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Il legislatore interviene nuovamente sul riparto di competenze tra Agcom e Autorita di settore in merito all’applicazione delle pratiche commerciali scorrette: la soluzione definitiva?

di Gilberto Nava Abstract  The Italian Government has intervened, subsequently to infringement proceedings launched by the European Commission, in order to define the division of competences between the Competition Authority and the national authorities responsible for the sectorial regulation in accordance with the principle of specialty required by Directive 2005/29/EC. The article analyzes the consistency of legislative news with EU and constitutional principles, extends issues involved with certain implementing rules and puts forward a new solution by means of legislation. Il legislatore italiano è intervenuto, in pendenza di una procedura di infrazione della Commissione europea, allo scopo di definire il riparto di competenze tra l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e le Autorità nazionali preposte alla regolamentazione settoriale secondo il principio di specialità previsto dalla direttiva 2005/29/CE. Il contributo analizza la coerenza della novella legislativa con i principi comunitari e costituzionali, approfondisce le problematiche di alcune modalità applicative e propone una nuova soluzione in via legislativa. Sommario:

  1. Il nuovo intervento del legislatore.
  2. La procedura di infrazione.
  3. Il principio di specialità e il ruolo delle Autorità di regolamentazione nella tutela del consumatore/utente.
  4. Il primo intervento del legislatore finalizzato a dirimere il conflitto di competenza.
  5. La novella legislativa sul riparto di competenza.
  6. La proposta de iure condendo di un nuovo (e auspicabilmente dirimente) intervento legislativo.

 

1. Il nuovo intervento del legislatore. 

A valle di un lungo ed articolato percorso giurisprudenziale e legislativo che cercheremo di sintetizzare di seguito, il legislatore nazionale è intervenuto cercando di dirimere la problematica relativa al riparto delle competenze tra Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) e Autorità di settore in merito all’applicazione delle pratiche commerciali scorrette inserendo un nuovo comma 1-bis dell’articolo 27 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (codice del consumo) introdotto dal d. lgs. 21 febbraio 2014 n. 21 recante l’attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori[1] [2]. La nuova norma che disciplina il riparto di competenze in materia di pratiche commerciali scorrette recita come segue: “anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolamentazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell’autorità di regolamentazione competente. Resta ferma la competenza delle autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolamentazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta. Le autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze”. La modalità adottata dal legislatore nazionale potrebbe rappresentare, più in generale, un approccio per dirimere la più ampia tematica del riparto di competenze tra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) e le autorità di regolamentazione settoriale nella tutela armonizzata del consumatore introdotta dalla direttiva 2011/83/UE, ma tale analisi appare esorbitante l’oggetto del presente contributo.

2. La procedura di infrazione.

La motivazione sottesa all’intervento del legislatore nell’ambito del decreto legislativo che attua la direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori viene giustificata in virtù della finalità di superare la procedura di infrazione n. 2013/2169 che era stata avviata dalla Commissione europea nei confronti dello Stato italiano, relativamente ai conflitti di competenza e a presunte lacune applicative della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette nei mercati regolati. Con la lettera di messa in mora del 17 ottobre 2013 la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano innanzitutto per l’interpretazione adottata dalla giustizia amministrativa, con le citate sentenze dell’Adunanza Plenaria, del principio di specialità e quindi del rapporto di coesistenza tra disciplina generale in tema di pratiche commerciali scorrette dettate dalla direttiva 2005/29/CE e le direttive settoriali che disciplinano, in modo “speciale”, anche la tutela dei consumatori, violando, quindi il carattere di armonizzazione piena della direttiva e non garantendo la sua corretta applicazione In particolare la lettera di messa in mora al Governo Italiano in merito ai citati interventi legislativi e giurisprudenziali sottolinea che l’interpretazione del criterio di specialità seguita dal legislatore nazionale e dalla giurisprudenza amministrativa implicasse una incompleta attuazione della Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali. Nella lettera di messa in mora la Commissione ha sottolineato che, in base al criterio della lex specialis di cui all’art. 3, comma 4, Direttiva 2005/29/CE, le disposizioni settoriali prevalgono sulla normativa in materia di pratiche commerciali scorrette solo se: “1. posseggono lo status di legislazione dell’Unione (cioè sono norme nazionali che recepiscono norme dell’Unione); 2. disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali; 3. vi è un contrasto la tra la [direttiva 2005/29/CE] e norme settoriali specifiche”. Su quest’ultimo punto, la Commissione Europea ha chiarito che, diversamente da quanto stabilito dall’Adunanza Plenaria, il termine “contrasto” fa riferimento all’opposizione o all’incompatibilità tra norme e che, quindi, la mera esistenza di una normativa speciale non è sufficiente a escludere la normativa in materia di pratiche commerciali scorrette in quanto le norme settoriali prevalgono sulla disciplina delle PCS soltanto qualora gli aspetti specifici previsti nella direttiva 2005/29/CE siano incompatibili mentre i requisiti informativi previsti dalla disciplina settoriale, qualora non siano conflittuali, debbono aggiungersi ai requisiti generali imposti ai professionisti. Invero l’interpretazione adottata in questa occasione dalla Commissione esplicita in modo ancora più estensivo quanto affermato dalla stessa Commissione nel primo rapporto della Commissione europea sull’attuazione della Direttiva 2005/29/CE (COM(2013)0139) nel quale la complementarietà delle due discipline veniva interpretata non solo come “rete di sicurezza” finalizzata a colmare le lacune nel regime di tutela non disciplinate dalla lex specialis. In altri termini la vis espansiva della direttiva 2005/29/CE non si limiterebbe a colmare le lacune della normativa speciale, ma si affiancherebbe ponendo ulteriori oneri agli obblighi informativi ritenuti sufficienti dalla regolamentazione settoriale (anch’essa di matrice comunitaria) ed imponendo in capo al professionista un duplice regime informativo, anche qualora l’Autorità di settore, delegata a regolare, vigilare e sanzionare l’operato dei professionisti del settore, abbia legittimamente ritenuto sufficiente un diverso grado o un diverso tipo (non incompatibile) di onere informativo. Secondo questa interpretazione della Commissione, che meriterebbe un vaglio giurisprudenziale, non solo il legislatore comunitario risulterebbe avere un comportamento “strabico” poiché affida a due diversi organismi e a due plessi normativi la “regolazione” (ex ante o tramite procedimenti sanzionatori) dei medesimi comportamenti commerciali dei professionisti, ma sottoporrebbe in modo discriminatorio le imprese dei mercati regolati e vigilati da Autorità settoriali ad un doppio regime informativo a tutela dei consumatori, presidiato da diversi obblighi operativi e strumenti inibitori e sanzionatori. Inoltre, con riferimento al settore delle comunicazioni elettroniche, la Commissione ha rilevato che “le norme dell’UE applicabili al settore delle comunicazioni elettroniche, come recepite in Italia, non regolino in modo esaustivo le pratiche commerciali sleali in questo settore” (sebbene contengano norme sul contenuto dei contratti tra consumatori/utenti e professionisti, pongano obblighi di pubblicazione delle informazioni e di trasparenza e vincoli sulla qualità e disponibilità dei servizi offerti al pubblico), con il conseguente rischio di un vuoto di tutela in relazione alle condotte del settore delle comunicazioni elettroniche che non ricadano nell’ambito applicativo delle norme settoriali. Come vedremo esaminando le sentenze dell’Adunanza Plenaria, questo rilievo della Commissione non risulta privo di fondamento rispetto al principio di “specialità per ordinamento” accolta dal Supremo collegio con le citate sentenze. La Commissione stigmatizza, inoltre, la mancata attuazione nell’ordinamento italiano dell’art. 2, paragrafo 4 della Direttiva Servizio Universale che prevedeva l’applicabilità residuale delle norme comunitarie in materia di tutela dei consumatori a causa dell’abrogazione dell’art. 70, comma 6 del Codice delle comunicazioni elettroniche (CCE) da parte del d.lgs. n. 70/2012 che ha recepito le direttive del 2009, modificative del quadro regolamentare comunitario del settore. La Commissione contesta, infine, l’adozione da parte del legislatore italiano dell’articolo 23, comma 12 quinquiesdecies del d.l. n. 95/2012, convertito con la legge n. 135/2012, in quanto avrebbe “legificato” la posizione espressa dal Consiglio di Stato. Sul tema rinviamo all’analisi del successivo § 4. Esaminando a ritroso le ragioni fondanti dell’attuale novella legislativa, approfondiamo di seguito le sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del maggio 2012. L’ulteriore aspetto oggetto della procedura di infrazione riguarda l’applicazione da parte del giudice amministrativo nazionale del principio di specialità e, in particolare, il presunto profilo di infrazione trae origine dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 11-16 del maggio 2012[3] con le quali è stata dichiarata l’incompetenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), nell’applicazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette (artt. 21 e ss. Codice del Consumo) nei settori in cui la tutela del consumatore è attribuita ad un’autorità regolamentare, in presenza di determinate condizioni. La questione affrontata dall’Adunanza Plenaria ha riguardato, con l’eccezione della sentenza n. 14 relativa alle competenze di Banca d’Italia, il riparto di competenze tra AGCM e Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) in materia di tutela del consumatore nel settore delle comunicazioni elettroniche. L’AGCM aveva infatti fino ad allora costantemente applicato le proprie competenze in materia di pratiche commerciali scorrette (stabilite dagli artt. 18 e ss. del Codice del Consumo) adottando provvedimenti sanzionatori (e, in concreto, esercitando surrettiziamente un potere regolamentare) anche nei confronti degli operatori di comunicazioni elettroniche che, invece, avevano più volte proposto ricorso in sede di giurisdizione amministrativa chiedendo la declaratoria di incompetenza dell’AGCM a favore di quella dell’AGCOM. Negli ultimi giudizi dinanzi al giudice amministrativo si era costituita anche AGCOM che aveva sostenuto la propria competenza a disciplinare le materie a tutela dei consumatori ai sensi delle specifiche competenze attribuite dalle direttive comunitarie settoriali. Al riguardo, l’Adunanza Plenaria ha rilevato, innanzitutto, che il legislatore comunitario aveva attribuito all’AGCOM anche un’ampia competenza in materia di tutela del consumatore, che trova la propria base nel Codice delle Comunicazioni Elettroniche (ed in particolare nei principi generali contenuti all’artt. 4 e 13 nonché nelle previsioni specifiche dell’art. 70 e ss. del d.lgs. n. 259/2003) e, soprattutto, aveva ricevuto concreta attuazione con la Delibera AGCOM n. 664/06/CONS, che aveva declinato compiutamente gli obblighi di comportamento gravanti sugli operatori di settore nella contrattazione a distanza. Alla luce della compresenza di competenze di entrambe le Autorità in materia di tutela del consumatore, occorreva perciò verificare come si dovesse applicare il citato art. 19, comma 3, del Codice del Consumo (analogamente all’art. 3, comma 4, Direttiva 2005/29/CE) che prevedeva che “in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”. Secondo il Supremo Collegio, il presupposto dell’applicabilità della norma di settore non può essere tuttavia individuato solo in una situazione di vera e propria antinomia normativa tra disciplina generale e speciale (il “contrasto” di cui parla la norma citata), ma semplicemente di “diversità di disciplina” anche in presenza di una situazione di specificità della normativa di settore (nel caso di specie, quella di AGCOM) rispetto a quella generale: […] la voluntas legis appare essere quella di evitare una sovrapposizione di discipline di diversa fonte e portata, a favore della disciplina che più presenti elementi di specificità rispetto alla fattispecie concreta. In altre parole, la disciplina generale va considerata quale livello minimo essenziale di tutela, cui la disciplina speciale offre elementi aggiuntivi e di specificazione”. In termini analoghi, lo stesso Consiglio di Stato si era già espresso in sede consultiva nel parere n. 3999 del 2008, richiesto da AGCM in merito al riparto di competenza nella tutela del consumatore nel settore dei servizi finanziari, giungendo alla conclusione che al fine dell’applicazione del principio di specialità occorre fare riferimento “al tipo di comportamento e soprattutto alla situazione contestuale verso cui l’intervento correttivo o sanzionatorio è diretto; più che al tipo di operatore coinvolto si deve avere riguardo alla materia su cui i due possibili interventi vanno ad incidere, vale a dire – laddove esista un contesto distinto i cui operatori agiscono secondo regole e pratiche di sistema – al settore su cui l’intervento va dispiegato.” Da questa applicazione del principio di specialità i supremi giudici amministrativi avevano desunto che “non sussiste la competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, mentre sussiste quella della Commissione nazionale per le società e la borsa ad intervenire riguardo alla scorrettezza delle condotte degli operatori del settore finanziario e ad irrogare le inerenti sanzioni”. In entrambi i casi i giudici avevano adottato una interpretazione del concetto di specialità richiamato dalla Direttiva che, da un iniziale riconoscimento della natura di complementarietà della normativa speciale rispetto a quella generale, era pervenuto ad affermare una complementarietà per ordinamenti (detta anche per settori) e non per norme. Il passaggio successivo del ragionamento del Supremo Collegio, al fine di eliminare alla radice i rischi di sovrapposizione dell’azione amministrativa e la reiterazione della violazione del principio cardine del ne bis in idem, era stato quello di escludere la competenza generale dell’AGCM dimostrando l’esaustività e la completezza della normativa di settore. Nel caso di specie, il comportamento che era contestato all’operatore risultava interamente disciplinato dalle norme di settore (a cui peraltro l’AGCM nei propri diversi provvedimenti impugnati aveva espressamente fatto riferimento): “[…] non v’è chi non veda come, anzitutto, la disciplina recata da quest’ultimo corpus normativo [i.e. Codice delle comunicazioni elettroniche e provvedimenti attuativi/integrativi adottati da AGCOM], presenti proprio quei requisiti di specificità rispetto alla disciplina generale, che ne impone l’applicabilità alle fattispecie in esame. Ma ciò evidentemente non basta: per escludere la possibilità di un residuo campo di intervento di Antitrust occorre anche verificare la esaustività e la completezza della normativa di settore”. Secondo l’Adunanza Plenaria, inoltre, il rischio di lacune o deficit di tutela è inoltre scongiurato dalle clausole generali contemplate dalla disciplina di settore (principi di buona fede e di lealtà della delibera 664/06/CONS) e dalla norme in materia di tutela del consumatore richiamate dall’art. 70, comma 6 CCE. Sebbene la volontà dei giudici di individuare una norma di chiusura del sistema appaia uno sforzo condivisibile, conduce a due esiti entrambi non auspicabili: innanzitutto verrebbe posto a fondamento dell’azione di vigilanza e sanzionatoria del Regolatore un mero rinvio a principi generali e quindi si violerebbe il principio di legalità che rappresenta un presupposto dell’esercizio del potere sanzionatorio ai sensi della l. 689/1981. Poi il richiamo alle norme a tutela del consumatore ha fatto ipotizzare che la stessa Autorità di settore (in questo caso l’AGCOM) potesse applicare le norme del Codice del consumo in assenza di una espressa attribuzione in via legislativa. Infine l’Adunanza Plenaria rileva il fatto che le sanzioni edittali irrogabili da AGCOM non sono inferiori rispetto a quelle dell’AGCM: “[…] occorre evidenziare che le sanzioni edittali attribuite alla competenza di Antitrust non sono superiori a quelle irrogabili da AGCOM. Inoltre, a quest’ultima Autorità, quale istituzione preposta all’intero settore delle comunicazioni elettroniche, spettano poteri inibitori e conformativi, tra l’altro in fatto già più volte esercitati, che non consentono di ritenere che la tutela apprestata da AGCOM possa ritenersi nel complesso qualitativamente inferiore a quella attribuita ad Antitrust”. Da ultimo Il Consiglio di Stato osserva che la competenza a favore di un’unica Autorità appare maggiormente rispettosa del principio costituzionale del buon andamento della P.A., consentendo indirizzi univoci al mercato ed evitando situazioni di possibile disorientamento da parte delle imprese: “A conclusione delle argomentazioni esposte occorre evidenziare come la soluzione adottata appare più rispettosa del principio costituzionale del “buon andamento” dell’amministrazione. Infatti, in questo modo si evita di sottoporre gli operatori a duplici procedimenti per gli stessi fatti, con possibili conclusioni anche differenti tra le due autorità (come in pratica è avvenuto). Inoltre, si consente che si dettino indirizzi univoci al mercato, che altrimenti verrebbe a trovarsi in una situazione di possibile disorientamento, con potenziali ripercussioni sulla stessa efficienza dei servizi nei riguardi degli utenti/consumatori e sui costi che questi ultimi sono chiamati a pagare. Per non parlare, poi, della evidente violazione del principio di proporzionalità che si verrebbe a configurare nel caso di cumulo materiale delle sanzioni da parte di entrambe le autorità”. In estrema sintesi le molto dibattute sentenze dell’Adunanza Plenaria partono dall’individuazione di un problema rilevato in diversi settori regolati, a partire da quello bancario (vedi il parere del Consiglio di Stato n. 3999/2008), per proseguire nei mercati assicurativi, finanziari, energetici, delle comunicazioni, dei trasporti, ossia di evitare che vi siano una pluralità di interventi afferenti alle stesse tematiche (i.e. comportamenti commerciali) da parte di diverse istituzioni, con violazione del principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione e rischi di duplicazione di procedimenti sanzionatori in violazione del principio del bis in idem nonché affinché sia possibile garantire indirizzi applicativi univoci al mercato, a beneficio dei consumatori e delle imprese. Ma la strumentazione logico argomentativo che si basa sul principio di specialità della direttiva 2005/29/CE negando la complementarietà dell’ordinamento settoriale rispetto alla disciplina generale per affermare l’esaustività degli ordinamenti settoriali, se può apparire condivisibile per raggiungere gli obiettivi sopra citati, risulta semplicistico nell’assunzione della completezza e autonomia della normativa settoriale – oggettivamente incompleta per molti aspetti che sono invece analiticamente disciplinati dalle PCS – e problematico per i numerosi impatti sistematici che comporta. Come vedremo di seguito la novella legislativa non implica minori problematiche rispetto ai profili di corretta esecuzione delle direttive comunitarie sollevati sulle sentenze dell’Adunanza Plenaria dalla lettera di messa in mora della Commissione del 17 ottobre 2013, perciò una ragionata discussione per applicare l’attuale disciplina in un senso coerente con la lettera e con lo spirito delle direttive non potrà prescindere dai fondamentali principi che i giudici dell’Adunanza Plenaria hanno correttamente utilizzato per raggiungere la soluzione proposta. Inoltre il concetto di diversità di disciplina applicato dall’Adunanza Plenaria come interpretazione di buon senso del concetto di contrasto e quindi criterio di applicabilità del principio di specialità previsto nella Direttiva potrebbe essere sottoposto alla Corte di Giustizia in un eventuale rinvio pregiudiziale. La relazione illustrativa inviata il 3 dicembre 2013 dal Governo alle Commissioni parlamentari per il necessario parere preliminare all’adozione del d. lgs. 21/2014 afferma anche che la questione da cui origina la procedura di infrazione sarebbe risolta riconoscendo l’intangibilità del potere di regolazione spettante alle singole autorità di settore e, nel contempo, la generale competenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ad applicare il codice del consumo, acquisendo però i pareri delle autorità di settore e senza poter considerare scorretta una pratica conforme alla regolazione. Inoltre le violazioni della regolazione che non comportano pratiche commerciali scorrette resterebbero di competenza dell’autorità di settore. Per usare una metafora, per alcuni anni il legislatore nazionale e la giurisprudenza amministrativa ha “spostato il pendolo” dalla parte delle autorità di regolazione; adesso il legislatore ha deciso di spostarlo dalla parte dell’AGCM, in entrambi i casi senza trovare un giusto equilibrio, da un lato tra un elevato livello di tutela dei consumatori e la competitività delle imprese, dall’altro tra le norme generali in materia di pratiche commerciali scorrette e la disciplina settoriale che contemporaneamente il legislatore comunitario sta ampliando in numerosi mercati regolati.

3. Il principio di specialità e il ruolo delle Autorità di regolamentazione nella tutela del consumatore/utente.

Ad avviso di chi scrive per trovare una modalità applicativa che risolva il pluriennale dissidio occorre superare i pregiudizi ideologici sulla primazia dell’uno o dell’altro modello di tutela del consumatore e ritornare ad approfondire la norma comunitaria che già nel 2005 il legislatore aveva introdotto al considerando 10 e all’articolo 3, comma 4 della direttiva 2005/29/CE, poi recepito pedissequamente dall’art. 19, comma 3 cod. cons.: 3. In caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici.” Il testo della norma comunitaria rappresenta perciò il punto di riferimento essenziale alla luce del quale rileggere il complesso e ondivago percorso giurisprudenziale – partire dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria in cui si è trattato nonché risalendo agli antecedenti procedimenti AGCM nei settori regolati aventi una specifica connotazione regolamentare[4] – con l’evidenza che il legislatore comunitario ha voluto consapevolmente identificare il principio di specialità come criterio guida per ripartire la competenza in materia di pratiche commerciali scorrette tra l’organismo titolare a livello nazionale del potere di vigilare e sanzionare queste ultime (in Italia l’AGCM) e le numerose autorità di regolamentazione settoriale a cui lo stesso legislatore ha voluto attribuire specifici poteri a tutela dei consumatori. Alla luce dei consolidati principi in tema di specialità, sarebbe poi stato onere delle Autorità (o degli organi giurisdizionali, a seconda degli ordinamenti interni) incaricati di applicare le pratiche commerciali scorrette e la disciplina regolamentare in ciascuno Stato membro adottare coerentemente il riparto di competenza dando attuazione ai principi di efficienza, efficacia e buona amministrazione ed evitando di violare il fondamentale principio del ne bis in idem. La necessità di definire a priori un principio per ripartire la competenza tra autorità di regolazione e organismi designati ad applicare le PCS sorge dalla natura intrinseca della regolazione e come effetto di un processo di politica industriale che, negli anni ’90, ha indotto gli Stati membri (con modalità differenziate tra i diversi settori e tra i vari Stati), ad avviare processi di privatizzazione delle concessionarie pubbliche dei servizi a rete, a partire dalle telecomunicazioni. Perciò lo Stato, che, fino ad allora, aveva svolto il ruolo di “imprenditore” e in questo modo riteneva di contemperare anche le esigenze del cittadino/consumatore, quando ha ceduto il controllo di importanti monopoli nazionali (ad esempio Telecom Italia) assumendo il ruolo di “Stato regolatore” ha ritenuto che i consumatori dovessero essere tutelati da soggetti (stra)dominanti sul mercato che operavano invece secondo logiche imprenditoriali: la legge n. 481 del 1995 istituiva perciò le prime Autorità indipendenti regolatrici di importanti settori quali l’energia e le telecomunicazioni e fissava le prime regole a tutela dei consumatori[5]. Il progressivo processo di privatizzazione dei mercati si è incrociato con la spinta comunitaria per la liberalizzazione dei mercati dei servizi a rete, a partire dalla telecomunicazioni. Il legislatore comunitario ha correttamente previsto in molti mercati, come le comunicazioni elettroniche, la riduzione al minimo delle barriere amministrative all’accesso al mercato al fine di favorire una rapida evoluzione concorrenziale, ma l’affacciarsi di molti attori sul mercato in competizione per acquisire i clienti e il conseguente svilupparsi di offerte tecnicamente e commercialmente più complesse hanno reso necessario incrementare le regole sulle modalità e la qualità delle offerte e garantire un crescente livello di tutela (e consapevolezza) a beneficio dei consumatori. Infine, poiché l’esigenza di istituire un’autorità di regolazione di settore dotata di poteri regolamentari, di vigilanza e sanzionatori sorge in contesti che sono caratterizzati da “fallimenti di mercato”, sovente legati alla fase di transizione da un regime di monopolio ad una dinamica competitiva, tanto più è efficace l’azione del regolatore a favore della liberalizzazione del mercato rilevante tramite l’introduzione di meccanismi pro-concorrenziali, tanto minore è giustificata nel medio periodo la sua presenza istituzionale e le risorse umane e finanziarie ad essa dedicate (sunset clause), ad eccezione dei profili di tutela del consumatore che diventano progressivamente sempre più rilevanti e qualificanti [6]. Perciò i compiti attribuiti da legislatore comunitario alle autorità di settore diventano spesso progressivamente “esistenziali” per le autorità stesse, una volta che i compiti prioritari di natura pro-competitiva sono stati correttamente impostati e prospetticamente risolti.

4. Il primo intervento del legislatore finalizzato a dirimere il conflitto di competenza.

Poco dopo le citate sentenze dell’Adunanza Plenaria il legislatore è intervenuto una prima volta a disciplinare i rapporti tra disciplina generale e normativa speciale attribuita alle autorità di settore in materia di pratiche commerciali scorrette. Con la legge di conversione n. 135/2012 del d.l. n. 95/2012 il legislatore ha introdotto l’articolo 23, comma 12 quinquiesdecies che prevedeva che “la competenza ad accertare e sanzionare è dell’autorità garante della concorrenza e del mercato, escluso unicamente il caso in cui le pratiche commerciali scorrette siano poste in essere in settori in cui esista una regolazione di derivazione comunitaria, con finalità di tutela del consumatore, affidata ad altra autorità munita di poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati.” Agli interpreti meno attenti la norma in esame è apparsa una legificazione di quanto stabilito dalle (allora) recentissime sentenze dell’Adunanza plenaria[7]. In realtà il legislatore del 2012 applicava il principio di specialità con modalità che si discostavano in modo abbastanza significativo da quelle dettate dall’Adunanza plenaria: la norma prevedeva la definizione della competenza di tutte le autorità di settore estendendo (in modo condivisibile) il principio di specialità a tutte le amministrazioni, non necessariamente qualificabili come autorità indipendenti, ma operanti in settori nei quali esistesse una regolamentazione di derivazione comunitaria che avesse finalità di tutela del consumatore e fosse munita di rilevanti poteri inibitori e sanzionatori. La norma del 2012 si discostava però dall’indirizzo dell’Adunanza plenaria poiché non escludeva aprioristicamente l’applicazione della normativa generale sul presupposto che la normativa settoriale fosse completa ed esaustiva, ma limitava l’applicazione del principio di specialità agli aspetti regolati. In realtà la norma in esame non si discostava soltanto dalle sentenze dell’Adunanza plenaria, ma anche dalle ordinanze di remissione delle sezioni del Consiglio di Stato ai sensi dell’art 99 c.p.a., perché si limitava a richiedere che le tematiche specifiche oggetto di una pratica commerciale scorretta fossero stati effettivamente regolate da un’autorità di settore, con ciò facendo derivare la possibilità di applicare il principio di specialità dalla presenza della normativa regolamentare anziché “soltanto in caso di verificato contrasto con quella generale e sempre che rechi la disciplina di aspetti specifici delle pratiche commerciali leali, regolando una fattispecie omogenea a quella individuata dalla normativa generale ma da quella distinta per un elemento specializzante, di aggiunta o di specificazione della fattispecie stessa.”[8]. La norma del 2012 vuole essere di più immediata applicazione perché libera l’interprete dalla necessità di individuare “l’elemento specializzante, di aggiunta o di specificazione della normativa speciale rispetto alla fattispecie omogenea disciplinata dalla normativa generale e sì a richiedere che l’autorità di settore abbia concretamente regolato tale materia, ossia l’abbia fatto oggetto di una normazione secondaria sulla base delle norme primarie di derivazione comunitarie”. In realtà il legislatore del 2012 non si è limitato a richiedere che vi fosse un contrasto tra disposizioni contenute in direttive o in normative primarie nazionali, ma ha richiesto anche che le materie oggetto di una disciplina speciale fossero state specificamente regolate dalle autorità di settore, traendone la conseguenza che l’azione del regolatore sostanzialmente conducesse ad una disciplina “specializzata e qualificante” rispetto alla disciplina generale. Come evidenziato[9] la norma in esame, sebbene avesse voluto dare un’interpretazione ragionevole del principio di specialità previsto dalla direttiva 2005/29/CE e consentisse di applicare la disciplina generale in tema di pratiche commerciali scorrette quale “rete di sicurezza” per i consumatori rispetto all’ambito di applicazione delle discipline settoriali di matrice comunitaria, non era scevra di dubbi e di ambiguità interpretative poiché lasciava spazio ad una interpretazione “elastica” della competenza, in quanto rendeva necessaria la presenza di una specifica regolamentazione secondaria di settore la cui assenza avrebbe giustificato un nuovo ampliamento della competenza generale di AGCM. Non è possibile non sottolineare che, oltre alla problematicità di un ampliamento o restringimento del perimetro della competenza dell’autorità di settore e di AGCM, a seconda della maggiore o minore estensione nel tempo della regolamentazione definita dall’Autorità di settore, l’esistenza di una potenziale ambiguità sul perimetro delle fattispecie effettivamente regolate oppure di diverse interpretazioni (delle diverse Autorità, dei soggetti interessati e, infine, dei giudici) sulla possibilità di ricomprendere una fattispecie concreta all’interno delle ipotesi astrattamente disciplinate dal regolatore, ha fatto sorgere numerosi dubbi sulla possibilità che questa disciplina fosse concretamente attuabile. La norma approvata del 2012 ha dato luogo ad una applicazione giurisprudenziale molto più estesa dei principi di specialità coinvolgendo non solo Autorità di settore, ma anche le pubbliche amministrazioni titolari di poteri settoriali che comprendono la tutela degli utenti/consumatori [10].

5. La novella legislativa sul riparto di competenza.

Al termine del percorso giurisprudenziale e legislativo e in pendenza della procedura di infrazione comunitaria, il legislatore nazionale è recentemente intervenuto cercando di dirimere la problematica del riparto di competenze inserendo un nuovo comma 1-bis dell’articolo 27 cod. cons. che, come sopra indicato, è stato introdotto nell’ordinamento in occasione dell’attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori con il d. lgs. 21 febbraio 2014 n. 21. La nuova norma che disciplina il riparto di competenze in materia di pratiche commerciali scorrette viene di seguito richiamata per comodità di lettura: “anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolamentazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell’autorità di regolamentazione competente. Resta ferma la competenza delle autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolamentazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta. Le autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze.” Esaminiamo di seguito la norma vigente approfondendo diverse modalità applicative della coesistenza dei poteri dell’AGCM e delle autorità di settore e quali possano essere i limiti sistematici e procedurali della nuova normativa alla luce dei principi comunitari e costituzionali. Analizziamo, innanzitutto, il testo normativo e le sue diverse, possibili interpretazioni, poi applichiamo la norma alle fattispecie concrete delle possibili interazioni tra l’AGCM e le Autorità di settore e, infine, valutiamo se debbano essere applicati gli strumenti previsti dal diritto europeo e nazionale in presenza di violazioni delle direttive comunitarie. Proporremo, da ultimo, un possibile nuovo intervento legislativo atto a dirimere (auspicabilmente) la vexata quaestio nel solco del diritto comunitario e ne valuteremo limiti e opportunità. Innanzitutto esaminiamo le finalità poste dal legislatore delegato a fondamento della modifica normativa in esame: “l’art. 1, comma 2-bis , ha l’obiettivo di superare la procedura di infrazione n. 2013/2169 … relativa ai conflitti di competenza e alle lacune applicative della normativa in materia di pratiche commerciali scorrette nel settori regolati.”[11] Perciò la nuova disciplina vorrebbe dare piena attuazione alla norma comunitaria che già nel 2005 il legislatore aveva introdotto al considerando 10 e all’articolo 3, comma 4 della direttiva 2005/29/CE, poi recepito pedissequamente dall’art. 19, comma 3 cod. cons., e disciplinava il caso di contrasto tra norme settoriali e la disciplina generale delle pratiche commerciali scorrette prevedendo l’applicazione del principio di specialità[12]. Come vedremo approfonditamente, potrebbero essere riscontrate nella norma vigente ben più gravi censure alla luce delle norme europee di quelle oggetto della procedura di infrazione comunitaria dell’ottobre 2013[13] . Infatti quando l’art. 1 comma 6 disciplina che “anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolamentazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell’autorità di regolamentazione competente.”, formalmente vorrebbe porsi come norma che attua il principio di specialità previsto all’art. 19 comma 3 cod. cons. per dirimere la competenza tra norme di settore e disciplina generale in materia di pratiche commerciali scorrette, ma arriva ad una conclusione opposta all’architettura indicata dal legislatore comunitario. Infatti il legislatore italiano applica in modo davvero “speciale” la “specialità” della norma regolamentare affermando un potere esclusivo di AGCM di applicare, anche nei settori regolati, la disciplina del Codice del Consumo. La norma si limita infatti a stabilire, in modo apodittico e facendo riferimento ad una norma di matrice comunitaria che afferma l’esatto opposto, la primazia del Codice del Consumo, come norma sostanziale, e dell’AGCM, come autorità competente, anche nei mercati oggetto di una regolamentazione settoriale e presidiati da Autorità (in gran parte dei casi e delle materie oggetto di regolazione) di matrice comunitaria. “L’intangibilità del potere di regolazione spettante alle singole Autorità di settore” richiamata dal Governo nella Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo si risolve in due elementi, l’uno sostanziale, in quanto ribadisce che resta fermo “il rispetto della regolamentazione vigente” e l’altro procedimentale, che prevede l’acquisizione del “parere dell’Autorità di regolazione competente”. Si è ipotizzato quali possano essere le diverse fattispecie concretamente riscontrabili di interazione tra l’AGCM e l’Autorità di settore, analizzandone i presupposti e gli effetti. 1. L’Autorità di settore riscontra una violazione della propria disciplina settoriale che non configura una pratica commerciale scorretta. In questo caso la stessa norma in esame ribadisce che resta ferma la competenza dell’Autorità di regolazione competente ad applicare i propri poteri, intesi come poteri regolamentari, di vigilanza e sanzionatori. Come vedremo di seguito, non vi sarebbe stata oggettivamente necessità di questa norma se non per ribadire, a contrario, l’esclusione dell’esercizio delle competenze inibitorie e sanzionatorie da parte delle Autorità di regolazione in presenza di comportamenti da parte di professionisti che appaiono integrare anche una pratica commerciale scorretta[14]. 2. AGCM riscontra comportamenti da parte delle imprese operanti in un settore regolato che configurano delle pratiche commerciali scorrette, ma che non ricadono in tematiche oggetto di regolazione. In questa fattispecie AGCM provvede ad esercitare i propri poteri sanzionatori, fermo restando che appare ragionevole che, in considerazione della labilità dei confini delle materie regolate, in ogni caso AGCM richieda il parere dell’Autorità di regolazione settoriale al fine di escludere la compresenza di specifiche norme regolamentari. 3. La fattispecie più complessa – potenzialmente foriera di conflitti istituzionali e giudiziali – si verifica qualora una fattispecie potenzialmente vìola una disposizione regolamentare e, nel contempo, integra una pratica commerciale scorretta. Approfondiamo le diverse soluzioni possibili interpretando i tre elementi di interazione tra le due discipline e le due Autorità che sono previsti dalla norma: il “rispetto della regolamentazione vigente”, l’obbligo di richiedere il parere all’Autorità di regolazione e la facoltà (non l’obbligo) per le medesime Autorità di “disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze.”. Qualora l’AGCM avvii un procedimento sanzionatorio caratterizzato da una duplicità di ambiti normativi potenzialmente violati, prima dell’adozione del provvedimento finale, vi è l’obbligo di richiedere all’Autorità di settore un parere non vincolante. Sulla natura di questo parere non appare possano esservi dubbi poiché, qualora il parere dell’Autorità di settore fosse vincolante, avrebbe un effetto fortemente condizionante dell’azione di AGCM, tanto da configurare l’azione istruttoria svolta dagli uffici dell’AGCM (sulla base dei propri poteri) e potenzialmente censurata dal parere vincolante dell’altra Autorità come condizionata ad attività di coordinamento e di indirizzo amministrativamente non ammissibile in assenza di alcuna sovraordinazione o collegamento organizzativo o gerarchico[15]. Perciò, qualora pervenga un parere dell’Autorità di settore secondo il quale il comportamento dell’impresa viene ritenuto coerente con la regolamentazione vigente, AGCM dovrebbe qualificare tali condotte come non in violazione della diligenza professionale e quindi non sanzionare l’impresa, quantomeno per questo specifico profilo[16]. Tale ipotesi garantirebbe anche una certezza delle regole applicabili alle imprese per le quali l’adeguamento alle norme applicative previste dal Regolatore sarebbe una garanzia di non violare gli oneri in termini di diligenza professionale previsti dal Codice del consumo. Ma il procedimento ipotizzato dal legislatore ed il bilanciamento dei rispettivi ruoli solleva molti dubbi: innanzitutto il “rispetto della regolamentazione vigente” previsto dalla norma in esame si limita a dare un rilievo soltanto parziale ai poteri del Regolatore, attribuendo rilevanza giuridica nell’ambito del procedimento avviato da AGCM soltanto all’attività di regolamentazione secondaria posta in essere dall’Autorità di settore. In altri termini, la legge “fotografa” e disciplina in modo incompleto la dicotomia tra del ruolo del Regolatore, preposto ad un intervento di regolazione ex ante, e i poteri dell’AGCM che avrebbe un potere di intervento sanzionatorio ex post, poiché le leggi istitutive delle Autorità di settore (sovente di diretta derivazione comunitaria) hanno conferito ai regolatori anche la pienezza dei poteri di enforcement (ossia di vigilanza, inibizione e sanzione)[17] nei confronti dei soggetti vigilati. La norma vorrebbe, invece, che i poteri di enforcement fossero inibiti in tutti quei casi in cui le medesime condotte fossero sottoposte allo scrutinio da parte dell’AGCM per i profili disciplinati dal Codice del Consumo. Questa norma risulta perciò potenzialmente censurabile da parte della Commissione (e della Corte di Giustizia) nella misura in cui non consente di applicare le norme comunitarie e tale vizio si aggrava in quanto dobbiamo moltiplicarlo per tutte le direttive comunitarie di settore che conferiscono poteri di enforcement alle Autorità. Proseguendo l’esame della fattispecie di un parere che “assolve” l’impresa in quanto le sue condotte sono coerenti con la regolamentazione vigente, occorre valutare due ulteriori fattispecie: l’ipotesi (non di scuola) che AGCM possa non accogliere nel merito il parere dell’Autorità di settore e quindi non ritenere che la fattispecie comportamentale dell’impresa sia coerente con la regolamentazione astrattamente definita; la seconda ipotesi è che AGCM ritenga la regolamentazione vigente non completa oppure non sufficientemente tutelante il consumatore, nonostante il diverso parere del regolatore di settore, e quindi intervenga sanzionando sulla base dei propri poteri dei comportamenti che, a suo giudizio, avrebbero dovuto essere maggiormente o diversamente regolati. In entrambi i casi la norma appare censurabile sotto il profilo degli strumenti adottati e degli effetti. Per quanto riguarda lo strumento del parere la sua natura meramente obbligatoria ma non vincolante attribuisce ad AGCM la possibilità di adottare una valutazione del tutto scevra di vincoli sull’efficacia e sulla completezza della norma regolamentare (peraltro parametrata alla luce di principi e interessi pubblici tutelati parzialmente divergenti da quelli posti alla base dell’azione dell’Autorità di settore), salvo l’obbligo di una motivazione rafforzata in caso di scostamento, ed eventuale, successiva rilevanza soltanto nell’apprezzamento del giudice amministrativo. L’adozione del parere può divenire a breve, senza l’utilizzo di diversi e più penetranti strumenti di leale collaborazione, un mero onere procedimentale, privo di effetti sostanziali. Per quanto riguarda gli effetti sarebbero molto problematici: la correttezza e la completezza della regolamentazione adottata dall’Autorità di settore (ad esempio di AGCOM) sarebbe scrutinata da AGCM sulla base di poteri che non sarebbero coerenti né con l’inquadramento costituzionale, in quanto tale funzione è demandata istituzionalmente al Parlamento ai sensi della l. n. 249/97 e, in sede giurisdizionale, al giudice amministrativo né con l’architettura comunitaria che ha espressamente designato la Commissione, come garante del Trattato con le procedure di infrazione ex art.258 TFUE, e la stessa Commissione insieme al BEREC per la corretta attuazione delle direttive settoriali[18]. Al di là delle implicazioni istituzionali, sarebbero poi evidenti gli effetti di incertezza nel mercato dove le regole poste dall’Autorità preposta non rappresenterebbero lo standard di diligenza professionale, implicando problematiche operative ed incrementi di costi per le imprese e quindi per gli utenti/consumatori, già ben evidenziate dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria. Valutiamo invece l’ipotesi che il parere dell’Autorità di settore riscontri nelle condotte delle imprese oggetto del procedimento sanzionatorio dell’AGCM anche la violazione di norme regolamentari. In tal caso la lettera della legge impedirebbe all’Autorità di settore di avviare qualsiasi attività di enforcement della propria regolamentazione poiché, in presenza di un procedimento per PCS, i suoi poteri sarebbero ridotti ad un mero ruolo ricognitivo della coerenza (o meno) della condotta concretamente rilevata alla normativa regolamentare vigente, con i possibili effetti sopra descritti. L’interpretazione autorevolmente prospettata secondo cui la previsione della norma “fermo restando il rispetto della regolamentazione vigente” debba in realtà, in via interpretativa[19], richiamare l’intera “cassetta degli attrezzi” dell’Autorità di regolamentazione, inclusi i poteri di vigilanza, inibitori e sanzionatori, e quindi comporterebbe una translatio iudicii [20] da AGCM all’Autorità di settore che renderebbe coerente con il dettato comunitario la norma in esame applicando il principio di specialità previsto dalla direttiva 2005/29/CE[21], si scontra con il combinato disposto della lettera della legge che attribuisce “in via esclusiva” all’AGCM “la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta” e sottolinea la competenza delle Autorità di regolazione ad “esercitare i propri poteri” soltanto qualora tali comportamenti “non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta.” La norma, purtroppo, sebbene sia in palese conflitto con il dettato comunitario e sia in contrasto con gli obiettivi della legge delega (“superare la procedura di infrazione n. 2013/2169 avviata dalla Commissione europea nei confronti dello Stato italiano relativa ai conflitti di competenza”), nonché con i principi dell’art. 32 della L. 234/2012, appare difficilmente interpretabile alla luce della lettera e dello spirito della direttiva anche con lo strumento dei protocolli di intesa tra Autorità previsti dallo stesso comma 1-bis dell’art. 27 (come vedremo di seguito). Occorre peraltro sottolineare che, in assenza di una translatio iudicii da AGCM all’Autorità di settore, una mera interpretazione che richiami in forma estensiva “l’intangibilità del potere di regolazione spettante alle singole Autorità di settore” riconoscendo loro anche il potere di inibire e sanzionare i comportamenti in violazione della regolamentazione di settore, confliggerebbe sostanzialmente con il principio dell’ordinamento del ne bis in idem che il legislatore comunitario e, in modo incompiuto, le sentenze dell’Adunanza plenaria, hanno cercato di applicare. 4. Un timore relativo al rischio del perpetuarsi dell’inaccettabile consuetudine di casi di bis in idem nei settori regolati viene rafforzato dalle prime applicazioni della norma da parte dell’AGCOM che, in alcune recenti pronunce, (successive all’entrata in vigore dell’art. 27 comma 1-bis a decorrere dal 26 marzo 2014) ha affermato : “Le condotte denunciate dagli utenti, infatti, sono state esaminate <limitatamente agli aspetti regolati> e sono state applicate le sole norme di settore che, anche alla luce dell’orientamento del supremo Collegio, sono idonee a tutelare adeguatamente i consumatori. La fattispecie contestata, in altri termini, è stata qualificata esclusivamente sulla base delle norme di settore, senza introdurre alcun elemento valutativo propriamente utilizzato dall’Autorità antitrust e riconducibile alla nozione di pratica commerciale scorretta contenuta nel Codice del consumo. […] in ogni caso, la violazione accertata è stata qualificata esclusivamente sulla base delle disposizioni regolamentari vigenti che solo l’Autorità di settore è tenuta ad applicare (ed eventualmente a sanzionare in caso di violazioni) e che non sono mai state messe in discussione, neanche dalla novella legislativa richiamata dalla Società.”[22]. Al di là dell’applicabilità del principio di tempus regit actum alle violazioni contestate anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 27, comma 1-bis del cod. cons., dalle prime pronunce di AGCOM emerge che l’Autorità di settore non ritiene che l’insieme dei propri poteri regolamentari, inibitori e sanzionatori venga scalfito della novella legislativa, né che occorra effettuare alcun coordinamento preventivo con AGCM o valutazione preventiva di una potenziale violazione del Codice del consumo che, qualora desse luogo ad un procedimento sanzionatorio di AGCM, inibirebbe, ai sensi della norma in esame, l’azione sanzionatoria dell’Autorità di settore [23]. Si potrebbe in questo caso parlare di complementarietà dell’azione delle due Autorità, ma “impermeabile” alla novella legislativa (almeno sino ad un intervento del giudice amministrativo) e potenzialmente generatrice di procedimenti paralleli sulla medesima fattispecie. Le prime reazioni di AGCOM alla novella legislativa sollevano però alcuni ulteriori dubbi: se, come indicato nelle delibere citate, AGCOM non effettua alcuna valutazione rispetto alla configurabilità di una condotta come pratica commerciale scorretta, qualora un operatore di comunicazioni elettroniche sia oggetto di un procedimento sanzionatorio da parte di AGCOM e poi, successivamente, per la medesima fattispecie, sia sanzionato da AGCM poiché tale condotta configura anche una pratica commerciale scorretta, allo stato non si potrebbe opporre alcun limite all’esercizio dei poteri di entrambe le Autorità competenti ratione materiae (se non, in sede giurisdizionale, la mancata applicazione del principio di ne bis in idem); al contempo, però, tale società sarebbe vittima di oneri procedimentali e sanzionatori doppi rispetto ad un altro operatore che abbia inizialmente subito un procedimento sanzionatorio da AGCM e quindi possa far valere, anche in sede cautelare, l’improcedibilità dell’azione sanzionatoria da parte dell’Autorità di settore [24]. I potenziali effetti discriminatori e asimmetrici della norma in esame sono talmente irragionevoli da necessitare una rapida soluzione. 5. Il legislatore ha evidentemente ritenuto che i sopracitati dubbi (e i molti altri che potrebbero emergere dall’applicazione concreta della norma in esame) potessero essere risolti con l’adozione da parte delle Autorità di protocolli di intesa relativi agli “aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze”. In realtà la soluzione appare più complessa: innanzitutto è facoltà delle Autorità l’adozione di protocolli congiunti e, perciò, il raggiungimento di un accordo su uno strumento applicativo e procedimentale non appare scontato qualora vi sia tra le due istituzioni un preventivo disaccordo, ad esempio, su come interpretare l’ampiezza dei poteri dell’Autorità di settore che vengono richiamati dalla frase “fermo restando il rispetto della regolamentazione vigente”. Inoltre gli accordi di collaborazione dovranno limitarsi a definire gli “aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze”, senza poter (ovviamente) incidere sui poteri/doveri attribuiti dalle leggi alle singole Autorità. Né può essere sufficiente che le Autorità si limitino a definire accordi generici sul presupposto di una comune volontà di una “leale collaborazione” poiché la definizione preventiva e trasparente dei criteri di interazione sin dalla fase pre-procedimentale tra le Autorità rappresenta una garanzia finalizzata a offrire certezza di legalità del procedimento, innanzitutto alle Autorità stesse e poi alle imprese ed ai consumatori nell’ambito di procedimento atti ad incidere sotto il profilo economico, oltre che reputazionale, su libertà costituzionalmente garantite. Infine lo stesso modello di leale collaborazione ipotizzato dal legislatore, che si limita a prevedere un parere obbligatorio, appare contrario ai principi di “buona amministrazione” poiché presume che l’AGCM svolga tutte le necessarie attività procedimentali e, una volta raccolte le necessarie informazioni e deduzioni, svolte le audizioni ed esaminate le memorie e i documenti delle parti, trasmetta l’intero fascicolo all’Autorità di settore che potrebbe, al termine di mesi di lavoro, affermare che il comportamento del professionista è conforme alla regolamentazione vigente e quindi pienamente aderente alla diligenza professionale del settore e, perciò, non sanzionabile da AGCM neppure ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette. Appare perciò evidente che è necessario che gli accordi di collaborazione debbano trovare degli strumenti di sostanziale co-gestione grazie ai quali, sin dall’esame pre-procedimentale delle segnalazioni dei consumatori su tematiche regolate (con le conseguenti decisioni in merito alla loro rilevanza o alla improcedibilità/inammissibilità), le due Autorità coinvolte condividano sostanzialmente il perimetro, gli obiettivi e i risultati dell’azione dell’AGCM e i conseguenti impatti sulla regolamentazione vigente, fermi restando i rispettivi poteri e responsabilità, anche procedimentali, stabiliti dalle leggi applicabili. Un esito auspicato del protocollo d’intesa tra le due Autorità potrebbero essere degli elenchi che descrivano (a) i comportamenti commerciali degli operatori potenzialmente valutabili ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette che siano già stati regolati dall’Autorità di settore e quindi rispetto ai quali non dovrà essere avviato alcun procedimento sanzionatorio da parte di AGCM, sottoposto a successivo parere del Regolatore; (b) i comportamenti commerciali degli operatori non ancora oggetto di una regolamentazione specifica rispetto ai quali AGCM può procedere in via sanzionatoria senza rischi di “incidenti procedimentali”, quali un parere di conformità alla regolamentazione vigente. Infine non si ritiene che debba esserci un meccanismo di aggiornamento periodico di tali elenchi, rispetto ai quali l’ampliamento continuo dei temi trattati nel primo dovrebbe estendersi a danno del secondo elenco, poiché l’adozione di una specifica regolamentazione che confligge (rectius che supera per specificità e specializzazione) con la lettera e l’applicazione giurisprudenziale delle PCS non può avere cadenze prestabilite, ma sarebbe sufficiente che l’adozione di una nuova delibera da parte del Regolatore comprenda una parte che aggiorni, con efficacia contemporanea all’entrata in vigore della delibera stessa, il citato primo elenco. Poiché le molteplici, possibili declinazioni dei comportamenti dei professionisti non sono definibili ex ante, l’eventuale adozione di provvedimenti sanzionatori estranei ai due elenchi consentirebbe di individuare nuovi elementi da inserire in uno dei due elenchi, auspicabilmente nel primo se rientrante nel perimetro di competenza del Regolatore. Una così sinergica e rispettosa attuazione dei principi di leale collaborazione probabilmente dovrebbe dare luogo anche all’individualizzazione di modelli più efficaci di condivisione sostanziale delle tematiche (e delle relative soluzioni) tra le due Autorità nel corso del processo di regolamentazione ex ante, non allo scopo di subordinare concettualmente l’azione del Regolatore (che comunque risponde ai principi ed agli obiettivi dettati del legislatore comunitario), a quello dell’AGCM, ma di trovare ex ante le soluzioni che possano essere più efficaci per tutelare il consumatore. Anche con la consapevolezza che sia preferibile in termini di efficacia del sistema di tutela una regolamentazione ex ante dettata a tutto il mercato in modo chiaro e trasparente rispetto all’esercizio ex post di una competenza sanzionatoria rispetto alla specifica violazione di un singolo professionista. Nell’ipotesi in cui non si riesca a trovare una modalità applicativa rispettosa delle diverse normative e competenze che si sovrappongono nella materia delle pratiche commerciali scorrette[25], gli strumenti che possono essere attivati dai diversi soggetti interessati, anche in modo parallelo, possono essere: a)sollecitare la Commissione europea a valutare la novella legislativa nell’ambito della procedura di infrazione attualmente pendente per la violazione della direttiva 2005/29/CE o valutare se effettuare una nuova segnalazione alla luce della violazione delle direttive comunitarie di settore[26]; b)l’impugnazione di un provvedimento sanzionatorio, sia nel caso sia adottato da AGCM su tematiche oggetto anche di regolamentazione settoriale, sia che l’Autorità di settore persegua una condotta in violazione della regolamentazione che possa configurare anche una pratica commerciale scorretta, con richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Un percorso che ritengo sia preferibile, anzi auspicabile nei termini processualmente più rapidi possibili al fine di sottoporre alla Corte di Giustizia la novella legislativa ed ottenere una interpretazione, auspicabilmente chiara e dirimente, in merito a come applicare nei settori regolati il principio di specialità previsto nella direttiva 2005/29/CE; c)la disapplicazione da parte delle Autorità di settore: questa soluzione sarebbe coerente con la conforme giurisprudenza della Corte di Giustizia che impone anche alle amministrazioni nazionali il potere di disapplicare una norma in contrasto con il diritto comunitario[27], ma avrebbe effetti istituzionalmente dannosi e creerebbe una situazione di incertezza più lunga nei mercati che probabilmente sarebbe sanata soltanto da un successivo intervento in via pregiudiziale della Corte di Giustizia, finalizzato a dirimere la controversia dal giudice amministrativo che sarebbe inevitabilmente richiesto di valutare la legittimità della disapplicazione della norma dalle parti del procedimento o dalle stesse Autorità. Qualunque sia il percorso amministrativo e/o giurisdizionale che dovrà essere adottato a causa della novella legislativa, in assenza della possibilità di individuare un’applicazione della norma in esame che sia coerente con il dettato comunitario, si prefigura potenzialmente una significativa incertezza sulle regole applicabili e sulle istituzioni competenti ad applicarle che avrebbe potuto essere risolto qualora il Consiglio di Stato avesse applicato l’art. 267, terzo comma TFUE che obbliga un organo giurisdizionale di uno Stato membro, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, a rivolgersi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea qualora in un giudizio pendente sia stata sollevata una questione relativa alla validità ed all’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni.

6. La proposta de iure condendo di un nuovo (e auspicabilmente dirimente) intervento legislativo.

Una proposta che potrebbe risolvere la complessa e delicata sovrapposizione di competenze che le direttive comunitarie attribuiscono alle autorità di settore per tutelare i consumatori potrebbe essere l’assegnazione, in via legislativa, a ciascuna Autorità di settore del potere di applicare non solo le proprie competenze settoriali, ma anche la normativa in materia di pratiche commerciali scorrette di cui agli artt. 20 e ss. del Codice del Consumo, limitatamente ai settori di specifica competenza. Peraltro questa proposta è già avanzata dalla più attenta giurisprudenza in sede di rimessione all’Adunanza Plenaria [28] . Ovviamente sarebbe un processo di affidamento che dovrebbe essere progressivo, a partire dalle Autorità di settore che hanno maturato maggiore esperienza e siano già dotate delle necessarie risorse organizzative e professionali. Vediamo di esaminare di seguito i vincoli normativi e organizzativi che suggeriscono questa soluzione cercando di approfondire le obiezioni, talvolta meramente ideologiche, che potrebbero sconsigliare una diversa configurazione istituzionale della tutela del consumatore. Nell’ambito del presente contributo ci limitiamo ad esaminare approfonditamente il settore delle comunicazioni elettroniche (o, se si ritiene, dei media e dell’editoria) per una pluralità di ragioni: innanzitutto sono i mercati (insieme a quelli dell’energia) nei quali si sono riscontrate più sovrapposizioni tra i poteri regolamentari delle rispettive autorità di settore (AGCOM e AEEG) e l’imposizione da parte di AGCM, tramite procedimenti sanzionatori in materia di pratiche commerciali scorrette, di più severi standard di diligenza professionali confliggenti con la regolamentazione ex ante [29]. Ma, a priori, la ragione è basata sull’evidenza che il settore delle comunicazioni elettroniche ha rappresentato, dall’inizio degli anni ’90, il mercato nel quale, in parallelo ai processi di privatizzazione degli operatori nazionali titolari di concessioni, il legislatore comunitario e la Commissione hanno sperimentato, nel dare un’attuazione sempre più evoluta del percorso di liberalizzazione, i processi e gli strumenti regolamentari che poi avrebbero applicato anche in altri mercati a rete[30]. Esaminando l’evoluzione del contesto normativo, il legislatore comunitario ha chiaramente indicato le caratteristiche ed i poteri delle Autorità nazionali di regolamentazione come un unicum istituzionale, titolare di poteri settoriali di regolazione, vigilanza e sanzionatori anche per le tematiche di tutela del consumatore, che sono stati ulteriormente rafforzati dalle direttive del c.d. Better Regulation del 2009[31]. Il legislatore ha anche chiaramente rafforzato l’indipendenza organizzativa e finanziaria delle Autorità nazionali di regolazione nei confronti dei Governi nazionali[32] e, al termine di un lungo processo di “gestazione” istituzionale, con il Regolamento 1211/2009[33] ha istituito di un organismo sovranazionale di coordinamento, l’Organismo dei regolatori europei delle comunicazioni elettroniche (BEREC), che ha lo scopo di “assicurare l’applicazione coerente in tutti gli Stati membri del quadro normativo dell’Unione europea per le reti e i servizi di comunicazione elettronica e contribuire in tal modo allo sviluppo del mercato interno.” (art. 1, par. 3). Tra i numerosi compiti svolti dal BEREC, anche su incarico della Commissione, per adempiere alle proprie finalità istituzionali, vi è anche la redazione di linee guida e raccomandazioni comuni che rappresentano un fondamentale punto di riferimento per le Autorità nazionali anche in materia di tutela dei consumatori[34]. Il progressivo ampliamento delle competenze specifiche delle Autorità settoriali in materia di tutela dei consumatori e la creazione di un organismo di coordinamento tra i regolatori che detta linee guida e best practices sul tema ci conforta nell’affermare che il legislatore comunitario, a meno di non volergli attribuire un incomprensibile strabismo normativo, non ritiene marginale e recessiva l’applicazione del principio di specialità previsto dal considerando 10 e dall’art. 3, comma 4 della direttiva 2005/29/CE (così come dall’art. 3, comma 2 della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori), tanto da arrivare a istituire un organismo paneuropeo che ha tra i propri obiettivi quello di definire un livello di “diligenza professionale” a livello comunitario per i servizi di comunicazione elettronica. Gli obiettivi istituzionali definiti dal Regolamento 1211/2009 e il concreto operare del BEREC nel definire le modalità e la qualità dei servizi da offrire ai consumatori e agli utenti europei[35] superano anche l’obiezione che “il canone di diligenza professionale richiesto al professionista nei settori regolati finirebbe per essere definito a livello nazionale dalle autorità di settore con conseguente creazione di un sistema frammentato e disomogeneo di tutela del consumatore il quale potrebbe godere nei diversi Stati membri di un livello diverso di tutela”[36]. Ovviamente la norma proposta non fa venire meno le diverse distinzioni e qualificazioni nell’applicazione del principio di specialità, come è stato correttamente evidenziato dalla dottrina più attenta. Infatti è stato correttamente osservato che “il principio di specialità può essere riferita ai rapporti tra ordinamenti (ordinamento generale e ordinamenti di settore), ai rapporti tra norme (norme generali e norme speciali), e ai rapporti tra autorità preposte all’applicazione delle norme.”[37] La proposta di una modifica legislativa che attribuisca la competenza alle autorità settoriali ad applicare sia la norma generale che la norma speciale implica un’interpretazione dei criteri di specialità che, da un punto di vista formale, riguarda soltanto i rapporti tra le autorità preposte alla concreta attuazione delle norme in esame. Ma nessuno può negare che l’attribuzione ad un’unica autorità di una duplice competenza e quindi di una duplice “cassetta degli attrezzi” renda molto più semplici ed efficienti le attività di coordinamento sulla valutazione della natura dell’infrazione, nonché i profili procedurali in quanto eliminerebbe tutte le necessarie forme di leale collaborazione tra due diverse istituzioni (e le relative tempistiche), sia essa attuata tramite l’intesa piuttosto che tramite un parere obbligatorio, ma non vincolante. In altri termini, l’Autorità settoriale vigilerebbe il comportamento commerciale degli operatori dotata di due apparati sanzionatori, uno connesso alla violazione delle norme regolamentari (rispetto alla quali si sta sviluppando un indirizzo applicativo comune coordinato dal BEREC), ed uno connesso con la disciplina delle pratiche commerciali scorrette che sarebbe applicato in modo residuale rispetto alla regolamentazione vigente, ma rappresenterebbe un utile complemento ed un efficace strumento di tutela dei consumatori ( la c.d. rete di sicurezza) qualora la fattispecie concreta non fosse prevista nella regolamentazione comunitaria oppure, in una diversa interpretazione, non fosse adeguatamente declinata a livello di normazione secondaria. Non si può, invece, affermare l’esistenza di un analogo vincolo istituzionale per l’applicazione della Direttiva 2005/29/CE: infatti non vi sarebbero ostacoli comunitari all’allocazione delle competenze in materia di pratiche commerciali scorrette in capo a diverse autorità poiché la citata direttiva prevede che ciascuno Stato membro attribuisca il compito e gli strumenti di “combattere le pratiche commerciali sleali” ad un organo amministrativo oppure giurisdizionale, ma lo possa fare secondo i propri modelli istituzionali[38]. E nella Direttiva 2005/29/CE non appare esserci un vincolo alla libertà costituzionale del legislatore nazionale che imponga l’attribuzione ad un’unica autorità amministrativa; al contrario, il legislatore comunitario si limita a qualificare la natura amministrativa o giurisdizionale degli organismi che possono essere incaricati di “combattere le pratiche commerciali sleali” e non la necessità di doverlo attribuire ad un’unica istituzione nazionale. Anzi un modello “policentrico” differenziato sulla base delle caratteristiche istituzionali nazionali è espressamente disciplinato nel Regolamento CE 2006/2004 sulla cooperazione per la tutela dei consumatori che si limita a prevedere che, in ciascuno Stato membro, accanto alla coesistenza di una pluralità di organismi pubblici che possano “combattere le pratiche commerciali sleali” anche su base locale, debba soltanto esserci un “ufficio unico di collegamento” a livello nazionale[39], che in virtù dell’esperienza maturata, potrebbe essere attribuita ad AGCM. La stessa Commissione europea nella lettera di messa in mora del 16 ottobre 2013 espressamente smentisce la presunta interpretazione “ortodossa” della necessaria unicità dell’organo competente ad applicare le PCS a livello nazionale ed avalla l’equivalenza delle modalità di ripartizione settoriale o orizzontale delle competenze a livello di Stato membro, purché sia garantita la presenza dei necessari strumenti normativi e l’effettività dell’azione amministrativa: “anche se la Commissione non interferisce con la ripartizione delle competenze tra le autorità amministrative a livello nazionale, ha l’obbligo di assicurare che gli Stati membri conferiscano poteri adeguati ai loro organismi di controllo, siano tali poteri di portata settoriale o orizzontale, e che essi prendano tutte le misure necessarie per garantire che sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive siano imposte per le violazioni delle norme nazionali di recepimento della direttiva.” Anche le osservazioni relative all’efficienza ed alla possibile dispersione di competenze maturate nel “combattere le pratiche commerciali sleali“ sarebbero risolvibili senza alcun onere ulteriore per la pubblica amministrazione, poiché le risorse umane e finanziarie attualmente dedicate a ciascun singolo settore potrebbero essere trasferite – a parità di condizioni e di oneri per la P.A. – da AGCM all’Autorità di settore e, da un punto di vista organizzativo, le problematiche di coordinamento tra i due plessi normativi potrebbero essere superate costituendo delle direzioni all’interno delle Autorità di settore che affrontino a tutto tondo, con la pienezza delle competenze ex ante e ex post e dei relativi principi-guida, la regolamentazione, la vigilanza e il presidio sanzionatorio a tutela dei consumatori. Questa nuova direzione, nel caso di AGCOM, integrerebbe le competenze esistenti e sarebbe messa finalmente nelle condizioni di comprendere e disciplinare tempestivamente, grazie ad una equilibrata gestione di regolamentazione ex ante e di procedimenti sanzionatori ex post e uno stretto coordinamento con le esperienze che emergono a livello comunitario, un mercato caratterizzato da una incessante evoluzione delle tecnologie, dei servizi, delle esigenze della domanda e dell’offerta e sarebbe in questo modo dotata di tutti gli strumenti per adeguatamente e tempestivamente presidiare gli interessi dei consumatori (anzi della più ampia categoria degli utenti) in tutte le fasi della relazione tra utenti ed imprese. L’implementazione di questa proposta di revisione della “geografia istituzionale” dell’applicazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette comporta, ad avviso di chi scrive, il venire meno di un presupposto che dovrebbe essere superato nell’attuale contesto socio-economico, ossia che “come l’AGCM sia meglio situata per l’esercizio di questa competenza non settoriale in coerenza con il diritto vigente che consente di accentrare in capo ad un’unica amministrazione […] con ricadute positive in termini di applicazione uniforme della legislazione, certezza del diritto per le imprese ed efficacia della tutela garantita ai consumatori.”[40] Infatti questa impostazione vuole sovrapporre l’obbligo di armonizzazione massima con l’applicazione del principio del “consumatore medio” come se “l’applicazione uniforme della legislazione” rispondesse ai principi di proporzionalità e di ragionevolezza senza voler vedere una differenza tra il consumatore evoluto che acquista un prodotto tecnologico oppure un’automobile sportiva e chi acquista un bene di modesto valore per l’uso quotidiano[41]. In realtà un’applicazione uniforme, lontana dalla realtà e astratta della normativa penalizza il consumatore (che non è davvero tutelato, in caso di prodotti/servizi evoluti, oppure iper-garantito dalla tutela pubblicistica) così come le imprese (che sono sottoposte ad oneri impropri, magari anche inefficaci per la natura del servizio/prodotto) poiché pensa di applicare correttamente la norma omologando le regole per le diverse modalità di comunicazione e di consumo. Appare sempre più evidente come il consumatore sia plurale, ossia da un lato siano fortemente differenziati i propri bisogni di tutela in relazione alle condizioni socio/economiche/culturali, dall’altra che ogni singolo individuo sia “plurale” in relazione ad ogni esigenza di consumo. Perciò un’istituzione è tanto più efficace nell’applicare la norma astratta tanto più conosce davvero le dinamiche specifiche di quel singolo mercato e quali siano gli elementi della proposizione commerciale da analizzare in quanto qualificanti e dirimenti la scelta del cliente. Perciò l’equivalenza tra Autorità non settoriale e trasversale ai vari mercati e garanzia di maggiore tutela per i consumatori risulta ormai un’affermazione inadeguata all’evoluzione dei modelli di consumo e lontana dalla realtà [42]. I rischi di “cattura del regolatore” palesati sia a livello dottrinale che da alcune istituzioni[43] [44] potrebbero essere monitorati con un obbligo di pareristica da richiedere ad AGCM, reciproco a quello attualmente previsto per i settori regolati da AGCOM ai sensi dell’art. 1, comma 6, lett. c, Legge 249/1997. L’obbligo di richiedere un parere non vincolante nell’ambito del procedimento sanzionatorio esercitato da AGCOM ai sensi del Codice del Consumo potrebbe rappresentare uno strumento che consenta di condividere tra le due istituzioni anche le preziose esperienze maturate dall’AGCM in altri settori, nonché un importante punto di riferimento per il giudice amministrativo, sempre competente a valutare la legittimità delle attività delle Autorità. Infine, allo scopo di monitorare questa importante evoluzione istituzionale, si può richiamare l’obbligo per AGCOM – previsto dalla sua legge istitutiva all’art. 1, comma 6, lett. c), n. 12 – di relazionare dettagliatamente al Parlamento in merito alla propria azione, nonché possono essere ulteriormente rafforzati gli strumenti di impulso e di intervento già esistenti al fine di consentire una quotidiana azione di stimolo da parte degli stakeholder, in primis delle associazioni consumeristiche. E dopo un opportuno periodo di applicazione di questo nuovo modello istituzionale, possiamo immaginare 2/3 anni, il legislatore potrà prevedere l’obbligo di un approfondito e ragionato bilancio sull’efficacia, l’efficienza e la proporzionalità dell’azione di ciascuna Autorità di settore anche nell’applicazione delle norme del Codice del Consumo ed eventualmente adottare nuove soluzioni istituzionali. L’evoluzione de iure condendo dell’applicazione della disciplina in materia di pratiche commerciali e, prospetticamente, della normativa a tutela dei consumatori, da parte delle Autorità di settore, che sono per modalità istitutive e funzioni versate a svolgere analisi tecniche e a ponderare finalità e obiettivi in una prospettiva non gerarchicamente dipendente dal potere esecutivo, potrebbe rappresentare il primo passo di un importante evoluzione, in primis culturale, delle pubbliche amministrazioni. Infatti il Parlamento potrebbe valutare se, una volta sperimentata progressivamente l’applicazione delle pratiche commerciali scorrette da parte delle Autorità di settore non sia ipotizzabile una più ampia applicazione di questo modello, che responsabilizzi ulteriormente le amministrazioni competenti ad applicare le molteplici norme settoriali a tutela dei consumatori (che non ricadano nelle previsioni di massima armonizzazione) allo scopo di realizzare ecosistemi settoriali che garantisca pienamente la fruizione consapevole degli utenti/consumatori e consentano di focalizzare le risorse dell’AGCM nei confronti di settori finora meno presidiati, ma non meno rilevanti per i consumatori. In altri termini, passare da una prima fase, nella quale AGCM ha svolto in modo autorevole ed efficace un ruolo di presidio a livello trasversale della tutela del consumatore imponendo standard crescenti di “contegno esigibile dal professionista diligente”, ad una seconda fase nella quale, in primis, tutte le Autorità e, prospetticamente, le amministrazioni che regolano e vigilano specifici mercati includano la tutela dei consumatori come un profilo essenziale del corretto e compiuto esercizio della regolazione e del controllo dei mercati. In questo modo l’obiettivo della tutela dei consumatori passerebbe da essere applicato da poche decine di funzionari pubblici, sebbene molto qualificati, a centinaia di dipendenti pubblici. La sfida delle amministrazioni competenti e del coordinamento nazionale affidato ad AGCM potrebbe diventare quella di garantire la qualità dei procedimenti e “l’efficacia, la proporzionalità e la dissuasività” delle sanzioni applicate da ciascuna amministrazione incaricata di applicare le norme nazionali in materia di pratiche commerciali scorrette. Infine valutiamo se si rischia di aprire un nuovo fronte di conflitto nel riparto di competenze sulla tutela dei consumatori. Il d. lgs. 21/14, utilizzato dal legislatore per introdurre la modifica in esame nel riparto di competenza in materia di PCS, ha recepito la direttiva 2011/83/UE relativa ai diritti dei consumatori sostituendo integralmente le sezioni I-IV del capo I, titolo III del Codice dei consumo ed attribuendo, ai sensi dell’art. 66, commi 2 e 3, all’AGCM la competenza in materia di public enforcement attribuendole poteri di accertamento, inibitori e sanzionatori analoghi a quelli previsti in materia di PCS. Poiché le norme in materia di tutela dei consumatori, e in particolare la disciplina dei contratti a distanza e dei contratti negoziati fuori dai locali commerciali, sono caratterizzate da una armonizzazione massima, appare chiaro che potrebbe esservi il rischio di replicare una analoga problematica relativa alla competenza tra le norme a tutela dei consumatori in vigore dal 13 giugno 2014 e le precedenti regolamentazioni settoriali che disciplinavano le medesime fattispecie[40]. Al fine di gestire le inevitabili sovrapposizioni delle diverse disposizioni l’art. 3, comma 2 della direttiva 2011/83/UE, recepito dall’art.46, comma 2 cod. cons., prevede che “in caso di conflitto tra le disposizioni delle sezioni da I a IV del presente Capo e una disposizione di un atto dell’Unione europea che disciplina settori specifici, quest’ultima e le relative norme nazionali di recepimento prevalgono e si applicano a tali settori specifici”. Non possiamo non evidenziare che dovranno rapidamente essere definite delle modalità per valutare il residuo ambito applicativo delle norme settoriali di matrice comunitaria che si sovrappongono alla novella del cod. cons.[46], attraverso le diverse forme previste dalle leggi e dalla prassi allo scopo di attuare il principio di leale collaborazione (ad esempio mediante intese), onde evitare che siano i giudici amministrativi, con una decisione necessariamente ex post ed incompatibile con le tempistiche del mercato, a valutare la legittimità di un provvedimento inibitorio/sanzionatorio di AGCM o di una Autorità di regolamentazione settoriale, con evidenti danni per la stabilità della effettiva tutela per i consumatori, la certezza del diritto per le imprese e la gestione delle amministrazioni secondo il principio della buona amministrazione[47]. Note: [*] Il presente contributo è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista. [1] Precisamente il legislatore delegato ha inserito tale previsione all’art. 1, comma 6, lett. a) del citato d. lgs. 21/14 in virtù dell’art. 1, comma 1 della legge delega n. 93/2013 che richiama l’art. 32, lett. g) della l. 234/2012 che prevede quanto segue: “quando si verifichino sovrapposizioni di competenze di più amministrazioni diverse o comunque siano coinvolte le competenze di più amministrazioni statali, i decreti legislativi individuano, attraverso le più opportune forme di coordinamento, rispettando i principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza e leale collaborazione e le competenze delle regioni e degli altri enti territoriali, le procedure per salvaguardare l’unitarietà dei processi decisionali, la trasparenza, la celerità, l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa e la chiara identificazione dei soggetti responsabili.” Verificheremo al termine della nostra analisi se i principi richiamati nella legge-delega siano stati rispettati dalla formulazione dell’art. 1, comma 6, lett a). [2] Occorre inoltre verificare la coerenza della previsione dell’art. 1, comma 6, lett. a) con il divieto del gold plating che è stato introdotto dall’art. 15 della legge n. 183/2011 – c.d. legge di stabilità 2012, il quale prevede che “[…] Gli atti di recepimento di direttive comunitarie non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse […]. Costituiscono livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie: a) l’introduzione o il mantenimento di requisiti, standard, obblighi e oneri non strettamente necessari per l’attuazione delle direttive; b) l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari; c) l’introduzione o il mantenimento di sanzioni, procedure o meccanismi operativi più gravosi o complessi di quelli strettamente necessari per l’attuazione delle direttive”. [3] Le sentenze dell’Adunanza Plenaria sono state commentate, con prospettive spesso assai differenti, tra gli altri da: Caponigro, L’actio finium regundorum tra l’Autorità antitrust e le altre Autorità indipendenti, in Giust-Amm, 2013; P. Fusaro, Il riparto di competenze tra Autorità amministrative indipendenti nelle recente giurisprudenza del Consiglio di Stato in Federalismi n. 7/2013; V. Meli, Il Consiglio di Stato e l’applicabilità della disciplina delle pratiche commerciali scorrette al settore del credito, in Banca, borsa titoli di credito, 2012, 5, pag. 576; I. Nasti, Pratiche commerciali scorrette nelle comunicazioni elettroniche: l’actio finium regundorum del Consiglio di Stato, in Il Corriere giuridico, n. 11/2012; L. Torchia, Una questione di competenza: la tutela del consumatore fra disciplina generale e discipline di settore, Giornale di diritto amministrativo n. 10/2012, p. 953; R. Garofali, Pratiche commerciali scorrette e rapporti tra Autorità, in Treccani, Il libro dell’anno del diritto, 2013, p.233; V. Mosca, Il riparto di competenze tra Agcm e Agcom in materia di tutela del consumatore a 18 mesi dall’adunanza plenaria: lo stato dell’arte e i possibili sviluppi, in Diritto, Mercato e Tecnologia, 2013; G. Nava, La competenza in materia di tutela dei consumatori nei servizi di comunicazione elettronica tra normativa comunitaria e principi costituzionali, in Diritto dell’Internet, casi, legislazione, giurisprudenza, Cedam 2013, pag. 107-164; Id., Il conflitto tra istituzioni sulla competenza nella tutela dei consumatori nei mercati regolati: una proposta risolutiva?, in Diritto, Mercato e Tecnologia, 14 gennaio 2014. [4] Con riferimento al settore elettrico si veda, ex multis, Tar Lazio, sez. I, 8 settembre 2009, n.8399, Consiglio di Stato sez. VI, 31 gennaio 2011, n. 720; nel settore delle comunicazioni elettroniche si vedano Tar Lazio, sez. I, 15 giugno 2009, n. 5625 e 5627 (confermate dal Consiglio di Stato, sez. VI, 17 gennaio 2012, n. 853), nn. 5628 e 5629 (confermate da Consiglio di Stato, sez. VI, 26 settembre 2011, n. 5362). [5] In particolare si veda l’art. 2, comma 2, n. 12, lett. c), d), h) i), l), n) e p). Sulla l. 481/95 la bibliografia è molto ampia, perciò si rinvia, senza obiettivi di completezza a: AA.VV., La legge 14 novembre 1995, n. 481, ne Le nuove leggi civili commentate, n. 2-3, 1998, pag. 228 ss.; AA.VV., I garanti delle regole. Le autorità indipendenti a cura di Cassese S., Franchini C., Bologna, 1996; G. E. Longo, Note sulla cosiddetta indipendenza delle Authorities per i servizi di pubblica utilità, in Rass. Giur. En. El., 1995; G. Napolitano, Autorità indipendenti e tutela degli utenti, in Giornale di Dir. Amm.vo, n. 1/1996; C. Franchini, Proposta di norme sulle Autorità indipendenti, in Giornale di Dir. Amm.vo, n. 5/1996; F. Merloni, Fortuna e limiti delle cosiddette Autorità amministrative indipendenti, in Pol. del Dir., n. 4/1997; D. Lanzi, L’istituzione di Autorità di regolazione, in Economia pubblica, n. 1/1998, pag. 5 ss.; G. De Vergottini, L’Autorità di regolazione dei servizi pubblici e il sistema costituzionale dei pubblici poteri, in Rass. Giur. En. El., 1996; G. Amato, Autorità semi-indipendenti e autorità di garanzia, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1997, 3, pp. 645-64; A. Predieri, L’erompere delle autorità amministrative indipendenti, Firenze 1997; F. Merusi, Democrazia e autorità indipendenti: un romanzo quasi giallo, Bologna 2000; M. Clarich, Autorità indipendenti Bilancio e prospettive di un modello, Bologna 2005. [6] Vedi nuovi poteri conferiti alle Autorità nazionali di regolamentazione con la direttiva 2009/136/UE. [7] Anche la giurisprudenza amministrativa è parsa assimilare il dettato del supremo Collegio amministrativo con la successiva norma di legge, ma in realtà nelle sentenze si evidenzia la compresenza dei requisiti dettati a livello giurisprudenziale con i requisiti previsti dal citato l’articolo 23, comma 12 quinquiesdecies. Si veda in tal senso la sentenza Tar Lazio, sez. I, 18 luglio 2013, n. 7442: “A una siffatta conclusione non osta la recente disposizione, di cui all’art. 23, comma 12-quinquiesdecies del D.L. n. 95/12 (convertito dalla legge n. 135/12), secondo la quale, la competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato ad accertare e sanzionare le violazioni delle norme in materia di pratiche commerciali scorrette è esclusa unicamente nel caso in cui “le pratiche commerciali scorrette siano poste in essere in settori in cui esista una regolazione di derivazione comunitaria, con finalità di tutela del consumatore, affidata ad altra autorità munita di poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati”. Invero, tutte le tre condizioni elencate nella citata previsione risultano soddisfatte dalla descritta disciplina dei cd. servizi a sovrapprezzo, essendo tale disciplina settoriale di diretta derivazione europea, orientata alla tutela dei consumatori, e affidata nella concreta applicazione all’AgCom, dotata di poteri inibitori e sanzionatori”. [8] Si rinvia all’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato, sez. VI, 13 dicembre 2011, n. 6522 e al contributo di R. Garofoli, Pratiche commerciali scorrette e rapporti tra Autorità, in Treccani, Il libro dell’anno del diritto, 2013, pag. 233. [9] Sia consentito rinviare a G. Nava, La competenza in materia di tutela dei consumatori nei servizi di comunicazione elettronica tra normativa comunitaria e principi costituzionali, in Diritto dell’Internet, Manuale operativo, cit., pag. 162. [10] Tra le diverse sentenze del giudice amministrativo ci si limita a citare, per quanto riguarda il settore delle comunicazioni elettroniche le sentenze Tar Lazio, sez. I, 18 febbraio 2013, nn. 1742-1752-1754, relative alla competenza dell’AGCOM in materia di servizi di telefonia mobile a valore aggiunto), per il mercato degli integratori alimentari la sentenza Tar Lazio, sez. I, 25 luglio 2012, n. 6962, relativa alla competenza del Ministero della Salute in materia di commercializzazione di integratori e, infine, per il mercato delle assicurazioni la sentenza Tar Lazio, sez. I, 17 gennaio 2013, n. 535, relativa alla competenza dell’IVASS nel settore assicurativo. [11] In merito si rinvia alla relazione illustrativa allegata all’atto del Governo sottoposto a parere parlamentare il 3 dicembre 2013. [12] Per comodità di lettura si rammenta che la norma prevede che: “3. In caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici.” [13] In questo stesso senso V. Carfi, Pratiche commerciali: il comma 1-bis dell’art. 27 del Codice del Consumo in Rivista della Regolazione dei mercati, 1/2014, pag. 201 e S. La Pergola, Commento all’art. 1, commi 6 e 7, in AA.VV., I nuovi diritti dei consumatori, Commentario al d.lgs. n. 21/2014, a cura di A.M. Gambino e G. Nava, Torino, 2014. [14] Anche secondo alcuni interpreti questa norma, apparentemente pleonastica, avrebbe soltanto lo scopo di rafforzare la previsione secondo la quale, in presenza di violazioni della regolamentazione che integrino anche una pratica commerciale scorretta, sarebbe in ogni caso esclusa la competenza dell’Autorità di settore ad esercitare i propri poteri di vigilanza e sanzionatori. Vedi S. La Pergola, Commento all’art. 1, commi 6 e 7, cit. [15] Di converso, come vedremo di seguito, il mero parere obbligatorio e non vincolante che consegna all’istituzione richiedente un parere che la stessa potrà liberamente valutare, salvo l’obbligo di una motivazione rafforzata in caso di scostamento, ed eventuale, successiva rilevanza soltanto nell’apprezzamento del giudice amministrativo, può implicare che divenga a breve un mero onere procedimentale, privo di effetti sostanziali. [16] Non è infatti escluso che il procedimento sanzionatorio possa essere relativo ad una pluralità di violazioni afferenti a differenti plessi normativi. [17] Peraltro appare evidente che la previsione di un mero potere di definire una regolamentazione ex ante priva dei poteri di enforcement nuocerebbe all’efficacia della norma e non sarebbe rispettoso dei basilari principi di efficienza dell’azione amministrativa. [18] Si vedano le direttive 2009/136/CE considerando nn. 15, 17, 18, 19, 20, 50, 58, artt. 3, 3 bis, 3 ter, 3 quater, 5, 19, 21 bis e 2009/140/CE considerando n. 6 e art. 4 nonché il Regolamento 1211/2009. [19] Si richiama a tal fine il principio elaborato dalla Corte di Giustizia relativo all’obbligo da parte dei giudici e delle amministrazioni di “interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva” cercando di adottare i metodi di interpretazione che consentano di dare alla disposizione nazionale un significato compatibile con la lettera e le finalità proprie del diritto comunitario. [20] Il tema della translatio iudici tra diversi ordini giurisdizionali e dei relativi effetti processuali è stato affrontato, con un bagaglio argomentativo differente, nelle sentenze 12 marzo 2007, n. 77 della Corte Costituzionale e 4109/2007 della Suprema Corte di Cassazione. [21] In questo senso si veda S. La Pergola, Commento all’art. 1, commi 6 e 7 del d. lgs. 21/2014 in “I nuovi diritti dei consumatori” cit., integrato da quanto prospettato pubblicamente dal Cons. Luigi Carbone, commissario AEEG. [22] Si fa riferimento alla delibera AGCOM n. 162/14/CONS del 23 aprile 2014 recante ordinanza di ingiunzione alla società Telecom Italia S.p.a. per la violazione dell’art. 3, comma 3, del Piano di numerazione di cui all’allegato A alla delibera n. 52/12/CIR e alla delibera AGCOM n. 142/14/CONS del 9 aprile 2014 recante ordinanza di ingiunzione per la violazione dell’articolo 2, commi 1 e 4 della delibera 664/06/CONS, in combinato disposto con l’articolo 70 del decreto legislativo 1 agosto 2003, n. 259. [23] L’apparente reticenza dell’AGCOM a valutare la configurabilità di una pratica commerciale scorretta, tranne i casi più evidenti, potrebbe essere fondata su un elemento costitutivo dell’azione delle Autorità settoriali ossia sulla pluralità di principi e di obiettivi che indirizzano l’attività di regolazione dei mercati e necessitano una ponderazione (immaginiamo lo sviluppo tecnologico, la neutralità delle reti, il pluralismo, la stabilità e lo sviluppo del mercato, la sicurezza degli approvvigionamenti e molti altri se esaminiamo le finalità pubbliche perseguite da AEEG, AGCOM, Consob, Banca d’Italia, IVASS, ART) rispetto al solo interesse del consumatore (distinto dall’utente) che viene indirizzato dalla disciplina delle pratiche commerciali scorrette di competenza di AGCM. [24] L’ipotesi autorevolmente rappresentata di applicare da parte di AGCM due sanzioni distinte (o la somma di due importi a tal fine qualificati) per la lesione dei due diversi beni giuridici (violazione della regolazione e violazione dell’interesse del consumatore) non appare praticabile in questa fattispecie, da un lato, perché la norma esclude che l’Autorità di regolazione possa intervenire nei confronti delle condotte di professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, quindi se non può esercitare il potere sanzionatorio non può essere applicata surrettiziamente l’equivalente sanzione, dall’altro perché sarebbero violati i principi della l. 689/81 preposti a definire i criteri da applicare alla determinazione della sanzione. In merito confronta M. Clarich, Le competenze delle autorità indipendenti in materia di pratiche commerciali scorrette, in Giurisprudenza Commerciale, 2010, pag. 705. [25] Così come probabilmente potrebbe accadere nel rapporto tra le norme regolamentari di matrice comunitaria e il regime di massima armonizzazione introdotto dal d.lgs. 21/14. [26] Vedi v. Carfi, Pratiche commerciali: il comma 1-bis dell’art. 27 del Codice del consumo cit., pag. 215 che correttamente palesa il rischio che possa essere avviata una nuova e più fondata procedura di infrazione da parte della Commissione europea. [27] In merito si rinvia alla nota sentenza 9 settembre 2003, Consorzio Industria Fiammiferi, (C-198/01). [28] Ordinanza del CdS di rinvio all’Adunanza Plenaria ex art. 99 c.p.a. [29] In merito a tematiche oggetto di regolazione da parte dell’AEEG si vedano i provvedimenti ENEL PS91 provv. 18829/08 e la sentenza Tar Lazio, sez. I, n. 3722/2009, PS 3224 provv. 20620/09, PS 1874, provv. 19232 e la sentenza Tar Lazio, Sez. I, n. 8399/09. In relazione ai temi oggetto di regolazione da parte di AGCOM i provvedimenti di AGCM sono numerosi e ci si limita a richiamare i procedimenti PS 77, provv. 19254/08 e sentenza Tar Lazio sez. I, n. 19893/10; PS 24 e le sentenze Tar Lazio sez. I, nn. 5625/2009, 5627/2009, 5628/2009, 5629/2009; PS 973, provv. N. 19446/09 e sentenza Tar Lazio, sez. I, n. 19892/10; PS 2077, provv. 19449/09 PS 3088, provv. 20303/09 In merito si rinvia, ex multis, a A. Catricalà – A. Lalli, L’antitrust in Italia, Il nuovo ordinamento, Milano 2010; G. Della Cananea, Complementarietà e competizione tra autorità indipendenti, in “20 anni di Antitrust. L’evoluzione dell’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato”, Torino, Giappichelli, 2010, a cura da P. Barucci – C. Rabitti Bedogni; V. Minervini, L’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato quale autorità di tutela del consumatore: verso una nuova forma di regolazione dei mercati, in Riv. dir. comm., 2010, 1141 ss. [30] “l’esperienza delle telecomunicazioni è rilevante non solo con riferimento ai contenuti, ma anche per ciò che attiene alla forma e agli strumenti della regolazione. In un contesto di “palestra regolamentare” continua sono stati sviluppati e sperimentati strumenti regolatori avanzati, anche in questo caso in anticipo rispetto agli altri settori regolamentati”, C. Calabrò, presentazione del volume AA.VV. Diritto delle comunicazioni elettroniche, telecomunicazioni e televisione dopo la terza riforma comunitaria del 2009. A cura di F. Bassan, Milano, 2010. [31] Direttiva 2009/136/CE del 25 novembre 2009 recante modifica della direttiva 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica, della direttiva 2002/58/CE relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche e del regolamento (CE) n. 2006/2004 sulla cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa a tutela dei consumatori. Si vedano, in particolare, gli obblighi previsti nella Direttiva 2009/136/CE in materia di forma e contenuti dei contratti (art. 20), di trasparenza, comparabilità, adeguatezza e aggiornamento delle informazioni da pubblicare o da fornire prima della fruizione del servizio (art. 21), di definizione e pubblicazione dei parametri di qualità del servizio (art. 22) nonché le regole per l’accesso alle numerazioni ed ai servizi in ambito comunitario (art. 28). [32] In particolare su fa riferimento alla Direttiva 2009/140/CE del 25 novembre 2009 recante modifica delle direttive 2002/21/CE che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica, 2002/19/CE relativa all’accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate, e all’interconnessione delle medesime e 2002/20/CE relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica, recepita nell’ordinamento italiano con il d.lgs. 28 maggio 2012, n° 70 che ha modificato il Codice delle comunicazioni elettroniche. [33] Il medesimo Regolamento ha altresì istituito l’Ufficio preposto al BEREC quale organismo comunitario dotato di personalità giuridica ai sensi dell’art. 185 del regolamento finanziario. [34] Si vedano, ad esempio, il Report sul monitoraggio della qualità dei servizi di accesso ad Internet nel contesto della net neutrality; il BEREC Report on best practises to facilitate consumer switching; BEREC Report on Transparency and Comparability of international roaming tariffs; BEREC Guidelines for quality of service in the scope of net neutrality; BEREC Guidance paper on article 28(2) Universal Service Directive: a harmonised BEREC cooperation process. [35] L’adozione di linee-guida e best practices a livello pan-europeo consente anche di monitorare ed esaminare i molteplici comportamenti che gli operatori adottano nelle 28 giurisdizioni e quindi di indirizzare le soluzioni di una pluralità di fattispecie concrete. Inoltre l’analisi di una pluralità di mercati, in alcuni casi più evoluti o con dinamiche competitive ancora non riscontrate nel mercato italiano consente di prevenire o indirizzare, sulla base dell’esperienza maturata in altri mercati nazionali, alcuni comportamenti potenzialmente lesivi dell’interesse dei consumatori/utenti. [36] Vedi S. Perugini, Il recepimento della Direttiva 2011/83/UE: prime riflessioni, nota n. 80, in Giustiziacivile.com, 21 maggio 2014. [37] Vedi M. Clarich, Le competenze delle autorità indipendenti in materia di pratiche commerciali scorrette, cit., pag. 697/I. [38] L’esempio più utilizzato per dimostrare la flessibilità consentita dal legislatore comunitario a ciascun Stato membro nelle modalità di attuare le previsioni della direttiva 2005/29/CE è il modello istituzionale adottato in Germania, dove vi è un sistema misto che prevede l’intervento del giudice, dei comitati di conciliazione e dell’autorità amministrativa. [39] Si rinvia ai compiti previsti in capo all’Ufficio unico di coordinamento dall’art. 3, lett. d) e art. 4, comma 1 del Regolamento CE 2006/2004 sulla cooperazione per la tutela dei consumatori. [40] La citazione riguarda gli obblighi informativi previsti dal d.lgs. 21/14 (vedi S. Perugini, Il recepimento della direttiva 2011/83/UE cit.), ma viene aprioristicamente applicato anche all’adozione di procedimenti sanzionatori relativi alle pratiche commerciali scorrette. [41] Sul tema si rinvia, ex multis, a Saccomanni, Le nozioni di consumatore e di consumatore medio nella direttiva 2005/29/CE, in E. Minervini – L. Rossi Carleo, (a cura di) Le pratiche commerciali sleali, Milano 2007, pag. 144 ss., L. Rossi Carleo, Consumatore, consumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Atti del Convegno AGCM-Luiss-Università degli Studi Roma Tre, Il diritto dei consumatori nella crisi e le prospettive evolutive del sistema di tutela, Roma, 29 gennaio 2010, in www.agcm.it; V. Meli, “Diligenza professionale”, “consumatore medio” e regola di de minimis nella prassi dell’Agcm e nella giurisprudenza amministrativa, in Meli, V.-Marano, P., a cura di, La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, Torino, 2011, 1; con un approccio parzialmente difforme si veda Bargelli, La nuova disciplina delle pratiche commerciali; ambito di applicazione, in De Cristofaro (a cura di), Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008. [42] In senso contrario si veda N. Zorzi, Le pratiche scorrette a danno dei consumatori negli orientamenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, «CONTRATTO E IMPRESA», 2010, 2, pp. 433 – 476. [43] Si veda il contributo di L. Torchia, Una questione di competenza: la tutela del consumatore fra disciplina generale e discipline di settore, cit., in particolare pag. 958. Si rinvia anche A. Catricalà, Postfazione al volume Contratto e antitrust a cura di G. Olivieri e A. Zoppini, Bari, 2008, pag. 211. [44] La dottrina economica ha efficacemente studiato le modalità e gli effetti della “cattura del regolatore”, ma non ha ancora approfondito gli impatti che gli auspicati riflessi mediatici delle decisioni in materia di pratiche commerciali scorrette (e più in generale dei procedimenti sanzionatori) possono avere a priori sulla scelta del settore merceologico e dell’impresa (nonché del marchio, più o meno notorio) nei cui confronti interviene l’Autorità, e sul livello di diligenza richiesto e dell’ammontare della sanzione applicata. [45] Un esempio della possibile applicazione del principio di specialità lo riscontriamo all’art. 71 CCE mentre non ricadono nella disciplina comunitaria che può essere applicata in virtù del principio di specialità anche in presenza di una direttiva di armonizzazione massima le norme nazionali che dettano norme di tutela dei consumatori applicabili ai mercati oggetto di regolamentazione settoriale, come la L. 481/95, la l. 40/2007 (c.d. L. Bersani) oppure il D.M. n. 145/2006 (c.d. decreto Landolfi). [46] Un importante inquadramento sistematico viene dettato, in una diversa prospettiva, dalla Corte di Giustizia che, con le sentenze Telekomunikacja Polska dell’11 marzo 2010 (C-522/08) e Deutsche Telekom del 5 maggio 2011 (C-543/09), ha ammesso come la Direttiva Quadro 2002/21/CE e la Direttiva Servizio Universale 2002/22/CE non rappresentino una armonizzazione totale degli aspetti relativi alla protezione dei consumatori, e perciò ha ritenuto compatibili con il nuovo quadro regolamentare delle comunicazioni elettroniche delle normative nazionali che avessero delle finalità pro-consumeristiche. [47] Si fa riferimento, in particolare, alle norme settoriali che hanno sinora disciplinato le attività dei professionisti che sono state oggetto di armonizzazione massima con la direttiva 2011/83/UE quali, ad esempio, il Codice di condotta commerciale della vendita di energia elettrica e di gas naturale ai clienti finali che è stato tempestivamente aggiornato da AEEG per contemplare previsioni che garantiscono una tutela equivalente al livello di armonizzazione massima dettato dalla citata direttiva. Scarica il contributo [pdf] Scarica il Quaderno Anno IV – Numero 1 – Gennaio/Marzo 2014 [pdf]

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