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Tu chiamali, se vuoi, forestierismi

di Gianfrancesco Rizzuti

Ultimi in ordine di tempo, il bail-in e la stepchild adoption. Ma l’”occupazione” è cominciata tanto tempo fa e qualcuno la definisce itanglese. È l’aumento di termini stranieri di natura apparentemente tecnica, soprattutto anglosassoni, nella lingua italiana. Non siamo tra i puristi che rigettano l’utilizzo di parole non italiane. Non esiste alcuna lingua impermeabile all’arrivo di “forestierismi”, perché vorrebbe dire che essa è morta. E fortunatamente l’italiano è ancora vivo, nonostante tutto. Ai fini di questa rubrica, cosa si cela dietro l’espandersi di parole non italiane specialmente in settori ad elevato grado di “tecnica”?

Prendiamo l’esempio del bail-in: descrive un fenomeno molto serio, il meccanismo di salvataggio di una banca dall’”interno” (“in”, appunto) appena entrato in vigore nell’Unione Europea. Il termine è balzato agli onori delle cronache per la vicenda dei bond subordinati. E si contrappone ad un altro termine inglese, bail-out, che significa salvataggio dall’”esterno”.

I primi interventi di salvataggio durante la crisi sono stati all’insegna del bail-out, come nel caso del coinvolgimento dei singoli Stati o di fondi europei a favore di banche inglesi, irlandesi, spagnole e tedesche. Il mutamento di prospettiva introdotto da Bruxelles è conseguenza dell’aggravarsi della crisi, e dell’intenzione di non far pesare sui contribuenti gli interventi di salvataggio, lasciando che le ricadute di eventuali default si esauriscano tra i più diretti interlocutori finanziari della banca. Nuove regole europee – insomma – mirano a limitare il costo di una crisi bancaria e, nel caso essa si manifesti, a risolverla con rapidità ed efficienza. Principio base del bail-in è che chi detiene strumenti finanziari più rischiosi contribuisca in misura maggiore all’azione di risanamento. Della procedura si parla molto, insomma, ma siamo sicuri che si capisca fino in fondo cosa sia? Quante trasmissioni e prime pagine di quotidiani lo utilizzano, anche nei titoli, senza che lo spettatore o il lettore ne interpretino correttamente il significato?

Proseguiamo con la stepchild adoption, ovvero l’adozione da parte di uno dei due componenti di una coppia del figlio, naturale o adottivo, del partner. In teoria è riferibile sia a coppie eterosessuali che omosessuali, ma il termine ha fatto irruzione nell’attuale dibattito politico riferendosi a coppie dello stesso sesso. Anche qui, quanto se n’è capito dalla lettura dei giornali? Eppure non passa ora che siti e social media non ne discutano.

E lo spread? Quanti titoli hanno contenuto una parola che è un concetto ampio ma che è andata riferendosi progressivamente alla differenza di rendimento tra titoli di stato tedeschi ed italiani?

Potremmo continuare. Ma ai nostri fini, a cavallo tra economia, diritto, tecnologia e comunicazione valgano solo alcune considerazioni/provocazioni:

1. La diffusione di termini stranieri sembra direttamente proporzionale alla gravità del dibattito politico che essi in qualche modo riassumono. È il caso proprio di queste tre espressioni. La politica sembra sintetizzare in un sorta di feticcio simbolico “straniero” la difficoltà di trovare una soluzione ad un problema domestico.

2. Il fatto di parlarne e scriverne tanto non implica che questi termini diventino più comprensibili. Repetita non juvant e dunque vanno trovate modalità nuove di utilizzo e diffusione, il che è una sfida anche per i comunicatori.

3. L’incapacità di tradurre in italiano queste espressioni sembrerebbe indice della debolezza della nostra lingua che non riesce più ad imporsi (come in passato) e della nostra (italiana) rinuncia al neologismo tecnico che non sia una acritica importazione dell’inglese.

Insomma, tra le missioni che accompagnano quelle della comunicazione italiana, ve n’è anche una linguistica, legata al tentativo di adattare la nostra lingua a novità e dibattiti nuovi. Mission impossible?

Questo intervento è inserito in Occhio di riguardo: la comunicazione tra tecnologia, mercato e diritto, rubrica affidata a Gianfrancesco Rizzuti, docente di Relazioni Pubbliche Economiche e Finanziarie all’Università Europea di Roma, con la collaborazione, tra gli altri, di Marco Ciaffone

18 gennaio 2016

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