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Lo “strano caso” di Market Basket
di Gianfrancesco Rizzuti Arthur T. e Arthur S. sono cugini, ed ereditano quello che dagli anni ’60 è ormai un gigante nella distribuzione alimentare del New England: la catena di supermercati Market Basket. I due proprietari sono anche manager, come capita nelle imprese familiari e nel corso degli anni sviluppano e interpretano due filosofie del business agli antipodi. A distinguerli, non la ricchezza – sono entrambi milionari – e non solo le consonanti (S, T). In realtà il primo – Arthur T. – mostra grande cura nella soddisfazione dei dipendenti, è attento alla catena dei fornitori, alle famiglie della zona nella quale l’impresa prospera. Punta a prezzi bassi ma ad un’alta qualità dei beni e dei servizi, alla formazione del personale, ad una partecipazione autentica alle vicende della comunità locale alla quale è legato da rapporti che vanno oltre la cassa di un supermarket. Ricorda bene i suoi nonni arrivati da un’Europa dilaniata dalla prima Guerra Mondiale, e come essi siano stati accolti in una nuova terra cui occorre esprimere gratitudine. Forse ha letto, ma certamente pratica la teoria degli stakeholders di Freeman e la “Social Responsibility of the Businessman” di Bowen. Il secondo – Arthur S. – ritiene che Market Basket debba perseguire esclusivamente l’interesse degli azionisti, massimizzandone il profitto e remunerandoli adeguatamente. Probabilmente ha studiato sui testi di Milton Friedman, col suo “business of business is business”. È comunque interprete fedele della teoria degli shareholders. Come nelle migliori sceneggiature, i due parenti litigano e siccome S. ha la maggioranza della società, licenzia nel 2014 T. sostituendolo con altri dirigenti. Da qui, parte la cronaca di “We are Market Basket” (New York, 2015), il bel libro scritto a quattro mani da un professore di marketing della Drexel University, Daniel Korschun – esperto ma anche appassionato di responsabilità sociale oltre che di country reputation – e dal giornalista Grant Welker. Gli autori si sono imbattuti in quello che considerano un caso unico: “la storia del movimento spontaneo che ha salvato un’impresa amata”. L’allontanamento di T. genera infatti nella comunità locale una vera e propria rivoluzione. Pacifica sì, ma partecipata e decisa. Migliaia di cittadini – manager, impiegati, fornitori, famiglie di consumatori, politici locali – si trasformano in attivisti e manifestano nella regione, occupano per settimane le prime pagine della stampa locale, dei talk show, dei dibattiti. I sindacati non c’entrano. I fornitori boicottano l’impresa per come viene ora gestita da S., mettendo a rischio i loro stessi fatturati fortemente legati ad un colosso come Market Basket. I clienti si rivolgono ai concorrenti. I cittadini scrivono petizioni e comprano pagine pubblicitarie sui giornali per esprimere fiducia a T., dissenso verso il nuovo management e preoccupazione per il futuro dell’intera comunità. I social media sono invasi da post di solidarietà per l’Arthur “buono”, censurano il nuovo management. Come nelle migliori sceneggiature, il movimento di protesta ha la meglio, e finisce con l’imporre di nuovo T. al vertice della società, spingendo S. a dimettersi dagli incarichi e a rinunciare alle quote proprietarie. Quali lezioni per la nostra rubrica a cavallo tra comunicazione ed economia? Almeno un paio.
- Nello scontro tra due visioni opposte dell’impresa, quella che va oltre l’interesse degli azionisti prende sempre più piede. Ogni cultura, anche aziendale, è diversa dall’altra. Ma l’attenzione alle variabili ambientali, sociali e di governance (ESG, in gergo) diventa sempre di più una opportunità oltre che una necessità. Tra le imprese industriali, di servizi, finanziarie.
- Come ha potuto affermarsi un movimento spontaneo come quello descritto dal libro? E in così poco tempo e con effetti così decisivi? Probabilmente qualcuno ha pianificato una campagna di relazioni pubbliche e comunicazione attorno alla vicenda. Il ritorno alla guida di Market Basket da parte di T. sembra frutto di un’armonica strategia. Che ha saputo ben coniugare e integrare strumenti di marketing, di PR, di comunicazione in un’unica direzione. Ma le relazioni pubbliche possono attecchire solo se trovano terreno fertile. E quel terreno, Arthur T. lo ha arato molto bene nel corso della sua vita professionale. La sua reputazione lo ha aiutato. Se T non avesse praticato un’attenzione autentica verso gli stakeholder, una cura trasparente delle relazioni, ogni consulente di comunicazione avrebbe fallito.
Nello “strano caso di Market Basket” si è giocata una vera sfida tra visioni del business. L’ha vinta chi ha potuto e saputo ingaggiare i suoi stakeholder con trasparenza, secondo una metrica che vede in impegno, fiducia e soddisfazione da parte dei soggetti interessati gli elementi principali di ogni relazione, pubblica o privata che sia. In questa sfida sono entrati in gioco e sono stati attivati anche i sentimenti verso una persona e il suo modo di intendere l’impresa. E forse non solo l’impresa. [*] Questo intervento è inserito in “Occhio di riguardo: la comunicazione tra tecnologia, mercato e diritto”, rubrica affidata a Gianfrancesco Rizzuti, docente di Relazioni Pubbliche Economiche e Finanziarie all’Università Europea di Roma, con la collaborazione, tra gli altri, di Marco Ciaffone. 4 dicembre 2015