skip to Main Content

La cappa dello spread sui conti delle imprese

di Gian Maria Gros-Pietro e Andrea Nuzzi L’allarme immediato per la tenuta della finanza pubblica e dello stesso euro lascia in ombra la devastazione che tale condizione sta producendo e potrebbe produrre nella realtà delle imprese. Ma è sbagliato trascurarla, perché a differenza delle altalene degli spread e dei Cds, le ore non lavorate e gli anni di ritardo negli investimenti non ritornano mai più. Inoltre, lasciano voragini incolmabili nel circuito del sistema economico. Le tensioni sui rendimenti dei titoli di Stato hanno ripercussioni sulla competitività delle imprese, riflettendosi sul costo del capitale impiegato; le restrizioni di liquidità si riflettono in minori finanziamenti (si veda il grafico con i dati della Banca d’Italia). E tutto ciò può grandemente danneggiare il sistema reale di produzione del reddito, che è quello su cui dovremmo basare la nostra ripresa. Nell’affrontare le carenze di competitività e le sfide della globalizzazione le imprese italiane di successo hanno seguito nel recente passato due direttrici. Una di attacco frontale, sulle variabili competitive “core”; l’altra di consolidamento e potenziamento dei fattori abilitanti (enablers) necessari per sfruttare le opportunità di sviluppo. Tra le leve competitive, quella che ha caratterizzato più diffusamente i best performer è stata la strategia di riposizionamento. Geografico, verso mercati in crescita, e merceologico, su segmenti ad alta marginalità. La penetrazione nei mercati nuovi o da sviluppare si è evoluta dall’espansione in mercati geograficamente contigui – modello “imprenditore con la valigia” – al posizionamento su quelli in cui sono presenti consumatori sensibili al made in Italy, con crescita degli strati affluent e middle-class. Per raggiugerli è stato spesso necessario concludere accordi con reti distributive già attive, o allestire consorzi o società di scopo per penetrare il mercato sfruttando economie di condivisione dei servizi (shared services). Non è stato un processo rapido, al contrario, i successi sono venuti progressivamente, al seguito di investimenti in relazioni locali, in capitale umano, in tecnologia, in adattamenti ai mercati e ai clienti nuovi e, non ultimo, a seguito di consistenti anticipazioni finanziarie. Le imprese che hanno avuto il coraggio e la determinazione di lanciarsi in mercati geografici e in prodotti nuovi sono state in grado di più che compensare, in termini di incremento di fatturato e di margini, la riduzione riscontrata nelle geografie tradizionali. Tuttavia, per quanto se ne parli in modo esteso, l’acronimo Bric rimane ancora un’attraente etichetta più che un’opzione strategica concreta per molte delle imprese italiane: in effetti, solo il 6,3% delle esportazioni nazionali (2,3% in Cina, 2,2% in Russia, 0,9% in India e 0,9% in Brasile) viene destinato a tali Paesi (Ice, 2009). Tratto da Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2011

Back To Top