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Evoluzione della disciplina in materia di pubblicità ingannevole

di Michele Contartese

La pubblicità ha assunto un ruolo di notevole influenza con l’evolversi del mercato. I modi e le forme con cui si presenta, la sua rilevanza economica, la sua efficacia persuasiva fanno in modo che la stessa possa essere assunta a “ vero e proprio emblema delle società moderne”[1].
Il binomio pubblicità-società dei consumi sembra quasi indissolubile, e così come accade per tutti gli aspetti più rilevanti della Società dei consumi il fenomeno pubblicitario sorge molto prima dell’affermarsi del capitalismo.
Ed infatti, le origini della pubblicità commerciale si fanno risalire alla seconda metà dell’800, quando la pubblicità era volta unicamente ad informare il consumatore, riguardava la sola fase dell’acquisto e coinvolgeva esclusivamente il dettagliante e l’acquirente del prodotto.
La pubblicità ricopriva, dunque il ruolo di mera rassicurazione del commerciante verso i propri clienti, ed era legata al ruolo del rivenditore nel processo di produzione e di distribuzione della merce. Il consumatore era così vincolato al negoziante da un rapporto personale e confidava sulle informazioni specifiche che lo stesso gli forniva. Le informazioni assumevano una veste di garanzia della bontà della merce e della convenienza dell’acquisto.
Con l’affermarsi delle prime forme di concentrazione monopolistica e con le alterazioni del mercato libero, da esse provocate, mutavano anche il ruolo e la funzione della pubblicità commerciale. Si cominciava, dunque a passare dalla pubblicità che era volta ad informare il pubblico a quella in grado di orientare i consumi, stimolare i bisogni promuovere l’assorbimento della domanda.
Iniziavano, però, anche a diffondersi forme deviate di pubblicità quali: la pubblicità ingannevole, la quale presentava un messaggio che poco identificava il vero valore del prodotto.
La pubblicità ingannevole: gli esordi.
In Italia la prima embrionale esperienza normativa in materia di pubblicità ingannevole risale ai primi anni del regime fascista: oltre ad interventi legislativi specifici (tra i quali va ricordato l’art. 51 del R.D.I. n. 2033 del 15 ottobre 1925 in materia di produzione e commercio dei prodotti agrari), infatti, nelle fattispecie di comunicazione pubblicitaria mendace o ingannevole trovavano applicazione le norme del Codice Penale ( vedi gli artt. 515, 516 e 517 c.p.), che pur senza uno specifico riferimento alla comunicazione pubblicitaria, colpivano qualsiasi forma di frode in commercio.
Il Regime all’epoca, interveniva con una sorta di censura preventiva sulla pubblicità, equiparandola, così, ad ogni altra forma di manifestazione del pensiero.
Dopo la caduta del fascismo, il panorama della disciplina giuridica della pubblicità, tuttavia, non subì significative evoluzioni, fatta eccezione per l’abolizione del nulla-osta preventivo dell’Autorità di Pubblica Sicurezza, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale del 1956, anche se rimase immutata la specifica disciplina censoria riguardante alcuni singoli settori o specifici prodotti [2].
A partire dagli anni ’60, invece, le Corti di Giustizia cominciarono a prestare attenzione al fenomeno pubblicitario e vi furono alcune sporadiche pronunce di censura di quei messaggi pubblicitari che contenevano affermazioni palesemente false.
In quegli anni, in applicazione della disciplina del Codice Civile in tema di concorrenza sleale veniva ritenuta mendace la pubblicità con la quale un soggetto economico poneva in essere un falsa rappresentazione della propria realtà economica, purchè la stessa fosse idonea ad arrecare un diretto pregiudizio ai propri concorrenti, non tenendo affatto in considerazione gli interessi dei consumatori. Soltanto a partire dagli anni settanta, la giurisprudenza si è mostrata più attenta alla tutela di soggetti diversi dai concorrenti, ritenendo sufficiente, al fine di qualificare una pubblicità come ingannevole, la semplice condizione che l’informazione mendace potesse distogliere un individuo dall’ acquistare analoghi prodotti da altre imprese.
La direttiva Europea 84/450
Il mercato in continua espansione e la sempre maggiore concorrenza tra le imprese avevano amplificato il bisogno di quest’ultime di individuare strategie di marketing sempre più puntuali e mirate, poste in essere attraverso l’utilizzo di comunicazioni commerciali e forme pubblicitarie volte ad influenzare in maniera significativa il proprio target di riferimento.
Il legislatore europeo, in considerazione dell’importanza crescente che assumevano le comunicazioni aziendali nell’orientare la scelta di acquisto di un bene da parte del consumatore, riteneva necessario, nel 1984, attraverso l’emanazione della direttiva 450 CEE [3], “relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di pubblicità ingannevole” dare un quadro normativo uniforme e chiaro dell’intera disciplina.
Il termine “pubblicità ingannevole” deve essere inteso in senso proprio, cioè con contenuti decettivi, perché nei considerando previsti nel preambolo della direttiva si precisa che questa doveva costituire il primo segmento di disciplina comunitaria, succedendo ad essa una direttiva sulla pubblicità sleale, e se necessario, una direttiva sulla pubblicità comparativa.
La direttiva veniva recepita in Italia con il decreto legislativo 74/1992[4] con lo scopo, in base a quanto sancito dall’articolo 1, di “tutelare da un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari, nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”.
Nel disposto di tale articolo non si rinveniva alcun riferimento alla pubblicità comparativa, dal momento che in Italia non era considerata lecita.
La finalità del decreto legislativo del 1992 era volta a garantire tre diverse dimensioni: a) il singolo acquirente; b) i rapporti fra imprenditori; c) l’interesse generale che si estrinseca nella collettività e nel mercato.
Negli articoli successivi del decreto si rinvengono le definizioni di pubblicità e di pubblicità ingannevole.
Per pubblicità si intende: “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi, oppure la prestazione di opere o di servizi”, mentre la decettività si manifesta per “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente.”
Ala luce del disposto normativo si può ritenere ingannevole anche la pubblicità che informa ma non informa: la c.d. pubblicità suggestiva.
Ma tornando al Decreto del ’92, premesso che i primi tre articoli ripetono pedissequamente il disposto della direttiva, gli artt. 4, 5, 6, della norma di recepimento, non portano alcuna novità al panorama legislativo italiano in quanto la disciplina di controllo dei messaggi pubblicitari corrisponde, nelle linee di fondo, a norme del Codice di autodisciplina.
In particolare l’art. 4 (Trasparenza della pubblicità) riprende il contenuto degli artt. 7 ( Identificazione della Pubblicità) e dell’ art. 5 (Garanzie) della direttiva; mentre l’art. 5 del d.l. ( Pubblicità di prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza dei consumatori) si modella sul contenuto dell’art. 12 ( Sicurezza).
L’art. 5 deve essere coordinato con le disposizioni del D.p.r. 24 maggio 1988 n. 224 sulla responsabilità del produttore. Il produttore che usa messaggi ingannevoli può essere considerato responsabile, anche se di per sé il prodotto non presenta difetti ma richiede da parte dell’utente l’impiego di regole di prudenza e vigilanza che l’utente non abbia osservato perché a ciò indotto dal modo di presentare il prodotto.
Con l’introduzione del Codice del consumo, la normativa in materia di pubblicità ingannevole è contenuta nel titolo III agli articoli 19-27.
La disciplina di recepimento ha attribuito le funzioni di controllo dei messaggi ingannevoli all’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Sono ormai migliaia i provvedimenti con cui l’Autorità ha passato al vaglio i messaggi pubblicitari, dando non solo concreta attuazione alla direttiva ma estendendo le forme di tutela del disposto del testo legislativo [5].
Il controllo della pubblicità è divenuto uno dei settori di maggior lavoro dell’Autorità [6].
L’Autorità come ente pubblico ha ovviamente un ruolo molto importante anche rispetto al Giurì di autodisciplina. L’esame di un messaggio pubblicitario da parte dell’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP) non esclude che vi possa essere una successiva valutazione non conforme da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in quanto il d.lgs 74/92, pure prevedendo norme di coordinamento tra procedimento autodisciplinare e procedimento innanzi all’Autorità non pone disposizioni in merito alla conformità e non è, comunque, idoneo a far cessare l’obbligo dell’Autorità garante a valutare integralmente il messaggio nella versione in corso al momento della segnalazione.
Il principio che assiste l’Autorità nel controllo del messaggio è dato dalla sua idoneità a consentire al consumatore di operare scelte consapevoli: per tale ragione le informazioni devono essere chiare ed esaurienti [7].
L’Autorità ha svolto, infatti, in questi anni, un ruolo di nomofilachia [8]: e così perché sussista il pregiudizio l’Autorità ha ritenuto debbano ricorrere due situazioni:
che l’errore provocato dal messaggio pubblicitario debba essere in grado di indurre i destinatari a comportamenti che essi non avrebbero tenuto ove fosse stato loro correttamente prospettata la realtà del messaggio;
che tali comportamenti risultino economicamente svantaggiosi per il soggetto indotto in errore.
La pubblicità ingannevole nel Codice del Consumo, prima dei Decreti Legislativi 2 agosto 2007, n. 145 e n. 146.
Al fine di capire meglio la vera portata dei cambiamenti introdotti dall’Unione Europea, è opportuno porre l’attenzione sul disposto del Codice del Consumo e precisamente sulla sezione “Pubblicità e altre comunicazioni commerciali”, voluta fortemente dal legislatore italiano, il quale ha provveduto a distinguere e differenziare tali attività dalle restanti tipologie di tutela. All’interno di questa sezione del Codice del Consumo erano riportati quasi pedissequamente i contenuti della direttiva comunitaria 84/450/Cee e del Decreto legislativo 74/1992, ridotti, almeno da un punto di vista sistematico, nell’orbita del diritto dei consumatori.
L’articolo 19 [9] del decreto legislativo 206/2005, prima delle modifiche che sono state apportate per il recepimento della direttiva comunitaria 2005/29, conteneva la ratio legis dell’intera sezione del Codice dedicata alla pubblicità ingannevole e comparativa [10].
All’interno dell’articolo 20 del decreto si rinvengono tutte le definizioni [11] di pubblicità, da ingannevole a comparativa, che sono le medesime presenti nel decreto legislativo 74/1992. Le nozioni hanno dei margini interpretativi davvero ampi, tanto che qualsiasi tipologia di comunicazione può essere inclusa all’interno di questa classificazione: perfino la comunicazione istituzionale, in cui l’invito alla fruizione di un oggetto o di un servizio è solo indiretta, ad esempio, è stata inclusa tra i messaggi soggetti a giudizio dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato [12].
In linea con quanto modificato a partire dal 21 settembre 2007, inoltre, compaiono come elementi necessari alla definizione di un’attività scorretta l’idoneità della pubblicità a indurre in errore i destinatari di essa e l’idoneità a pregiudicare il comportamento economico del consumatore che riceve il messaggio.
Tra gli elementi che segnano una continuità, nonostante i cambiamenti degli ultimi anni, si rileva come in primis, le fattispecie di illecito previste dalla norma abbiano un carattere puramente oggettivo, dal momento che prescindono completamente dalle categorie colpevolistiche della colpa o del dolo [13], rendendo irrilevante l’intenzionalità del professionista a diffondere informazioni mendaci al fine di qualificare una pubblicità come ingannevole.
Prima dell’avvento del Codice del Consumo, infatti, la disciplina della pubblicità ingannevole era stata oggetto di interventi ripetuti e così l’emanazione del Libro verde sulla tutela dei consumatori nell’Unione europea (2001), uno dei primi interventi dell’Unione Europea che ha concentrato l’attenzione sulla massima protezione del consumatore verso tutte le pratiche sleali, ivi compresa l’informazione mendace, e l’armonizzazione della disciplina in materia di tutela del consumatore [14].
I dibattiti con le parti interessate, che siano stati enti o individui, hanno portato all’espressione di una serie di considerazioni importanti in termini sia politici che di carattere economico-giuridico. Il “Libro verde sulla tutela dei consumatori nell’Unione europea” introduce, infatti, la locuzione [15] di “comunicazione commerciale” che riguarda “tutte le forme di pubblicità, marketing diretto, sponsorizzazione, promozione delle vendite e relazioni pubbliche”. Queste attività, seppure non trovino una formalizzazione e una distinzione da un punto di vista tecnico, a livello giuridico, sono tutte accomunate dalla volontà di incentivare la circolazione dei beni e dei servizi nel mercato e quindi di fare pressione sul comportamento del consumatore.
Il Parlamento Europeo, avendo rilevato anche le numerose reazioni positive da parte delle imprese e delle organizzazioni dei consumatori nel seguito dato al “Libro verde sulla tutela dei consumatori nell’Unione Europea” dell’11 giugno del 2002, nell’aprile 2004 approvava la proposta di emendare una nuova direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali tra le imprese e il mercato interno. Il Parlamento, infatti, esaminando le indicazioni così come pervenute dalla Commissione, ne condivideva i principi di base: in ordine ai quali era necessario individuare un divieto generale per tutte quelle pratiche commerciali che rientravano nella definizione di slealtà, progettando la redazione di una lista, una black list, che riportasse esempi fulgidi di pratiche da considerarsi in ogni caso scorrette.
Tutti questi lavori “preparatori” portavano alla definitiva realizzazione della direttiva 2005/29/Ce [16] che solo nel 2007 è stata recepita nell’ordinamento italiano.
La direttiva oggetto di studio riguardava le pratiche commerciali il cui “intento diretto è quello di influenzare le decisioni di natura commerciale dei consumatori relative a prodotti”.
La direttiva, infatti, tutela direttamente gli interessi dei consumatori e solo indirettamente le attività che possono danneggiare i concorrenti. Ai sensi dell’art. 2 lett. D) la nozione di pratica commerciale scorretta proprio perché è da questa definizione che è possibile individuare le differenze, le modifiche e le eventuali integrazioni con il concetto di pubblicità e di comunicazione commerciale, è definita come “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posto in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita, fornitura di un prodotto ai consumatori”.
E’ chiaro che è difficile per il Diritto esprimere dei concetti legati al mondo aziendale nei canoni del linguaggio formale e giuridico, e per tale ragione il legislatore finisce per fornire delle classificazioni troppo ampie e di modesta utilità tecnica.
Infatti, aver accomunato nello stesso articolo termini quali marketing, comunicazione commerciale e pubblicità non aiuta chi legge ad individuare in modo semplice processi e funzioni distinte dell’intera attività d’impresa. Si nota, comunque, a partire dal 1984, in ambito europeo, fino al recepimento nel 2007 in Italia dell’ultima normativa, una graduale operazione di allargamento dei campi di protezione del consumatore, per cui si è passati dalla protezione, alquanto contestualizzata, di messaggio pubblicitario ingannevole ad un più totalizzante tentativo di copertura dell’intero processo negoziale fra il consumatore e l’imprenditore [17].
Una differenza importante tra le pratiche commerciali e le comunicazioni commerciali è rappresentata, dal fatto che sono diversi i soggetti che vengono considerati destinatari di queste stesse e di riflesso anche quelli che vengono tutelati.
Se prima del 2005, quindi, non sussisteva questa differenziazione, attualmente, invece, le pratiche commerciali attengono alla protezione del solo consumatore, mentre la direttiva del 1984 è stata modificata restringendo la disciplina della pubblicità ingannevole al controllo del rapporto dei soli professionisti.
L’art.14 della direttiva 2005/29 Ce, infatti, ha radicalmente cambiato l’art. 1 della 84/450 CEE che ora recita: “la presente direttiva ha lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali e di stabilire condizioni di liceità della pubblicità comparativa”.
La direttiva 84/450/CEE è stata, dunque, più volte modificata in modo sostanziale e, per ragioni di chiarezza e razionalizzazione, il legislatore europeo ha ritenuto opportuno emanare, in data 12 dicembre 2006, una nuova direttiva, la numero 114, “concernente la pubblicità ingannevole e comparativa”, in cui è stata codificata l’intera disciplina sulla pubblicità ingannevole e sulla pubblicità comparativa, contenente tutte le modifiche apportate nel corso degli anni, così da far ritenere abrogata la precedente direttiva del 1984.
Gli organi comunitari hanno previsto un “doppio termine” per il recepimento della direttiva 29/2005 Ce da parte degli stati membri dell’Unione Europea.
L’art. 19 della succitata direttiva stabiliva, infatti, che gli stati membri dovessero adottare e pubblicare entro il 12 giugno 2007 le disposizioni legislative indispensabili all’adeguamento dell’apparato normativo salvo poi applicarle e farle, dunque, entrare in vigore entro il termine ultimo del 12 dicembre 2007.
A partire, appunto, da quest’ultima data era prevista l’entrata in vigore del nuovo sistema comunitario delle “pratiche commerciali” sebbene le disposizioni dell’art. 19 [18] non siano state rispettate in modo omogeneo da tutti i Paesi considerando che nel mese di settembre del 2008 non si erano uniformati ai dettami comunitari né la Germania, né il Lussemburgo e né la Spagna. I legislatori di ogni stato membro dell’Unione Europea, comunque, si sono trovati di fronte a delle questioni importanti da risolvere per poter adeguatamente conformare il proprio ordinamento con quanto previsto dalla 2005/29 CE e, soprattutto, con poche opportunità di scelta, dal momento che la tensione ad armonizzare la dottrina in ogni paese aderente al patto, offriva loro ridottissimi margini di manovra e di autonomia [19].
Il recepimento della direttiva comunitaria 2005/29 in Italia.
La direttiva 2005/29 CE è stata recepita dal nostro Legislatore attraverso due distinti decreti legislativi, entrati in vigore nello stesso giorno, il 02/08/2007, rispettivamente il n. 145 e il n. 146, Il primo di questi decreti contiene la disciplina generale della pubblicità ingannevole e comparativa, in modo particolare le norme di recepimento della direttiva 84/450 CE, come modificata dalla 97/55/CE e dall’art. 14 della stessa direttiva 2005/29/CE. L’intitolazione di questo decreto, “Attuazione dell’articolo 14 della direttiva 2005/29/Ce che modifica le direttive 84/450/CEE, 97/7/CE, 2002/65/CE e il Regolamento (CE) n. 2006/2004 sulla pubblicità ingannevole”, porta erroneamente a credere che al suo interno possano essere stati inseriti esclusivamente gli articoli necessari all’adeguamento dell’ordinamento italiano alla normativa, mentre, in realtà, in esso è stato trasposto l’intero corpus che, in origine, era contenuto nel decreto legislativo 74 del 28 gennaio 1992 e già trasferito, in un primo tempo, negli articoli 18-27 del d.lgs. 206/2005, una trasposizione questa che ha stabilito la definitiva abrogazione del d.lgs. n.74/1992.
Nel decreto legislativo 146/2007 si rinvengono, invece, le disposizioni di recepimento degli articoli 1-13 e 15-17 della direttiva sulle pratiche commerciali sleali.
L’attuazione della direttiva 2005/29 Ce si è per così dire conclusa [20] con l’emanazione del d.lgs. del 23 ottobre del 2007, n. 211, che contiene le “Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206” poiché il Governo, sfruttando la delega conferita dall’art. 20 bis della legge 229/2003 [21] che conferiva il potere di modificare uno o più decreti legislativi per apportare correzioni e integrazioni, ha inserito gli articoli provenienti dal d.lgs. 146/2007 nel d.lgs. 206/2005.
Il legislatore Italiano ha deciso, infatti, di modificare i contenuti del Codice del consumo, estromettendo la disciplina sulla pubblicità ingannevole che prima era contenuta negli articoli 18-27 del d.lgs. 206/2005 e sostituire questi articoli con quanto disposto dalla normativa sulle pratiche commerciali sleali. Suscita perplessità, però, la collocazione delle disposizioni attuative degli articoli 1-13 della direttiva 2005/29/Ce nell’ambito del Titolo III della Seconda Parte del Codice del consumo intitolata “Educazione, Informazione e Pubblicità” poiché, dal momento che la definizione di “pratica commerciale”, come già più volte sottolineato, include qualsiasi condotta rivolta a promuovere l’acquisto di beni e servizi ai consumatori ed è indubitabilmente legata alla stipulazione di contratti, sarebbe stato più consono e più coerente, per una questione sistematica e contenutistica, inserire tali articoli nella Parte III del d.lgs. 206/2005 intitolata “Il rapporto di consumo”.
La soluzione più idonea sarebbe stata probabilmente quella di introdurre le nuove disposizioni nell’attuale Titolo II della Parte III, risolvendo contemporaneamente la questioni inerenti al precetto normativo proposto dall’art. 39 [22] che sarebbe stato, in questo caso, inglobato nelle modifiche in oggetto. L’articolo 39 del Codice del consumo, infatti, all’atto della redazione del d.lgs. 206 nel 2005, faceva già riferimento non ad atti o contratti, ma all’intera attività commerciale, non considerando l’esistenza di un rapporto contrattuale, e volendo tutelare il consumatore in ogni fase del processo di consumo.
Si crea, invece, con questa scelta, una sorta di commistione con la direttiva europea più volte citata tanto da poter ravvisare nell’articolo 39 una norma pensata dal legislatore nazionale per accogliere in modo più armonioso possibile la disciplina europea.
Le scelte del legislatore Italiano.
Nell’ordinamento italiano si è rispettata, dunque, la diversificazione di tutela imposta dalla comunità europea, dal momento che si è realizzato un sistema bipolare di protezione, uno riservato esclusivamente al consumatore, con il decreto legislativo 146/2007, e un altro che regola i rapporti con la concorrenza, sebbene la soluzione italiana presenti “un’indubbia originalità”. Se da un lato, infatti, la parte “sostanziale” delle pratiche sleali e della pubblicità ingannevole e comparativa risulti completamente uniforme ai precetti contenuti nelle due discipline e sono ben evidenti le differenze, non si può analogamente individuare un’autonomia da un punto di vista “procedimentale”, dal momento che la competenza ad accertare le violazioni è stata attribuita, di fatto, alla stessa Autorità garante delle concorrenza e del mercato. Natura, entità, tipologia delle sanzioni sono le medesime sia in un caso che nell’altro.
A causa di ciò, dunque, si riduce drasticamente la portata pratica di queste normative poiché, sebbene la divisione teorica resti senza dubbio, si porta a confondere su un piano squisitamente operativo le applicazioni e le delimitazioni delle singole discipline. Un’ulteriore sovrapposizione si verifica anche perché nel d.lgs. 146/2007, come riportato nell’art. 27 co. 2 del Codice del consumo, si prevede che sia concessa l’opportunità di chiedere l’intervento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato a chiunque ne abbia un interesse, che sia un singolo individuo o un’organizzazione. Questa condizione comporta che il professionista, i cui affari o la propria reputazione siano lesi da un comportamento concorrenziale scorretto riconducibile alla pubblicità ingannevole e/o a quanto tutelato dal decreto legislativo 145/2007, possa difendere i propri interessi appellandosi alla protezione offerta dal decreto legislativo 206/2005. Un’eventualità del genere non può considerarsi remota dal momento che è lecito che un imprenditore, piuttosto che ricorrere al giudice ordinario per far valere i propri diritti in base al codice di proprietà industriale o agli articoli 2598 – 2601 c.c., preferisca, in termini di spesa e di rapidità, grazie all’ “apertura” lasciata dal succitato articolo 27 co. 2, l’iter previsto dall’Antitrust [23].
Questa suddivisione e questo tentativo di concedere piena autonomia alla disciplina in esame, inoltre, per quanto non si voglia criticare in pieno l’impostazione del legislatore, appare poco funzionale poiché è difficilmente immaginabile il caso in cui una lesione del comportamento economico del consumatore non danneggi, a sua volta, un possibile concorrente.
È complesso individuare, infatti, ipotesi in cui possa trovare applicazione solo una delle due normative e, quindi, l’effetto più immediato di quella che può considerarsi come una sorta di idealizzazione legislativa, è il concretizzarsi di un surplus di procedure e di possibili rimedi che scaturiscono dallo stesso comportamento sleale [24].
Continuando la disamina che induce a porre l’attenzione sulle relazioni intercorrenti fra la disciplina delle pratiche commerciali scorrette e le altre norme con essa afferenti, è il caso di rilevare quali sono i meccanismi di tutela presenti nel codice civile che si attivano allorquando un consumatore non abbia stipulato ancora un contratto, ma si renda conto prima della sottoscrizione della presenza di un’attività commerciale non lecita.
Il consumatore, in questo caso potrà chiedere un risarcimento per ogni pratica chiaramente contraria alla buona fede pre-contrattuale, ma ovviamente, dal momento che non è stato sottoscritto nulla, non potrà richiedere misure di carattere invalidatorio.
Nel caso in cui la slealtà di un’operazione commerciale si attui in una condizione non definibile come “pre-contrattuale”, l’acquirente potrà far ricorso solo all’articolo generale della responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., seppur in questo caso diventerebbe complesso stabilire con assoluta certezza un nesso di casualità forte tra un comportamento economico errato di un individuo e un’eventuale trattativa non giunta neanche ad un livello che può intendersi come attività precontrattuale. In ultimo, è importante rilevare la scelta dal legislatore italiano di non avvalersi di alcune opzioni e deleghe concesse nella direttiva sulle pratiche commerciali scorrette.
La direttiva 2005/29/Ce autorizza, infatti, gli Stati membri a mantenere e/o a introdurre norme interne ed autonome [25] accordando, di riflesso, la creazione di un sistema normativo a “ragnatela”[26] e non piramidale che avrebbe origine grazie alla commistione fra fonti pubbliche di produzione del diritto e fonti private volte alla regolamentazione della stessa fattispecie. L’adozione di atti di autoregolamentazione è stata auspicata in più occasioni dalla Comunità Europea e, al considerando n. 20 della succitata direttiva, la previsione delle elaborazioni di norme di buona condotta da parte delle associazioni dei consumatori è tesa a confutare qualsiasi dubbio circa la potenziale parzialità dei codici deontologici proposti dalle imprese.
Secondo quanto previsto a livello comunitario, i presupposti per l’applicazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette inerenti ai codici deontologici sono tre: l’emanazione di un codice deontologico stesso da parte di un’azienda, l’indicazione in un’attività commerciale da parte del professionista di essere vincolato al rispetto delle norme autoimposte e che l’impegno assunto sia fermo e verificabile (si interpreta il termine fermo come impegno irrevocabile, assunto verosimilmente in forma scritta).
Quanto previsto dalla direttiva comunitaria non è in alcun modo menzionato nel decreto legislativo n. 146/2007 dal momento che si rileva solamente nell’art. 18 lett. f) del Codice del Consumo una definizione di codice di condotta, ma che ha una valenza del tutto marginale rispetto all’intero corpus normativo che si sta attualmente analizzando.
La direttiva europea 2005/29/CE, infine, lascia l’opportunità agli Stati membri di introdurre o mantenere “limitazioni e divieti motivati e giustificati per tutelare la salute e la sicurezza dei consumatori nel territorio in cui risiedono, quale che sia il luogo di stabilimento dei professionisti”, di inserire regole più severe nel settore che ha come oggetto i servizi finanziari o i beni immobili e di vietare pratiche commerciali che contrastano le regole di buon gusto o il decoro comunemente osservate dalla popolazione residente in uno degli Stati membri. Il legislatore italiano, ancora una volta e come già accaduto per i codici deontologici, non ha apportato modifiche alla direttiva comunitaria.
Va evidenziato, infine, che con l’art. 2 della Legge 23 luglio 2009 n. 99 è stata inserito un nuovo articolo: il 22 bis intitolato “La pubblicità ingannevole delle tariffe marittime”[27].
Il decreto legislativo n. 146/2007 e i nuovi articoli del Codice del Consumo.
Il legislatore italiano ha optato per l’utilizzo del termine “scorrette” in luogo di sleali per evitare qualsiasi confusione con la materia della concorrenza sleale, regolamentata dagli artt. 2598 – 2601 c.c.
Il capo del Codice del consumo, come modificato dal decreto legislativo 146/2007, propone nell’articolo 18 la definizione dei termini chiave e più ricorrenti nell’ambito della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette in cui è inserita, appunto, come già scritto in precedenza, la nozione di pratica commerciale stessa e quali ambiti tutela e regola. La definizione di pratica commerciale scorretta presente all’art. 18 lett. d) ricalca quella contenuta nell’articolo 2 lett. d) della direttiva comunitaria 29/2005, scelta senza dubbio coerente con la volontà del legislatore comunitario di armonizzare la disciplina. L’ampiezza della normativa si evince soprattutto sotto il profilo della natura giuridica della condotta vietata, “che può consistere tanto in dichiarazioni quanto in comportamenti materiali, tanto in omissioni; si apprezza poi sotto il profilo sostanziale, in quanto si richiede una semplice “relazione” fra la condotta e la promozione, la vendita o la fornitura di un prodotto ai consumatori”. La portata della norma è estesa anche perché, come si rinviene nell’articolo 18 lett. c, si intende per prodotto “qualsiasi bene, servizio, diritto e obbligazione”, offrendo, quindi, una definizione onnicomprensiva l’art. 18 alla lettera d) prevede l’inclusione di tutte le forme di promozione, di commercializzazione dei prodotti, sia vecchie che nuove, e ogni tipo di condotta che va dalla prima presa di contatto fra i soggetti coinvolti in un’operazione commerciale fino alla conclusione della stessa. Ricadono nella nozione di pratica commerciale, nello specifico, pertanto, sia i veri e propri messaggi pubblicitari sia quelle attività che, pur appartenendo al genus delle comunicazioni d’impresa, si tendono solitamente ad essere esclusi o distinti dal battage vero e proprio come, ad esempio, le sponsorizzazioni o quelle comunicazioni che hanno quale obiettivo primario quello di promuovere l’immagine e la reputazione dell’inserzionista e incitare all’acquisto in maniera indiretta.
Tra i concetti più rilevanti presenti nell’articolo 18 del d.lgs. 206/2005 è da citare quello di “diligenza professionale” il quale, proprio a causa della vaghezza definitoria con il quale è stato descritto dal legislatore, merita un ulteriore approfondimento. L’articolo 18, lett. h, del d.lgs. 206/2005 propone la diligenza professionale come “il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista” Si palesa, anche in questo caso, una difficoltà interpretativa simile a quella che si è già affrontata per l’art. 39 del Codice del Consumo e per l’art. 5 lett. a) della direttiva comunitaria 2005/29, dal momento che se buona fede e correttezza possono essere considerati sinonimi e afferiscono ad un preciso obbligo di trasparenza e lealtà in qualsiasi relazione fra persone al di là di ogni vincolo normativo, la diligenza, invece, si muove nell’ottica di misurare l’impegno profuso da uno dei due contraenti per soddisfare le esigenze di un altro soggetto sempre in relazione alle promesse effettuate e alle aspettative minime che è lecito attendersi.
Per quel che concerne, dunque, la buona fede oggettiva e la correttezza è legittimo riferirsi a quanto previsto dall’art. 2 della Costituzione in cui si “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” poiché in tal modo si vincolano tutte le parti di un contratto ad agire onestamente non in virtù di clausole o penali, ma per un generale dovere extracontrattuale di non danneggiare l’altrui interesse.
Nel d.lgs. 146/2007, però, si offre una visione più estesa del concetto di diligenza professionale in cui non solo si ribadisce l’accuratezza con cui si adempiono gli obblighi assunti, ma si inserisce in tale definizione anche l’aspetto essenzialmente solidaristico che mira ad una protezione giuridica totalizzante della controparte.
Si nega, anche, che l’art. 18, lett. h) del Decreto legislativo 206/2005 possa fare riferimento a un concetto di diligenza, prudenza e perizia la cui mancata adozione consente di qualificare come colposa, in base all’art. 2043 del codice civile, la condotta del soggetto che danneggi un altro individuo con le proprie azioni. La contrarietà alla diligenza professionale non va mai ricollegata alla colpa come elemento soggettivo dell’illecito civile [28], bensì è una nozione che vanta la propria autonomia rispetto a quanto previsto dal codice civile e che trova una sua particolare applicazione in merito alla disciplina delle pratiche commerciali scorrette.
Il criterio della aspettativa di un comportamento ragionevole dell’imprenditore da parte del consumatore introduce in questa definizione di diligenza professionale un’ulteriore alea di incertezza che in sede di applicazione della normativa può dar luogo ad interpretazioni ampiamente discrezionali.
La definizione di diligenza professionale così come introdotta nell’ordinamento italiano dal nostro legislatore presenta alcune differenze con quanto proposto in sede comunitaria dalla direttiva 2005/29 dal momento che l’art. 2 lett. h) osserva la diligenza professionale “rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista, il normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori”. Si evince facilmente, mettendo a confronto l’art. 2 lett. h) e il succitato art. 18 lett. h) del Codice del Consumo, come le differenze siano palesi. In primis, la competenza e l’impegno, che devono essere posti in essere per dar origine ad una pratica commerciale lecita, non sono misurati in base a ciò che è onesto attendersi da parte di un professionista secondo un’ottica di un consumatore, così come espresso nell’ordinamento italiano, bensì si stima quale sia il comportamento giusto di un professionista.
Nel caso dell’art. 18 e delle discrepanze con la direttiva europea è lecito chiedersi se, in un’ottica di armonizzazione completa, le modifiche apportate dal nostro legislatore possano essere considerate in netto contrasto con la norma comunitaria e se, in futuro, potrebbe essere intrapresa una procedura di infrazione nei confronti dello Stato Italiano. Se da un lato è pur vero che l’art. 18 del decreto legislativo 206/2005 contiene solo una definizione generica rispetto alla quale non è improbabile che si accordino margini di discrezionalità in vista di un’applicazione concreta in altri articoli più rispondenti alla direttiva 2005/29, dall’altro il concetto di diligenza professionale rappresenta un elemento costitutivo fondamentale della nozione di base delle pratiche commerciali sleali e, dunque, la Corte di Giustizia europea potrebbe essere spinta ad analizzare tale situazione e valutare la conformità della scelta italiana rispetto alla direttiva [29].
Conclusioni
Alla luce del breve excursus riportato in queste pagine sulla pubblicità ingannevole, pare doveroso fare alcune considerazioni finali in ordine ai profili evolutivi della tutela dalla pubblicità ingannevole
In una dimensione sociale globalizzata come la nostra, assumono un ruolo fondamentale i poteri di controllo e sanzionatori attribuiti all’AGCM, ciò in quanto il potere veicolativo del messaggio pubblicitario è tanto più forte quanto il soggetto che vuole diffondere quel messaggio ha disponibilità economiche e/o di mezzi di diffusione.
Per tale ragione, oggi dove la comunità riceve quotidianamente decine di migliaia di messaggi data la diffusione dei mezzi di informazione e la sollecitudine con cui vengono diffuse le informazioni, tra quotidiani, televisione, volantinaggio, internet, messaggi sul cellulare si corre il rischio di credere che un determinato prodotto possa essere indispensabile solo per il continuo palesarsi della sua promozione. Naturalmente, laddove il prodotto fosse davvero utile e fossero risaltate le sue reali qualità non vi sarebbe alcun problema, il problema sussiste quando di un prodotto vengono esaltate qualità che, invece, non possiede e quando lo stesso viene acquistato solo per la soggezione da parte dell’acquirente alla pubblicità effettuata, con la sua conseguente insoddisfazione.
Proprio in virtù di tale constatazione è necessario che gli organi preposti, siano sempre pronti ad intervenire per punire, o quantomeno per arginare il fenomeno.
Paradossalmente, oggi le informazioni più complete e più veritiere si hanno negli acquisti che si effettuano sul web, dove benché le parti non si conoscano, il venditore è tenuto ( secondo quanto disposto dal d. lgs 70/2003)) a fornire tutta una serie di informazioni che nelle altre realtà quotidiane non sono fornite. Sembrerebbe, pertanto, opportuno tenere con la dovuta osservazione la disciplina prevista su internet, per una futura maggiore tutela della società contro i messaggi ingannevoli
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Note
[1] Così Guido Alpa in “Introduzione al diritto dei consumatori”, Editori La terza, pag. 86.
[2] Così “Commentario al Codice del Consumo” di Sciancalepore – Stanzione, pag. 102, IPSOA 2008
[3] Tale direttiva viene considerata “un testo normativo estremamente generico, dal momento che si limita ad indicare, secondo formule generali, gli strumenti tramite i quali gli stati membri possono sanzionare le fattispecie di pubblicità ingannevole nell’interesse sia dei consumatori che del pubblico in generale. La disciplina comunitaria definisce “ingannevole” la pubblicità che induca o sia atta ad indurre in errore i suoi destinatari, ma non prende in considerazione né la pubblicità scorretta, né quella comparativa, inizialmente previste nelle prime bozze del testo”: così opera appena citata pag. 107.
[4] Tale Decreto è intitolato:“Attuazione della Direttiva 84/450/CEE, come modificata dalla direttiva 97/55/CE, in materia di pubblicità ingannevole e comparativa”.
[5] Così Alpa, opera citata pag. 96
[6] Nella relazione del 1997 si sottolinea che lo sviluppo degli investimenti pubblicitari nel nostro paese aveva avuto una crescita fortissima , ed il 60% degli stessi è stato investito nei messaggi trasmessi con il mezzo televisivo. Gli interventi dell’autorità hanno riguardato il settore finanziario, le telecomunicazioni, i prodotti alimentari, i prodotti parafarmaceutici ed i cosmetici, i servizi di distribuzione commerciale, le vendite a distanza, il settore turistico, la pubblicità occulta. L’ambito di controllo è molto esteso. L’autorità è stata particolarmente severa per i messaggi relativi ai servizi finanziari, settore nel quale l’alto tecnicismo impone una maggior trasparenza del messaggio, posto che il consumatore risparmiatore è in posizione subalterna, ignaro del linguaggio tecnico e facilmente esposto agli affidamenti suscitati da questo. Per ragioni di ripartizione delle proprie competenze rispetto a quelle riservate alla Consob, l’Autorità non è intervenuta sui messaggi autorizzati in via preventiva dalla Consob.
[7] Il messaggio di per sé deve essere sufficiente ad informare il pubblico e non può essere integrato successivamente, con rinvio al prospetto o ad altri documenti.
[8] Così Alpa, opera citata, pag. 99.
[9] L’articolo 19 del Codice del Consumo, nella versione non modificata, recitava: “Le disposizioni della presente sezione hanno lo scopo di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali i soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari, nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”. Oggi, invece, la normativa sulla pubblicità ingannevole disciplinata in questa sede, tende ad offrire una protezione onnicomprensiva: tutela, infatti, non solo l’acquirente che può compiere scelte che altrimenti non avrebbe mai preso, ma anche quanti agendo nello svolgimento della propria attività commerciale non sono definibili come consumatori e sono suscettibili, in egual modo, di essere vittime di attività decettive. Si garantisce, in questo modo, protezione ai soggetti impegnati nell’ultima fase del contatto con l’utente finale, ai fornitori e a tutti gli intermediari che lavorano all’interno della filiera produttiva. Tali considerazioni determinano che, almeno da un punto di vista soggettivo, questa disciplina non coincide esclusivamente con il diritto dei consumatori poiché è applicabile a più tipologie di contratti, da quelli di consumo a quelli d’impresa.
[10] Cfr. S. Sica, V. D’Antonio, “Pubblicità ingannevole e comparativa”, in “Commentario del Codice del consumo – inquadramento sistematico e prassi applicativa”, a cura di P. Stanzione, G. Sciancalepore, 2006, Ipsoa, p. 104.
[11] L’Articolo 20 del Decreto Legislativo 206/2005 assume le stesse funzioni che assurge l’articolo 18 nel Codice del consumo come modificato dai decreti 145/2007 e 146/2007.
[12] Così come sono incluse anche le sponsorizzazioni, le televendite e le telepromozioni. Sono escluse, invece, da questo elenco i messaggi diffusi senza scopo di lucro o la pubblicità sociale appartenente alla categoria di advocacy. La diffusione del messaggio, invece, trattandosi di forme di battage pubblicitario è conditio sine qua non per la formazione dell’illecito.
[13] Cfr. S. Sica, V. D’Antonio, Pubblicità ingannevole e comparativa, in op.cit, p. 112.
[14] Il legislatore europeo ha costatato, infatti, che le divergenze fra le leggi degli stati membri, in questo settore, rappresentavano il maggior deterrente per uno sviluppo consono del commercio sia per gli imprenditori che per gli acquirenti. Gli imprenditori erano costretti ad adottare prassi commerciali e campagne pubblicitarie difformi in relazione al paese di riferimento adeguandone, di volta in volta, contenuti e promozioni, con un dispendio di risorse davvero troppo oneroso. Si è osservato, invece, che a frenare i consumatori ad effettuare acquisti al di fuori della propria nazione d’origine erano l’inesperienza e l’ignoranza delle leggi vigenti in altre realtà. La soluzione più idonea, quindi, per porre fine a tali problematiche si è rivelata quella di uniformare le leggi degli stati e quella di ottenere una disciplina quanto mai omogenea.
[15] Cfr. E. Minervini, L. Rossi Carleo (a cura di), Le pratiche commerciali sleali, Giuffrè, Milano, 2007, pag. 30.
[16] La direttiva può, per semplicità d’analisi, dividersi in due parti: la prima parte che interessa gli articoli 2-13 e che contiene la nuova regolamentazione delle pratiche commerciali sleali, mentre la seconda parte prevede la modifica di alcuni provvedimenti comunitari già vigenti, come la direttiva sulla pubblicità ingannevole del 1984 e quella sulla pubblicità comparativa.
[17] Viene definita pratica commerciale scorretta “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posto in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita, fornitura di un prodotto ai consumatori”. A differenza di quanto stabilito dall’articolo 2 let. d del 2005/29CE in cui la pratica commerciale è tale se direttamente connessa alla promozione e alla vendita, il legislatore italiano ha preferito utilizzare la dicitura “in relazione a” per includere in questo articolo qualsiasi atto del professionista idoneo a incidere nella sfera del consumatore, seppur di riflesso. Lasciare quanto previsto della direttiva europea, infatti, avrebbe potuto comportare l’esclusione dal novero delle pratiche commerciali determinati atti di concorrenza sleale come ad esempio il boicottaggio o l’abuso di posizione dominante.
[18] Tale articolo così dispone: “Gli stati membri adottano e pubblicano le disposizioni legislative regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro il 12 giugno 2007. Essi ne informano immediatamente la Commissione e comunicano senza indugio a quest’ultima ogni eventuale successiva modifica. Essi applicano tali disposizioni entro il 12 dicembre 2007. Quando gli Stati membri adottano tali disposizioni, queste contengono un riferimento alla presente direttiva o sono corredate di un siffatto riferimento all’atto della pubblicazione ufficiale. Le modalità di tale riferimento sono stabilite dagli Stati membri”.
[19] Il problema principale si è palesato all’atto di scegliere tra la creazione di un corpus normativo unitario, organicamente inserito all’interno di preesistenti leggi nel quale introdurre quindi le modifiche della direttiva, oppure di dare vita a due discipline separate (una per la tutela del consumatore dalle pratiche commerciali sleali e un’altra che proteggesse i concorrenti dalla pubblicità ingannevole o dalla scorretta pubblicità comparativa). Un’altra questione di primaria importanza, inoltre, è rappresentata dalla necessità di concordare qualsiasi trasformazione dell’ordinamento con le leggi vigenti in materia di concorrenza sleale e di tutela dei consumatori e che in Italia, ad esempio, riguardano, per la prima ipotesi, gli articoli 2598-2601 del codice civile mentre, per la seconda, il decreto legislativo 206/2005 in cui è contenuto il Codice del Consumo.
[20] Il recepimento della direttiva europea da parte del legislatore italiano non è stato esente da critiche poiché, in alcune occasioni, si è limitato a riportare nel nostro ordinamento termini che possono ritenersi appropriati se utilizzati in ambito comunitario, senza provvedere ad adattarli alle peculiarità dell’ordinamento nazionale e con scarsa armonia con le previgenti leggi afferenti con tale disciplina.
[21] “Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione” – “Legge di semplificazione 2001”.
[22] L’articolo 39 del d.lgs. 206/2005 recita: “ le attività commerciali sono improntate al rispetto dei principi di buona fede, di correttezza e di lealtà, valutati anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori”. I principi di buona fede, correttezza e di lealtà rappresentano dei sinonimi, ma il problema si pone allorquando si vuole interpretare questa norma in relazione alla direttiva sulle pratiche commerciali sleali e alla singolare contaminazione che la 2005/29/Ce opera tra buona fede oggettiva, ragionevolezza e diligenza nell’art.5, comma 2, lettera a. Per il diritto italiano, infatti, diligenza e buona fede oggettiva non sono certamente dei sinonimi ed è addirittura sconosciuta la definizione di ragionevolezza se non per alcune eccezioni (art.117 del codice del Codice del Consumo). Il unto debole dell’art.39, come si evince facilmente, è la totale assenza di sanzioni. Cfr. E. Minervini, L. Rossi Carleo (a cura di), op. cit, p. 80.
[23] Cfr. Cass. Civ., S.U., sent. n. 794 del 9 maggio 2009.
[24] Oltre alla succitata problematica relativa alla possibile dislocazione della disciplina delle pratiche commerciali e dei rapporti concorrenziali in più ambiti normativi, è utile capire anche come le scelte del legislatore, nell’applicare la direttiva 2005/29/Ce, abbiano influito in settori normativi affini e preesistenti alle modifiche che si sono stabilite nel corso di questi ultimi due anni. Sono palesi, infatti, le interferenze con la teoria del contratto e quelle con la responsabilità civile dal momento che le pratiche commerciali mirano a tutelare. Tutti i rapporti posti in essere “prima, durante e dopo” un’operazione commerciale assimilando, di conseguenza, sotto la propria tutela qualsiasi trattativa fino all’adempimento di tutte le clausole contrattuali. L’articolo 19 del d.lgs. 206/2005 permette di affermare, dunque, che non è necessario che un’operazione commerciale giunga a compimento per poterla definire come una pratica commerciale scorretta, bensì è sufficiente che questa stessa sia atta ad alterare o modificare, facendo leva su escamotage ingannevoli, le capacità decisionali del consumatore medio, pregiudicandone negativamente il comportamento economico. Quando il consumatore stipula il contratto può solo ricorrere a rimedi di carattere invalidatorio che gli consentano di svincolarsi da quanto sottoscritto e richiedere, ove ce ne sia la possibilità, eventuali risarcimenti danni. Nell’ambito del codice civile e quindi non facendo riferimento per il momento alle pratiche commerciali sleali e al decreto legislativo 206/2005, si può ricorrere all’articolo 1418 che rende nullo un contratto qualora la violazione del contratto stesso rifletta la trasgressione di una norma imperativa e concretamente nel non rispetto di quanto previsto dall’articolo 1325 c.c. (l’accordo delle parti, causa, oggetto e la forma se prescritta dalla legge sotto pena di nullità) o per l’assenza nell’oggetto delle indicazioni richieste dall’art. 1346 del codice civile. Questa condizione porta a riflettere che un contratto, però, potrebbe essere redatto senza alcun vizio di forma, ma rappresentare comunque una pratica commerciale scorretta nei confronti del consumatore in base a quanto disposto dagli artt. 20 co.1, e 18, let d) ed e) del Codice del Consumo. L’introduzione nel corpus normativo italiano della nozione di pratica commerciale scorretta fa sì che un presupposto di illiceità contrattuale non è da rintracciarsi esclusivamente nelle parti sostanziali che caratterizzano la formazione di un contratto, bensì anche ad un fattore esterno alla pattuizione stessa e cioè la volontà dell’acquirente il quale deve essere libero e consapevole prima di accettare qualsiasi proposta. La disciplina regolata dal decreto legislativo 206/2005, quindi, se analizzata sotto questi determinati aspetti, presenta molti punti di analogia con la teoria del contratto e ciò porta a stabilire che, qualora il Codice del consumo non dovesse coprire tutte le pratiche commerciali scorrette e non presentasse soluzioni per dei casi specifici, il consumatore sarebbe ugualmente tutelato dalle norme precedentemente previste nel codice civile e potrebbe appellarsi ad un vizio di volontà per ottenere l’annullamento del contratto o parte di esso.
[25] Art. 3, § 8 della direttiva comunitaria 2005/29 afferma che: “la presente direttiva non pregiudica le eventuali condizioni relative allo stabilimento, o ai regimi di autorizzazione, o i codici deontologici di condotta o altre norme specifiche che disciplinano le professioni regolamentate, volti a mantenere livelli elevati di integrità dei professionisti, che gli Stati membri possono, conformemente alla normativa comunitaria, imporre a questi ultimi”.
[26] Cfr. F. Pinto, I codici deontologici e la direttiva 2005/29/Ce, in Minervini – Rossi Carleo (a cura di), Le pratiche commerciali sleali, cit, pag. 220 ss.
[27] L’articolo così dispone: “E’ considerata ingannevole la pubblicità che, riguardando le tariffe praticate da compagnie marittime che operano sul territorio italiano direttamente o in code-sharing, reclamizzi il prezzo del biglietto dovuto alla compagna marittima separatamente dagli oneri accessori, dalle tasse portuali e da tutti gli oneri comunque destinati a gravare sul consumatore, dovendo la compagnia marittima pubblicizzare un unico prezzo che includa tutte queste voci.
[28] Cfr. De Cristofaro, op.cit, p.150, nota 13. “osservatore” terzo, neutro ed esterno non considerando il parere dell’acquirente al quale è rivolta l’operazione commerciale stessa.
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