il materiale volta per volta “proposto” dalla massa di utenti; ben potendo, tuttavia, provvedere a rimuovere il materiale che si ritenga lesivo. Di conseguenza, all’atto della messa in rete di un video, per un motore di ricerca non si porrebbero neppure questioni relative al trattamento di dati personali; pure, indubbiamente, alla base della condanna emessa dal Tribunale di Milano. La norma che appare applicabile, in tema di dati personali, al caso di specie è l’art. 167 del d.lgs. n. 196 del 2003, c.d. Codice della Privacy, il quale punisce, con la reclusione da sei a diciotto mesi, chi effettua un trattamento illecito di dati personali, definendo, altresì, l’illiceità del trattamento. Nel caso in esame, si è ritenuto sia stato fatto un uso illecito dei dati personali del giovane disabile, cioè dei tratti somatici del ragazzo down vessato, reso riconoscibile a migliaia di utenti. L’art. 4, comma 1, lett. a), del Codice della Privacy disciplina che per trattamento di dati personali deve intendersi “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati”. Dal momento in cui il video recante i dati personali del giovane disabile è stato caricato in Rete, mantenuto e reso raggiungibile da chiunque, Google ha esercitato un’attività di conservazione di quei dati personali che ne ha costituito illecito trattamento poiché quei dati personali avrebbero potuto essere da Google conservati solo con il consenso del ragazzo. Il tutto avvenendo nonostante l’indignazione, la palese lesività della privacy di quel ragazzo e il clamore suscitato dalla pubblicazione di quel video e veicolato attraverso tutti i media, avessero senz’altro messo i dirigenti nella condizione di poter agevolmente comprendere l’entità della violazione e provvedere alla sua rimozione. Questa, per sommi capi, sembra essere la violazione presa in considerazione dal giudice e che ha portato alla condanna dei tre dirigenti di Google. Tuttavia, al fine di meglio comprendere se il giudice abbia inflitto la condanna per il solo fatto che quel video sia stato immesso in Rete, ritenendo il fatto immediatamente lesivo e venendo, dunque, a costituire la sentenza un importantissimo precedente in tema di responsabilità dell’Internet Service Provider o se, invece, la condanna sia stata inflitta anche od esclusivamente in considerazione dell’evidente disinteresse manifestato da Google, che ha reiterato un’attività illecita di conservazione di dati personali, consentendo la consultazione del video e l’ulteriore diffusione di quegli stessi dati, dovrà attendersi la pubblicazione delle motivazioni del provvedimento.

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