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Osservazioni tra diritto e bioetica sulla disciplina dei trapianti di organi e cellule da viventi

di Massimo Passaro, Lara Prisco, Mario Ganau

Parrebbe spontaneo pensare che nell’attuale società consumistica, governata dalle logiche di mercato, la morale e le questioni ad essa connesse siano destinate ad un ineluttabile oblio. Eppure, nonostante le ideologie non pervadano più il tessuto sociale, la “domanda etica” sta acquisendo sempre più peso alla luce dei rapidi progressi della medicina. In tal senso il problema dei trapianti di organi e cellule da individui viventi rappresenta un concreto esempio di quanto la “domanda etica” sia oramai pressante. Questa premessa non è priva di rilevanza quando si passi a interpretare il problema in questione non da un mero punto di vista morale, ma nell’orbita dell’etica e dell’ordinamento giuridico.
Quando, com’è giusto che sia, l’interrogativo dal piano della morale sociale è rapportato all’etica dell’ordinamento, la risposta deve trovare il sicuro riferimento nei valori che l’ordinamento stesso esprime. Per esempio, se la scelta di lasciare a un libero mercato l’eventuale contrattazione sulle parti del proprio corpo può essere disdicevole da un punto di vista morale, essa potrebbe trovare un giorno fondamento in una legislazione che, fondata su particolari valori, dovesse appunto reputarla legittima. Da questo pressante presupposto nasce la necessità di comprendere gli attuali sviluppi delle scienze mediche e adattare il sistema legislativo a governarle adeguatamente.
Ad oggi, esistono diversi Paesi nei quali la commercializzazione del corpo umano, dei suoi organi e delle sue cellule è lecita; l’esempio più evidente è rappresentato dalla Repubblica Popolare Cinese, dove secondo le stime del Ministero della Salute di Pechino, ogni anno sono circa 1,5 milioni i pazienti in attesa di trapianto a fronte di circa 10.000 procedure effettuate (principalmente con organi provenienti da condannati a morte).
Nel nostro ordinamento, la salute è un bene primario della persona che interessa anche la collettività (art. 32 Cost.), e in applicazione di questo principio non sono ammissibili atti di disposizione del corpo che provochino una diminuzione permanente dell’integrità fisica (art. 5 c.c.). E’ quindi agevole costatare come in Italia il problema, inteso in una prospettiva assiologica qual è quella suggerita dalla sua analisi nell’unitarietà dell’ordinamento, non attiene alla volontà del singolo: la disposizione del proprio corpo, giacché tendenzialmente protesa a insidiare la persona nella sua integrità psico-fisica, trova un deciso disfavore a livello di principio, con la conseguenza che con lo stesso disfavore dovrebbe essere visto ogni atto in tal senso, a prescindere dal volere della persona.
Tornando all’esempio cinese, l’assenza di una legislazione in materia di trapianti di organi e cellule da viventi ha favorito, non di poco, il commercio illegale di organi; altrove invece (Singapore, Brasile, etc.) essa ha portato a un intenso programma di sviluppo delle biotecnologie volto a superare i problemi tecnici che limitano nella pratica clinica la creazione e l’impiego di tessuti e organi artificiali da cellule viventi eterologhe o allologhe (di altri donatori umani o animali).
Non si tratta, dunque, di una pura e semplice questione di liceità del consenso, né di libertà (a volte soltanto presunta) della persona, nel disporre di una parte del proprio corpo. Infatti, quando si parla di trapianti di organi o di cellule da individui viventi, alcuni principi assoluti quali la liceità della donazione e la liceità del trapianto, se non conciliabili in uno stesso sistema, potrebbero porre il problema che la prevalenza dell’uno escluderebbe l’esistenza dell’altro eventualmente con esso in conflitto o, comunque, lo degraderebbe a livello di principio di rango inferiore. Da ciò, si rende necessario affermare ulteriormente l’estraneità del corpo umano a qualsiasi logica economicistica che pure la promessa degli organi bioartificiali potrebbe comportare; inoltre diventa palese suggerire che, anche il loro sviluppo, data l’alta tecnologia con la quale viene manipolato il materiale biologico eterologo o allologo, dovrebbe rientrare nell’ambito della legge sui trapianti. Infatti, seppure la maggioranza dei sistemi tecnici oggi disponibili non sia in grado di sostituire completamente un organo biologico, ed il loro rapporto costi-benefici non sia completamente chiarito, è facile prevedere una loro rapida e probabilmente esponenziale evoluzione.
E’ così compito del giurista il dover richiamare qualunque operatore ai valori del sistema, affinché a questi si possa conformare l’agire umano; e del legislatore, di richiamare eventualmente il concetto di donazione che, utilizzato non in senso tecnico, ha lo scopo di evocare un atto libero, spontaneo e privo di qualsiasi fine speculativo di un soggetto a vantaggio di un altro individuo. Se poi la scienza medica è, e non può che essere, al servizio della persona, vale ancora una volta rilevare che la questione dei trapianti di organi e cellule riguarda non una “cosa” ma un individuo ed i suoi elementi vitali. Ed è questa la scialuppa alla quale aggrapparsi nel rispetto che si deve alla persona e alla sua esistenza.
In conclusione, con la moderna pratica trapiantistica anche il rapporto con il proprio corpo, in termini scientifici, biologici e clinici, è stato completamente sconvolto, ma sembra che resti immutato in termini morali e giuridici. Oggi l’organismo umano nella sua struttura biologica è diventato una “cosa” osservabile e manipolabile, cosicchè sembra esso stesso concettualmente funzionale ai poteri di controllo delle nuove tecnologie biomediche. Viviamo nell’epoca del biopotere, direbbe Foucault, un potere che tiene sotto controllo l’individuo e la sua vita. Da ciò, d’altronde, deriva la necessità concreta di disciplinare l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita dei cittadini garantendo la loro dignità e libertà.
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